Invito i lettori alla quarta e ultima tappa dell’affascinante viaggio intorno ai riti dell’uomo, tra misteri, sacro e favola. A illuminare il Cerchio della vita nelle culture del mondo e, più in piccolo, nella terra di Puglia dove sono nato, ci fanno da guida le parole di uno dei maggiori psichiatri contemporanei, Vittorino Andreoli (che unisce alle qualità di esploratore della mente anche l’eccellenza di scrittore e antropologo) e quelle di Grazia Stella Elia, poetessa degli ulivi, una vita da buona maestra ad arricchire le menti dei suoi allievi, che i naviganti di Giannella Channel hanno conosciuto in precedenti occasioni (qui il link al libro ideato per i suoi primi 85 anni).

A Grazia tocca di illuminare la fase finale della vita vista nel piccolo mondo del Tavoliere pugliese e dintorni. La combinazione tra la visione planetaria del professor Andreoli con la realtà di un piccolo mondo antico che può appartenere simbolicamente a tutti porta a un risultato di interesse profondo. (S. Gian.)

 

Chiuderà lievemente con le candide mani

i tuoi occhi stanchi di scrutare le vie

Kostas Uranis

Caro Salvatore,

c’è una morte-spettacolo che si presenta ogni giorno nelle nostre case attraverso la televisione. Una morte da teatro che si contrappone a quell’evento pieno di mistero capace di spaventare e di incuriosire, a quella morte che divide da una persona amata, da un fratello che se n’è andato troppo presto, da un padre che si sarebbe desiderato eterno. Una morte-vera, parte del teatro degli affetti che ciascuno ha dentro di sé. Una esperienza che si vorrebbe negare, capace di generare paura ma che alla fine diventa accettazione e che, entro la logica del ricordo, si continua tra immagini di vita. Frate Francesco chiamava la morte sorella “da la quale nullo homo vivente po’ skappare”. Giacomo Leopardi la invocava per liberarsi della vita (“A me la vita è male”), Caterina da Siena la desiderava per poter finalmente vivere.

Ripercorrere i sentieri della morte è come seguire un misterioso filo che passa attraverso tutti i sentimenti dell’uomo, dalla gioia al dolore: la morte è un pensiero, prima di un evento. Un pensiero che si fa cultura, punto centrale della storia del singolo e della specie umana, traccia dell’antropologia. E lungo questi sentieri si trovano segnali che, se non rallegrano, certo possono rendere più forti.

È talmente diffusa la convinzione che la morte sia un passaggio a un modo di esistere diverso dall’attuale, che la concezione di fine è tra le più rare: il nichilismo e l’ateismo sono recentissimi nella storia delle idee e della antropologia. Si può anzi sostenere che la civiltà nasca con un funerale e quindi con un rito di accompagnamento del morto in un’altra vita.

In una prima concezione si crede che il morto continui a vivere secondo uno stile precedente, come presso gli egiziani, i quali avevano bisogno nell’aldilà di un armamentarium fatto di cibi, di indumenti e, se si trattava di un guerriero o di un re, di servitori, di cavalli, di armi, o come nell’antica Cina, dove alla morte di un re venivano uccisi i suoi soldati migliori. Negli strati socialmente più bassi, spesso era la moglie a seguire il marito e per questo veniva uccisa: un rito dominante in India fino all’inizio del Novecento.

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Il Funerale a Ornans (Un enterrement à Ornans, 1850), dipinto a olio su tela di Gustave Courbet conservato al museo d’Orsay di Parigi.

In un’altra concezione, quella dell’animismo, la vita dopo la morte ha caratteristiche del tutto nuove. Anima nel significato “primitivo” sta per invisibile, è il “materiale” non percepito, per cui si può ritenere che il morto viva nella sua identica sostanza (corpo) anche se non si vede: l’anima è un uomo che agisce non visto. Ciò si inserisce perfettamente nella concezione magica e quindi nell’ambito dei poteri delle forze occulte (nascoste). Talora invisibile significa leggero, una parte del corpo che si può elevare da terra. Nelle tribù Bagado, nelle Filippine, quando una persona è in agonia e quindi sta per morire, le vengono otturate tutte le aperture del corpo, il naso, le orecchie, l’ano, la bocca, perché lo spirito non possa uscire. Una esemplificazione della percezione materiale dello spirito.

