Asma Al Assad insieme al marito Bashar Hafiz e ai 3 figli, in una immagine dell'album di famiglia

Asma Al Assad insieme al marito Bashar Hafiz e ai 3 figli, in una immagine dell’album di famiglia

Nel racconto drammatico del giornalista della Stampa Domenico Quirico sui suoi 152 giorni di prigionia in Siria c’è un brano che mi ha riportato a un mio incontro con Asma Al-Assad, first lady siriana, avvenuto nell’ottobre del 2008 in un salotto del Grand Hotel di Rimini durante le consuete Giornate internazionali di studio che ogni anno, con lodevoli sforzi organizzativi e finanziari, organizza il Centro Pio Manzù con il suo fondatore e timoniere Gerardo Filiberto Dasi (quell’anno il tema riguardava una nuova economia morale).

Le parole di Quirico riguardano il gruppo che lo aveva preso in carico, Al Faruk: “È una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stata creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera… stanno emergendo gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro”.

Quell’accenno alla povertà come base di reclutamento per fare la rivoluzione mi era stato delineato proprio da lei, Asma Akhras, meglio nota col nome da sposata, come Asmāʾ al-Assad, moglie del presidente Bashar al-Assad. Nata nel 1975 ad Acton, Londra, figlia di un noto cardiologo siriano (Fawaz Akhras), laureata in informatica e letteratura francese, aveva lavorato nel 1997 presso la sede londinese della Deutsche Bank occupandosi dei clienti nell’Estremo Oriente e in Europa, ed era poi passata, un anno dopo, alla J.P. Morgan dove è rimasta per tre anni, fino al matrimonio.

Quella sua specializzazione di analista finanziaria e l’essere madre di tre figli avevano innescato alcune mie domande, a una delle quali dette una risposta memorabile:

Io: “Se lei avesse oggi una piccola somma da investire, come la investirebbe?”.
Lei: “Per aumentare l’educazione dei miei figli. Un figlio ben educato difficilmente sarà povero, e la povertà è la base dei mali del mondo”.

Ad altre domande, la bella Asma precisò meglio il suo impegno in prima persona in eventi caritativi, oltre che politici e diplomatici, come i progetti contro la povertà e per lo sviluppo economico della Siria, tra cui la prima ONG siriana, il Fondo per lo sviluppo rurale integrato della Siria. Con una particolare predilezione all’educazione femminile nel mondo arabo e al ruolo delle donne imprenditrici, della diffusione dei libri per bambini, dello sviluppo dell’informatica. Concetti che approfondì più tardi nel Teatro Novelli, prendendo la parola come relatrice. Questi i pensieri centrali, con una diagnosi e la storia di una donna del popolo diventata imprenditrice, che oggi fanno riflettere e aiutano a capire quanto sta accadendo in Siria, nel Medio Oriente e nel Nord Africa.

Rimini, 2008. Asma Al Assad, alle giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù.

Rimini, 2008. Asma Al Assad, alle giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù.

Questo nostro incontro di Rimini ha luogo in un momento decisamente storico, sia per l’economia, sia per i mercati finanziari di tutto il mondo. Stiamo attualmente attraversando un periodo di scompiglio senza precedenti, con i leader mondiali a fare la spola avanti e indietro per evitare un inceppamento nell’economia mondiale. Insieme dobbiamo far sentire la nostra voce affinché anche la crisi della povertà globale venga affrontata con lo stesso senso di urgenza.

La povertà colpirà le nostre vite. Sebbene questo luogo gradevole di Rimini possa sembrare molto remoto dalle realtà della povertà estrema, non lo è affatto. In ogni angolo del mondo ci sono genitori che non riescono a sfamare le proprie famiglie, persone senzatetto che non riescono a trovare un lavoro e bambini che non riescono a diventare adulti. Oggi viviamo in un villaggio globale, in cui la povertà, al pari delle opportunità, non conosce frontiere. E un giorno la povertà si aprirà una strada fino alla porta delle nostre case e in qualche modo colpirà le nostre esistenze. È più chiaro che mai che il nostro è un futuro condiviso; che la nostra prosperità, la nostra sicurezza e il nostro progresso dipendono dalla collaborazione reciproca.

