“Soli 12 anni per evitare la catastrofe”, il Guardian. “Un avvertimento terribile dagli scienziati ONU”, Washington Post. “Mantenere il riscaldamento a 1,5 ° C implica un cambiamento radicale nel modello di crescita”, Le Monde. “L’ONU esorta a prendere misure drastiche contro il cambiamento climatico”, El País. Queste le prime pagine di oggi sull’ultimo, urgentissimo, report dell’Ipcc, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici. In Italia? Nulla, ad eccezione de La Stampa, redatto dall’autore di questo articolo. Nessuna prima pagina riportava la notizia? Un buco clamoroso? Verrebbe da pensare così, inorgogliendosi inutilmente. No, la verità sembrerebbe piuttosto che le redazioni delle principali testate italiane non abbiano capito nemmeno di cosa si tratti questo report Ipcc. E lo abbiano distrattamente ignorato.
Spieghiamolo brevemente. Nel 2015, quasi 200 paesi siglano l’Accordo di Parigi (foto a destra) per contenere le emissioni di gas serra, puntando a un riscaldamento medio del pianeta di massimo 2°C, con l’ambizione di abbassare l’obiettivo 1,5°C. Per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo, ogni Stato si deve impegnare a de-carbonizzare l’economia, ovvero cambiando il modo di produrre energia e le modalità di trasporto di persone e cose, efficientando il patrimonio immobiliare, fermando la deforestazione e innovando i sistemi di cattura, stoccaggio e riuso della CO2, il principale gas serra. Un impegno colossale, considerando che alcune nazioni come gli Stati Uniti hanno capi di stato che ancora pensano che il cambiamento climatico sia una bufala, tema ripreso anche da Bolsonaro l’iper-populista in procinto di conquistare la presidenza brasiliana.
Che differenza passa tra un mondo da +1,5°C e uno da +2°C. Niente orsi polari: qua si tratta di sapere se i vostri nipoti vedranno o meno Venezia (foto in apertura).
I governi a questo punto hanno chiesto all’UNFCC di revisionare la letteratura scientifica per redigere un report (oltre 6000 referenze scientifiche, curato da 91 autori da tutto il mondo) per capire che differenza passa tra un mondo da +1,5°C e uno da +2°C. Niente orsi polari: qua si tratta di sapere se i vostri nipoti vedranno o meno Venezia, scieranno a Cortina (o in qualsiasi comprensorio delle Alpi), berranno il Brunello di Montalcino (vino e caffè sono i prodotti più tutti esposti al climate change) fatto in Norvegia e avranno ancora la casa comprata da nonno con tanta fatica o se quest’ultima sarà stata devastata da un’inondazione.
Ero sicuro che in molti avrebbero prestato un certo grado di attenzione a questa mega-ricerca dal titolo “Global Warming of 1,5°C”. Così effettivamente è stato in molti Paesi. L’attesa per questo documento era elevatissima. Non solo dai climatologi o dagli ambientalisti ma anche da governi, società di assicurazioni, banche, investitori, property manager, cittadini. In Italia invece è passato quasi inosservato. Di fatto questo documento ci dice che rimanere nel obiettivo “light” dell’Accordo di Parigi, che prevede un aumento delle temperature medie a 2°C, comporterà molti più danni economici e sociali e ci renderà più esposti a situazioni meteo estreme, maggiori siccità, un aumento dei livelli del mare di almeno 0,1 metri (distruggendo così molte nazioni insulari come le Maldive o Kiribati).
Mezzo grado farà un’immensa differenza. Secondo Priyardarshi Shukla, copresidente del gruppo di lavoro dell’Ipcc, mezzo grado «potrebbe rendere più difficile il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite». Vogliamo toccare con mano cosa significa questa affermazione? Pensate a milioni di morti in più per carestie. Nuove ondate migratorie, invece che sviluppo degli stati più poveri. Mortalità infantile in crescita. Meno diritti per donne e minoranze. Vite umane perse. Se siete cinici e valutate ogni cosa in dollari: migliaia di miliardi buttati a causa degli impatti più acuti del cambiamento climatico: uragani, siccità, alluvioni, innalzamento dei mari.
Certo, impatti ambientali e sociali importanti avverranno anche con un aumento di 1,5°, avvisano gli scienziati, colpendo soprattutto i paesi in via di sviluppo, gli ecosistemi artici, regioni aride, e le isole. Oramai è troppo tardi, ci dicono i dati: siamo dentro al climate change e dobbiamo subirne le conseguenze nefaste.
La cosa più grave è il disinteresse nostrano. Cosa ci spinge a trattare la notizia più importante di quest’anno al pari merito dell’uscita del nuovo iPhone? A livello globale dovremo investire 900 miliardi di dollari l’anno se vogliamo un pianeta da 1,5° (ed evitare di morire a 50 anni per un’estate a 44°C per quattro settimane di fila). Non ci spaventa dover fare un piano di investimenti di queste dimensioni quando non sappiamo gestire i ponti delle autostrade?
È la complessità della questione che ci terrorizza? Sbagliamo noi giornalisti ambientali a non essere ancora più chiari sul tema? Dobbiamo formare redazioni vecchie e poco competenti sui temi ambientali (troppo prese dal vociare politico del pastone romano)? Abbiamo cieca fiducia nel progresso tecnologico, secondo un dogma teleologico che tutto si risolverà e verremo assolti dei nostri peccati a base di CO2? Datemi una risposta, vi prego. E cercherò di portarla in prima pagina.
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