L’idea di anima priva di materialità come in Platone (le idee-essenze) è lontanissima dai primitivi e dall’animismo. Anche in questo caso, comunque, essa rimane individuale e l’uomo continua a vivere in eterno e, secondo il credo cristiano, alla fine del mondo si ricongiungerà al proprio corpo, quando anch’esso resusciterà. Un’altra concezione, quella della metempsicosi, sostiene invece la trasmigrazione dell’anima in altri corpi umani oppure di animali: soltanto dopo una lunga serie di esposizioni, come nelle religioni orientali, giungerà al nirvana, una sorta di cielo dove però viene perduta la individualità.

Da tutto questo deriva una scenografia serena della morte: un cambiamento positivo, il passaggio a una vita generalmente ritenuta migliore di quella terrestre, e per chi vive il tempo terreno poveramente e soffrendo, la morte si carica persino di desiderio, diventa morte-compagna. Come in questo schizzo poetico di Esopo:

Una volta un vecchio che aveva fatto legna nel bosco, se la caricò sulle spalle. La via era lunga. Il vecchio stremato posò le fascine e invocò la Morte. La Morte apparve e gli chiese: ‘Mi hai chiamato, che vuoi?’. ‘Dammi una mano’, il vecchio rispose.

E questo concetto della morte-compagna è rimasto vivo almeno fino a quando si è inserita una distinzione tra mala-morte e buona-morte. Due concezioni che possono essere antitetiche sia per chi muore, sia per chi gli sopravvive. Nasce l’idea della morte come dannazione oppure come salvazione con una serie di variabili che disegnano differenti paradisi e inferni. Ma ancora più importante è l’idea che il morto possa agire su chi è rimasto in vita in maniera negativa o positiva e quindi possa maledire oppure benedire. Proprio su questo duplice binario vengono promossi riti che sono ora a vantaggio del defunto, ora dei suoi familiari e del villaggio di cui egli era parte. In realtà le motivazioni si combinano poiché la buona collocazione del morto sarà la premessa perché egli divenga bene-dicente, e se i riti per una sua favorevole collocazione funzionano, egli dovrà quasi forzatamente essere grato a chi li ha promossi. Insomma nella concezione animista il morto agisce sui mortali e dunque stabilisce una relazione piena di significato, ben più che tra persone viventi poiché il morto è più potente. È così che le relazioni tra il mondo visibile e il mondo invisibile si intrecciano e fanno in modo che ognuno sia circondato di morti che agiscono potentemente.

Apriti terra senza fargli male. Avvolgilo terra

come la madre avvolge il figlio

nella veste

(Rigveda, testo indiano)

Il funerale

È un rito ambiguo poiché si fonda sulla paura del morto, sul timore che egli diventi nemico e quindi eserciti il suo potere colpendo anche i familiari. Nello stesso tempo è una festa che celebra l’avvento nel mondo degli spiriti e quindi tra i potenti.

Ho partecipato per molti giorni al funerale del capo di un villaggio Dogon nel Mali. È durato tre mesi, tra cerimonie di gioia e altre di dolore e paura, e tutta la vita del villaggio girava attorno a quel cadavere che era stato “trattato” dai maghi con essenze e unguenti e poi avvolto in lenzuola bianche.

Gli elementi che caratterizzano il funerale tra i Dogon sono: le lamentazioni, i doni, le esaltazioni. E sono gli ingredienti di ogni cerimonia funeraria. Le lamentazioni spettano alle donne e non solo alle mogli e alle figlie del capo, ma a tutte. Oltre alle espressioni di dolore, il lamento è scandito dalla musica, sempre di strumenti a percussione, che continua insistente anche durante la notte, e appare come un messaggio lugubre e ossessivo.

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I lamenti per un funerale presso i Dogon, nel Mali, sono accompagnati da musiche e danze insistenti che si prolungano anche durante la notte.