In arabo esiste un detto: “Una mano non può applaudire da sola”. Per aspirare a una vera “economia morale” globale, dobbiamo agire in modo concertato così da assicurare che ogni cittadino in ogni paese possa realizzare il proprio potenziale e porre saldamente il proprio piede sulla scala della prosperità. Una società può essere valutata in base a come si prende cura dei propri membri più deboli e vulnerabili: i bambini, gli anziani e gli emarginati. Tenendo a mente tale pensiero, credo sia vero anche che la nostra umanità può essere misurata in base al livello in cui si colloca la sua linea di povertà. Il lascito della nostra generazione deve essere quello di aver innalzato tale livello, in modo che nessuno viva più nell’estrema indigenza.

La povertà ha effetti moltiplicatori. Oggi in Medio Oriente la povertà rappresenta una sfida importante con risvolti tanto economici quanto politici. Dal punto di vista economico, ci troviamo di fronte a sfide demografiche sempre maggiori, con un tasso di crescita economica sproporzionato. Dal punto di vista politico, l’instabilità e la situazione confusa che hanno caratterizzato per decenni la nostra regione geografica continuano a soffocare il nostro sviluppo sociale.

Resta ancora difficile ottenere un visione di insieme, una visione che riconosca la medesima importanza di entrambi i fattori e che cerchi di affrontarli in maniera adeguata. Finora è stato vero il contrario e ci siamo ritrovati a gestire non solo la povertà ma anche le conseguenze da essa derivanti. Dopo tutto anche la povertà ha un effetto di moltiplicazione; anzi molti dei problemi del mondo – che si tratti di immigrazione eccessiva, di estremismo o di terrorismo – affondano le proprie radici nella povertà. Fermatevi un attimo per chiedervi: a chi potrebbe predicare un estremista se la povertà non gli fornisse un pubblico? Dove potrebbe reclutare i propri seguaci un terrorista se la povertà non gli schierasse di fronte persone disperate?

Per questo ritengo che la povertà non debba essere affrontata solo in termini di cause da cui scaturisce ma come causa essa stessa.

Un caseificio con formaggi all’italiana. In Siria stiamo lavorando alacremente per un’economia morale in cui le forze di mercato spingano verso il progresso. Oggi, la sfida principale a cui dobbiamo far fronte consiste nell’assicurare che la crescita sostenuta degli ultimi anni porti prosperità e benessere ai ricchi così come i poveri, ai vecchi come i giovani…

Qual è, dunque, l’attuale volto dello sviluppo in Siria? Recentemente ho incontrato Sabah, una 55enne siriana che vive in un villaggio vicino alla città costiera di Lattakia; zona un cui è stato registrato un aumento della povertà nonostante a livello nazionale le percentuali fossero in diminuzione. Sebbene sia analfabeta, Sabah ha uno spiccato spirito imprenditoriale. Nel 2005 ha partecipato a un programma di sviluppo dell’imprenditorialità rurale organizzato da una ONG siriana in collaborazione con l’Unione Europea e con una ONG italiana.

Sabah e la sua famiglia stentavano a sbarcare il lunario, ma lei aveva un talento speciale: la produzione di formaggio tradizionale. Il programma le fece incontrare Gerardo Virgilio, un pensionato italiano esperto in prodotti lattiero-caseari, che trascorse tre mesi a Lattakia per trasmetterle le proprie competenze e conoscenze, insegnandole a produrre otto diverse varietà di formaggio, tra cui anche la mozzarella e la ricotta.

Il programma la aiutò anche con il finanziamento del mutuo e fornì a Sabah le giuste competenze di marketing e contabilità, affinché potesse produrre e commercializzare efficacemente e con profitto i propri formaggi.

