ADDIO A MARCELLO COLASURDO, POETA DELLA TAMMURRIATA, CHE IMPASTAVA I CANTI DEI CONTADINI CON QUELLI DEGLI OPERAI


Introduzione di Salvatore Giannella -
testo di Franco Arminio

Agli inizi del terzo millennio ci avventurammo nel ventre di Napoli per incontrare (su consiglio del poeta del cinema Tonino Guerra) Roberto De Simone, regista teatrale e musicologo di talento: fu lui, recuperante della tradizione popolare campana, a parlarci per la prima volta, in una casa dove la musica era appesa ai fili con i panni del bucato, di Marcello Colasurdo, “il poeta della tammurriata” (nella foto in alto).

Incontrammo così quel cantante e attore (aveva collaborato anche con Federico Fellini), rappresentante di una degna Italia: un uomo che impastava con orgoglio e sapienza i canti antichi dei contadini del Vesuviano con quelli nuovi e graffianti degli operai di Napoli e dintorni. I tanti soldi che guadagnava con la sua arte sono stati spesi quasi tutti per aiutare “ chi non ce la faceva”

Marcello si è spento a Napoli qualche giorno fa, a 68 anni (era nato a Campobasso nel 1955). Da tempo combatteva contro gli acciacchi del tempo vissuto senza risparmiarsi e contro i micidiali attacchi portatigli dal diabete: gli furono amputati prima un piede, poi entrambi le gambe, infine perse la vista. A lui il poeta e paesologo Franco Arminio, noto da tempo ai lettori di Giannella Channel, ha dedicato una commossa orazione civile. Eccola. (S.G.)

IN MORTE DI
MARCELLO COLASURDO

Marcello Colasurdo era l’Italia che cantava a Montevergine il giorno della Candelora e adesso io vorrei cantarla qui in questa Italia che non lo conosceva.

Il suo canto era mettere fiato dentro le madonne, era un’Italia larga, primitiva, neve e sudore e vino nei cortili. Già solo vederlo metteva compagnia.

Se pensavo al suo cuore pensavo a una criniera, come se dentro di lui ci fosse un cavallo che si portava dietro le masserizie di chi non credeva all’Italia degli impieghi, all’Italia autostradale, meschina e vanitosa, corrotta e provinciale. Noi li vediamo i fratelli, sono quelli che vivono a carte scoperte, quelli che non si sono convertiti alla furbizia. Ovunque c’è una fisarmonica, un tamburello, si muove la chioma di una donna, e gira intorno alla calamita della voce. Solo questa Italia riesco ad amare, l’Italia che balla, che faceva sposalizi di tre giorni, che aveva i denti rotti.

Noi non siamo qui per tornare ai carretti trascinati dalle vacche, alle famiglie che si spartivano la miseria in una stanza, ma siamo qui per continuare a modo nostro quel tempo in cui le cose erano vere.

Io canto ovunque sia rimasta la gente che ancora somiglia ai propri luoghi, canto per chi cammina dove non c’è nessuno,
entro nelle case dove hanno lasciato i libri e i cappotti e sono andati via. Provo a raccogliere qualcosa con lo sguardo, provo a tenere nel mio giorno il fuoco dell’impensato e il fuoco di chi quel mondo ce l’ha raccontato.

Penso alla madre di Rocco Scotellaro, a chi partiva dal porto di Napoli senza una lingua che si poteva capire. Penso che abbiamo un semplice dovere: cantare la vita dei generosi, la vita di chi viene strappato alla sua terra, di chi ci striscia dentro senza essere visto,

Voglio passare il resto dei miei giorni a rendere più ardente la mia attenzione ai dolenti, voglio rubare tutte le scuse alla prudenza, voglio che sia l’abbraccio la mia unica sapienza.

Franco Arminio

CONNESSIONI A PRECEDENTI TESTI DI E SU ARMINIO
Franco Arminio (Bisaccia, 1960) non si è mai spostato dal suo paese, nell’Irpinia d’Oriente. Per vivere fa il maestro elementare. È il direttore artistico del festival di Aliano La luna e i calanchi. Ha aperto insieme ad altre persone la casa della paesologia a Trevico. Per approfondire: casadellapaesologia.org/franco-arminio

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