Alla musica si accompagna sempre in Africa la danza, che non è un’eccezione, un fatto da discoteca, bensì una risposta automatica al ritmo. Come un bambino recita un ritmo, ogni corpo, da quello del bambino a quello del vecchio, si muove. I doni vengono portati ai familiari da tutti a indicare che il morto può essere cattivo con chiunque e quindi occorre ingraziarselo. C’è anzi una corsa a offrire un oggetto importante o del cibo abbondante per esprimere lo sforzo della donazione, la più alta possibile. Le lodi prevedono vere e proprie danze mascherate che raccontano a episodi le gesta da vivo del morto. È un racconto teatrale poiché l’azione è rappresentata mentre il sacerdote, il vecchio del villaggio, la declama. È solo con la fine della cerimonia che il corpo viene portato sulle montagne, di notte, e misteriosamente esce di scena. Sono i sacerdoti a condurlo in una casa di montagna, ma anch’essi ignorano dove poiché hanno compiuto questo rito mascherati e dunque sotto le vesti degli spiriti.

Questi paradigmi funerari persistono anche nelle civiltà moderne, sia pure modificati. Le laudi sono ancora celebrate per i personaggi importanti (laudatio funebris), in senso più popolare vengono scolpite sulla lapide o sugli annunci di morte. I doni sono diventati floreali e in questa veste esprimono una grande fantasia e ricchezza. Le lamentazioni vengono manifestate dal dolore e, almeno fino a poco tempo fa, dall’abbigliamento, per lo più di colore nero. Il pianto è una componente ancora comune e nell’Italia del Sud può capitare ancora che si invitino donne che piangono su commissione. È costante verificare la generosità dei parenti in tema di spese funerarie che sono per lo più eccessive rispetto alle possibilità ordinarie. Insomma, è cambiata la fenomenologia ma non i paradigmi che sostengono la cerimonia.

La morte è un taglialegna,

ma la foresta è immortale

(Gesualdo Bufalino)

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Funerali di Fabiola de Mora y Aragón, ex Regina dei Belgi.

Il lutto

È il sentimento della perdita protratto nel tempo. Un legame con chi ora non è più. È un tempo variabile che può bruciare con la rapidità del rovere oppure consumarsi lento come un legno d’ulivo. Talora si spegne solo con la propria morte. È lo sforzo per mantenere in vita chi è scomparso: si ricordano di lui non soltanto i gesti ma soprattutto i sentimenti che il ricordo depura fino a renderli straordinari. Il ricordo è una memoria rivestita della pietà e quindi annebbia tutto quello che è stato sgradevole per fare risaltare quello che si è espresso nella serenità e nella gioia. La memoria è sempre selezione, non è mai – come quella del computer – obiettiva: seleziona e soprattutto dà ai ricordi il calore della soggettività. Il lutto tiene in vita un morto e lo riveste di bianco, di un candore che allora non aveva ma che ora possiede. Per questo il lutto è un legame straordinario con il passato che scorre però nel tempo presente, è esso stesso in parte già un teatro di morte. Il teatro della nostalgia che esprime la voglia del passato quando ormai non c’è più il coraggio per vivere il presente e i futuri possibili. Nella nostalgia tutto il mondo è diventato memoria, e su questo video si consuma il tempo che è come scorresse retrogrado in un passato via via più lontano.

Assieme a questo vissuto individuale, il lutto ha una propria ritualità e quindi una dimensione collettiva. Naturalmente dipende da come quel morto ha calpestato la terra, se nel successo o nell’anonimato. Se cioè è stato un personaggio pubblico oppure un anonimo. Basta entrare in un cimitero per accorgersene: assieme ai monumenti funebri, alle cappelle di famiglia, c’è una fossa comune che raccoglie ossa senza nome mescolate in modo disordinato, accatastando l’omero di uno con i metatarsi di un altro. Chi è potente sulla terra ha un lutto maestoso, come se la grandezza della città terrestre si fondasse sugli stessi princìpi di quella celeste.