In un periodo tanto breve, Sabah è riuscita a portare il proprio formaggio casereccio dalla propria cucina all’intero paese. Ha ripagato il mutuo in anticipo e, cosa più importante, ora è la principale fonte di sostentamento di un nucleo familiare di otto persone.

Ma Sabah non si è limitata a migliorare le proprie prospettive e la qualità di vita della propria famiglia, ha anche rotto il circolo di oppressione della povertà ereditaria. Creando un’attività florida, Sabah ha fatto sì che i suoi nipoti fossero la prima generazione non nata nella povertà ma nelle opportunità. Tutto ciò grazie a una donna siriana coraggiosa e a un pensionato italiano dal cuore grande: oggi li ho invitati entrambi qui per ricevere assieme a me un riconoscimento tanto prestigioso.

Il momento del coraggio è adesso. Ritengo che la povertà, al pari della malattia, sia da una parte infettiva e letale, ma dall’altra curabile, controllabile e prevenibile. Purtroppo, la natura di questa patologia è tale da non poter essere curata con una pillola magica o un vaccino miracoloso. Richiede, invece, un approccio più oculato e generale. Non ci possono essere più scuse perché non c’è più tempo. La crisi è già qui e l’emergenza è ora. Vi è di più, la situazione è troppo grave e il problema troppo complesso per adottare un atteggiamento di contrapposizione, del “noi contro loro”.

Già in passato abbiamo visto coalizioni formarsi di fronte alle avversità. È ora necessario innalzare una coalizione ampia e comprensiva che si contrapponga con convinzione e con forza ai grandi mali del nostro tempo, al fine di debellarli. Essa può essere una coalizione di coscienza, una coalizione di giustizia e una coalizione per l’umanità. È giunto il momento del coraggio e della reattività. Il tempo non solo dell’azione ma di risultati incisivi. Il tempo per tutti noi di assumerci le nostre responsabilità comuni e di adoperarci assieme per un cambiamento positivo.

Not connected

A distanza di cinque anni da quell’incontro, e nel pieno della guerra civile che sconquassa la Siria, ho cercato di contattare l’imprenditrice di Lattakia, Sabah Hasan, senza riuscirvi: not connected, è la risposta automatica che ti arriva da quel caseificio. Hanno perso i contatti anche i dirigenti, da me contattati, della ONG italiana, la Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo) di Roma, che favorì il percorso imprenditoriale di Sabah e di altre donne della provincia di Lattakia: la parrucchiera Samar al Maher, le sarte e modiste Leyla Hamdan, Adeeba Mansour e Norma Balloul, le artigiane-artiste Samaher Hassoun e Ghaida Mardini e tante altre donne degli otto villaggi interessate dal progetto.

Non sorprende questa telegrafica risposta visto che la città portuale più importante della Siria è stata al centro di esplosioni e attacchi aerei a ripetizione tra esercito e rivoltosi e ha visto in fuga migliaia di profughi.

Così come not connected è stata lei, Asma, ambasciatrice progressista del governo siriano in questi ultimi anni. Dopo quella orazione civile a Rimini, è rimasta silenziosa. La sua prima dichiarazione ai media internazionali l’ha fatta attraverso un rappresentante un anno dopo l’inizio della rivolta, nel febbraio 2012. S’è trattato di una mail al quotidiano The Times di Londra: “Il Presidente è il Presidente della Siria, non di una fazione dei Siriani, e la first lady lo supporta in questo ruolo”.
Dalle agenzie di stampa apprendo che il 23 marzo 2012 i ministri dell’Unione Europea hanno congelato i suoi beni e messo in atto delle limitazioni ai viaggi in Europa per la first lady e altri membri della sua famiglia. Tuttavia ad Asma al-Assad è ancora permesso di viaggiare nel Regno Unito a causa della sua nazionalità britannica.