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La ritualità può essere definita un nuovo funerale e contiene quel sentimento di paura del morto e di dolore per la sua morte tipici del funerale. È dunque un rivivere quella morte e l’occasione per cantare l’elogio di chi ha lasciato la terra. Ancora oggi si celebrano tridui, novene, si recitano i requiem e magari con un coro che ripropone le grandi messe dei defunti, come quelle di Mozart, Verdi, Rossini. Insomma, si rientra nel mistero, e attraverso il rito di un trapassato si percepisce il limite tra vita e morte. Per alcuni è un epilogo drammatico poiché la morte è l’incontro con il muro del nulla e per altri invece è speranza di una diversa modalità di continuare a vivere in una forma che comunque ha il carattere dell’incognita, e per questo la speranza, assieme al dubbio, è colorata di paura.

La morte è parte della vita: per questo si situa in un cerchio in cui sono indistinguibili l’inizio e la fine. La morte è così vicino alla nascita da confondersi, un’ombra che talora sovrasta la vita e talora la riempie di significato. Il cerchio è la rappresentazione della totalità, come per il mandala indiano. Una figura che relativizza ogni distinzione poiché è continuità. Anche il cerchio della vita è inarrestabile, ogni suo segmento è fine e principio: dalla nascita alla pubertà, al legame d’amore (matrimonio), alla morte che idealmente continua con il sapore di una rinascita. E tutto riprende a scorrere sulla illimitata distanza del cerchio, una linea conclusa che si muove però con il tempo fino a farsi infinita. (Vittorino Andreoli – 4. Fine)

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* Vittorino Andreoli (Verona, 19 aprile 1940), psichiatra e scrittore. È autore di libri che spaziano dalla medicina, alla letteratura, alla poesia, e collabora con la rivista Mente e Cervello e con il quotidiano Avvenire. Per l’emittente Sat 2000 ha realizzato alcune serie di programmi, della durata di circa 30 minuti, dedicati agli adolescenti (Adolescente TVB), alle persone anziane (W i nonni) e alla famiglia (Una sfida chiamata famiglia). Tra i suoi più recenti libri per Rizzoli, segnaliamo: La gioia di pensare; Il denaro vile; L’uomo di superficie; La gioia di vivere; e l’autobiografico La mia corsa nel tempo. Per Marsilio: La nuova disciplina del bendessere. Vivere il meglio possibile.

Il cerchio della vita

La morte nel Tavoliere pugliese

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Caro Salvatore,

l’amore per i cari defunti è stato sempre, qui da noi, molto sentito ed è ancora rispettata la credenza secondo la quale, nella notte tra il 1° e il 2 novembre, i morti, candidi fantasmi in processione, lasciano le tombe e si avviano verso il paese, dove si caricheranno di doni per raggiungere le case dei loro parenti. Entreranno non visti e lasceranno, nella calza appesa al letto o al camino, giocattoli e leccornie per i bimbi della famiglia. Si fermeranno per una breve sosta in cucina, dove troveranno la tavola semplicemente apparecchiata con una candida tovaglia, un pane e una brocca d’acqua al lume di una candela.

Le anime dei morti

Escono i morti in questa notte di festa: / sono ombre che vanno in tutta fretta. / È giusto, hanno da fare: / in più d’una casa si devono fermare. / Escono tutti in processione / e davanti va un cartellone / dove c’è scritto: / “Ehi, tutti zitti!” / Corrono a riempire la calza di melegrane, / carrube, melecotogne e qualche cioccolatino. / Domani si farà festa grande / con le cose lasciate dai nonni.