Il 16 aprile 2012 Huberta von Voss Wittig e Sheila Lyall Grant, rispettivamente mogli dell’ambasciatore tedesco e inglese alle Nazioni Unite, hanno pubblicato un video di quattro minuti chiedendo ad Asma al-Assad di schierarsi apertamente per la pace e di imporre al marito di far finire lo spargimento di sangue nel suo Paese. Ma lei, la paladina della coalizione contro la povertà, non risponde. È ancora not connected.

Salvatore Giannella

A PROPOSITO

Riempiamo di contenuti il digiuno. Per la pace servono azioni concrete

di Fulvio Scaparro* per il Corriere della Sera

Nelle parole di Asma si coglie la necessità di sradicare la povertà, quella brutta bestia che teneva incatenata Sabah e che tiene incatenati milioni di cittadini del mondo ed è causa di ribellioni e di guerre civili. A quel governo del mondo che è le Nazioni Unite si chiede di operare per prevenire guerre, lutti e miseria che oggi dovrebbero comunque essere affrontate per garantire almeno la sopravvivenza dignitosa di chi fugge dai loro Paesi a cause delle guerre civili. A questo proposito merita di essere ricordato l’appello apparso sul Corriere della Sera lunedì 9 settembre, a firma di Fulvio Scaparro, che su sito di quel quotidiano cura il blog “Genitori e figli”. (s.gian.)

Nella tradizione della lotta non violenta alla violenza, pur rinunciando a bere e/o mangiare chi digiuna si nutre di intenzioni e proposte che danno un senso al suo digiunare. L’opposizione a ogni forma di guerra, la denuncia di chi con le armi si arricchisce, l’ipocrisia di chi racconta di avere le idee chiare su chi sono i buoni e i cattivi, l’empietà di chi arruola Dio dalla sua parte per sterminare gli avversari sono solo alcune tra le buone ragioni per dare voce alla protesta non violenta.

Ma io spero ardentemente che l’iniziativa del Papa del digiuno per la pace, accolta in ogni parte del mondo, si traduca in proposte per dare più potere all’impotenza Onu. Un movimento non violento mondiale può essere in grado di giungere a farsi sentire fino al palazzo delle Nazioni Unite. Incapace, direi per regolamento, di impedire il diffondersi delle guerre in ogni parte del mondo, l’Onu potrebbe uscire dalla sua impotenza occupandosi subito delle vittime civili che a milioni soccombono alla tragedia della guerra e vagano smarrite in cerca di chi dia loro asilo.

So bene che all’Onu c’è chi si occupa, facendo del suo meglio, dei rifugiati ma è ora che si raccolgano tra tutti i Paesi aderenti fondi per la creazione, ovunque sia necessario, di zone franche dove donne, bambini, anziani in fuga dalle zone di guerra, siano accolti, nutriti, curati e protetti senza distinzione di nazionalità e credo politico e religioso.

Non campi di raccolta dove sopravvivere in condizioni disumane ma villaggi provvisori dove vivere dignitosamente in attesa che la follia della guerra finisca. Queste zone franche dovranno essere interdette ai combattenti e quindi difese dai caschi blu e dotate di quanto di meglio la cooperazione internazionale è in grado di dare per assicurare vita e speranza a chi ha perso tutto.

Mi auguro che il nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino, che viene da una tradizione di pratica della non violenza, si faccia portavoce di questa urgente esigenza di sostegno a milioni di civili innocenti, da sempre le più numerose vittime di ogni guerra.

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* Fulvio Scaparro (Tripoli, 1937), psicoterapeuta, ha insegnato psicologia all’Università degli studi di Milano. Collabora con il Corriere della Sera, con il Messaggero di Sant’Antonio. Tra i suoi libri editi nel terzo millennio: Il coraggio di mediare (Guerini editore); La voglia di sorridere (Frassinelli); Vecchi leoni e la loro irresistibile alleanza con i giovani (Rizzoli); La bella stagione (Vita e Pensiero); La vita segreta del bambino (Salani); L’antispocchia (Bompiani); Vecchi con grinta (Messaggero di Padova). A questo link la bibliografia completa.