Molte usanze sono cambiate e tante addirittura scomparse, ma questa della “calza dei morti” e l’altra del “grano dei morti” vengono tuttora osservate. La còliba (la cölve) è un particolare dolce comunemente chiamato “grano dei morti”, un dolce che è una deliziosa sintesi di aromi e di sapori. Consta di tre elementi fondamentali: grano tenero (bianchetto), vino cotto e chicchi di melegrane, a cui si possono aggiungere mandorle tostate e tritate, noci a pezzettini, cioccolato, nocciole e cannella. La preparazione è piuttosto lunga e laboriosa, soprattutto perché il grano va tenuto per molto tempo a bagno e poi, quando diventa roseo e gonfio, si lascia cucinare fino a che i chicchi non evidenziano delle fenditure. Allora si scola e si mescola agli altri ingredienti, badando bene che il vino cotto va aggiunto al momento della degustazione, per evitare che il grano diventi duro e quindi poco gradevole. L’usanza di preparare la còliba è osservata ogni anno. Si gusta a cucchiaiate questo dolce, che è bruno, quasi nero a causa del vino cotto e pare in sintonia con la festa dei morti. Ha un’origine antica: pare che l’uso del grano sia attribuibile alla coincidenza della festa dei morti con il periodo della semina, quando i chicchi, gettati nella terra a marcire e morire, poi germogliano e questo rievoca la morte e la resurrezione dei morti, in cui credono i cristiani. Ad ascendenze ancora più lontane si può far risalire l’uso di unire al grano e al vino cotto i chicchi di melegrane, che per i popoli antichi, greci e messapi, simboleggiavano sia l’oltretomba, che la fertilità.

Come la nascita, il fidanzamento e le nozze, anche la morte è, per il popolo, un avvenimento di transizione, cioè la separazione dal mondo dei vivi per aggregarsi a quello dei morti, rappresentato diversamente secondo le civiltà e le religioni popolari.

I riti di passaggio si possono distinguere in tre categorie:

  1. di separazione, cioè il distacco del cadavere dalla casa, il trasporto al cimitero e la sepoltura;
  2. di sospensione o attesa, cioè la veglia funebre e l’esposizione del cadavere in casa e in chiesa;
  3. di aggregazione, cioè il passaggio all’aldilà e l’aggregarsi al mondo delle anime.

Gli altri elementi, cioè l’annuncio a parenti e amici, il suono delle campane, il funerale, il pranzo funebre, ecc. sono mezzi per comunicare il decesso e rendere sociale il fatto individuale.

Al momento del trapasso una donna, con delicata professionalità, si dava da fare: il cadavere andava lavato, vestito, disinfettato, profumato e composto sul letto perché, secondo la credenza popolare, doveva presentarsi perfettamente pulito e in ordine al cospetto di Dio.

Quanto ai riti osservati qui, da noi, va detto che, al giungere della morte, si coprivano tutti gli specchi della casa con drappi bianchi o neri. Sulla porta di casa di famiglie di medio e alto ceto venivano sistemati vistosi drappi neri con bordi di velluto, fiocchi e ricami dorati, nella convinzione che è la soglia, la porta, simbolico accesso al mondo esterno, a indossare i panni del lutto, primo messaggio dai colori funebri (nero o viola) al mondo di quanti sono fuori della morte.

Nella stanza funebre, ai quattro angoli del letto, si posizionavano robusti candelieri di legno dipinti con porporina.

Fino alla metà dello scorso secolo le donne parenti strette del defunto, quasi “padrone del pianto”, sedute accanto alla salma già “apparecchiata” e vestita con gli abiti migliori, messa sul letto preparato a festa, ne raccontavano il passato mistificato e felice, secondo l’adagio che recita: Sàupe o mùerte se cande u sèquele (accanto al mosto se ne racconta la vita).

Non vi era qui, come invece accadeva nel Salento e in Lucania, l’usanza di far intervenire le prefiche, da Moravia definite “professioniste del lamento funebre, pagate dalla famiglia del morto per fornire un’espressione adeguata al dolore”.

Qui erano le donne di famiglia che, vestite di nero, i capelli scarmigliati e il volto segnato da profondo dolore, raccontavano, a mo’ di lamento, episodi significativi della vita del defunto, procedendo tra loro con una sorta di rinvio (quasi un rincorrersi di voci) nella cantilena lamentosa, in base al ruolo di moglie, madre, figlia o sorella. Toccava infatti a loro raccontare, quasi cantando, ai presenti, con voce velata di pianto, le buone opere del morto e le sue virtù, mentre i presenti ascoltavano commossi. A volte sedevano composte, a volte si strappavano i capelli, eccitandosi in quella specie di nenia o lamento o nella filastrocca degli elogi (laudatio funebris).

Talvolta si assisteva alla oscillazione ritmica del busto durante il pianto o il lamento (quasi un richiamo al ritmo della ninnananna), che le donne facevano, battendo le mani sulle ginocchia.

Per il lungo piangere e urlare la voce si faceva rauca o svaniva del tutto. Poteva persino accadere che qualcuna cadesse in deliquio, scivolando sul pavimento; si cercava allora di farla riprendere, mettendole sotto il naso una pezzuola bruciata e spenta (la pézza jàrse) oppure un bicchiere con un po’ d’aceto, affinché quel forte odore la facesse rinvenire.

A un certo punto arrivava l’intero capitolo (per un defunto di famiglia benestante) dei preti, in mantellina di ermellino e cappello con fiocco a recitare le preghiere.

Preparazione alla morte

La filosofia di rassegnazione, che contraddistingueva i nostri antenati, comportava che, arrivando in modo imprevedibile, la morte non li trovasse impreparati. Così ogni donna preparava uno scatolone in cui depositava: un abito nero di seta pesante, con un corpetto ornato di pizzo, un velo nero, un paio di calze nere, qualche capo di biancheria intima, un crocifisso e un rosario nuovo, di quelli con le indulgenze di Gerusalemme.

Per l’uomo era la moglie che metteva da parte il suo abito migliore, una camicia bianca, la cravatta e le calze nere, il velo nero, la biancheria intima e il rosario di Gerusalemme. Spesso c’era anche una scatoletta con un po’ di denaro per la cassa, i funerali e il loculo. Era desiderio di ciascuno avere un funerale “da cristiano”, con la carrozza, i preti e le congreghe e chi aveva preparato tutto l’occorrente e aveva indicato il posto dello scatolone a un giovane congiunto, si sentiva sereno, quasi pronto ad affrontare il momento del trapasso.

Morte di un bambino

Il rito relativo alla morte di un bambino era completamente diverso da quello per gli adulti, a cominciare dal suono delle campane. Come tutti sappiamo, le campane hanno un loro linguaggio, variabile a seconda delle circostanze e degli eventi. Esse suonavano a mortorio per giovani e adulti, a gloria per i bambini.
Quando moriva un bimbo, lo si vestiva di bianco e su di lui si posavano fiori e confetti bianchi. Molti confetti si gettavano sulla cassa al momento dell’uscita dalla chiesa.

Il cordoglio

Il pianto rituale durava fino alla sepoltura dell’estinto (le donne rifiutavano il cibo, accettando soltanto un po’ di brodo o un caffè) e si ripeteva in seguito anche al cimitero. Il momento più drammatico, quasi da tragedia greca, era quello in cui il funerale iniziava il percorso verso la parrocchia di appartenenza. Allora l’addio si esprimeva con pianto e grida disperate. Una mamma, una moglie, una sorella usava le ultime risorse di voce e di pianto per “salutare” il congiunto estinto. Il funerale di sessant’anni fa era certamente diverso da quello di oggi. La bara, ricoperta da un drappo dello stesso colore della mozzetta della confraternita di appartenenza, era retta da sei amici intimi del defunto, mentre altri sei procedevano ai fianchi, reggendo in mano il fiocco di un cordone. Molti confratelli delle varie congreghe, nella loro divisa, procedevano in doppia fila. Al passaggio del funerale venivano chiuse le porte di case e negozi in segno di lutto, mentre i passanti si fermavano, scoprendosi il capo e segnandosi. Seguivano il feretro i congiunti in lacrime, i parenti stretti, la banda che eseguiva le marce funebri e poi gli amici e conoscenti.
Giunto in Via Marconi, il funerale si scioglieva e il feretro, messo su una carrozza con i cavalli bardati a lutto, veniva trasportato al cimitero.

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Il lutto

Il lutto rappresentava una fase intermedia, che i parenti stretti del defunto erano tenuti a rispettare, prima di riprendere la vita normale e comprendeva l’obbligo di indossare un certo costume o particolari segni, validi a rendere pubblica la perdita di una persona cara e il divieto di partecipare a balli e feste. Nel nostro ambiente una vedova doveva tenere la porta di casa per lungo tempo socchiusa, uscire di casa soltanto dopo il trigesimo e soltanto per andare al cimitero o in chiesa e vestire di nero per il resto della sua vita. In segno di lutto gli uomini si lasciavano crescere la barba, si coprivano il capo con la coppola o il cappello nero, portavano una fascia nera sulla manica di giacca o cappotto e anche un bottone nero.

Il consòlo ai congiunti del defunto

Consòlo vuol dire “consolazione, conforto, soccorso. Il pranzo funebre che viene inviato dai parenti e dagli amici nei primi giorni di lutto” (Battaglia, pag. 612).

Ebbene, secondo una tradizione tipicamente meridionale, anche al nostro paese si usa, da sempre, offrire cibo alla famiglia in lutto da parte di parenti e amici. Durante la veglia funebre arrivavano e arrivano tuttora, a casa dell’estinto, brodo, caffè, caffelatte, the e biscotti con bricchi e tazze, perché i congiunti più stretti (gli afflitti) possano almeno mettere qualcosa nello stomaco (seppundè u stömeche).

A sera, a funerale avvenuto, viene offerto un vero e proprio pranzo, a cui partecipano anche alcune persone della famiglia offerente, specialmente donne, che portano le vivande ai commensali, esortandoli a cibarsi e ricorrendo a qualche espressione umoristica, per rendere meno pesante l’atmosfera. Capita così che gli afflitti si rilassino, lasciandosi andare persino a qualche risata per una battuta o uno scherzo bonario.

Il giorno seguente, di primo mattino, i congiunti del defunto ricevono la colazione e poi si recano al cimitero per la tumulazione. Durante il giorno ricevono il pranzo e la cena e anche le visite affettuose di tante persone. Può accadere che, in ambienti benestanti, l’offerta del cibo si ripeta per otto giorni o addirittura per un mese, con l’avvicendarsi di chi offre. L’usanza di offrire cibarie ai congiunti dei defunti pare derivi dal ricordo degli antichi banchetti funebri e àgapi cristiani.

Il consòlo

Ricordo che tanti anni fa morì una nostra comare / e io – ragazzina – insieme a mia madre ci andai, da faccia tosta. / Non vi dico cosa succedeva nel vicinato: / uomini, donne, che andavano avanti e indietro… / e non vi dico poi nella casa in lutto: / candelieri, fiori, specchi completamente coperti. / Il pianto delle figlie disperato, / svenimenti, aceto, pezza bruciata, schiaffi sul viso… / Finiva di piangere una e l’altra incominciava: / una scena che sapeva di teatro. / La gente del vicinato si dava da fare: / mandava brodo, biscotti, latte e caffè, / perché a quelli sostenessero lo stomaco. / Veniamo ora al funerale: / congregazioni, confratelli, banda, tutto perfetto. / Proprio come richiedeva la costumanza, / toccò a un cugino fare la creanza. / Un consòlo alla grande, una straordinaria tavolata / per quei poveretti che non avevano mangiato. / Una volta preso l’avvio, eccoli a mangiare di lena. / Per scacciare l’ipocondria, / qualcuno diceva facezie. / Si passò così dal pianto al riso: / la comare morta era già in paradiso. / Il consòlo spesso e volentieri si fa ancora al nostro paese, / ma di questi tempi viene a costare troppo (occorre troppo denaro).

La sepoltura

Per dovere etico, oltre che umano, ai morti va data sepoltura. L’obbligo di seppellire i morti è contemplato tra le “sette opere di misericordia corporale”. Vi sono tanti tipi di sepoltura e di tombe. Per quanto riguarda l’anima, vi sono varie opinioni; c’è chi pensa che ritorni a Dio: chi ritiene che sopravviva come animale e chi è convinto che conservi l’aspetto corporeo. (di Grazia Stella Elia – 4. Fine)

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* Grazia Stella Elia, poetessa e scrittrice, è nata a Trinitapoli, nel Tavoliere pugliese. Ha insegnato per molti anni, trasmettendo ai suoi alunni l’amore per la poesia e il teatro. Si è impegnata, sin da giovanissima, nello studio del suo dialetto (“casalino”). Ha operato nel campo della cultura, organizzando convegni e incontri. È da poco in libreria il suo Aspettando l’angelo, ed. FaLvision, Bari, 2017.