L’integrazione Ue dovrebbe prendere a modello il lento e graduale sviluppo della Confederazione elvetica, che ha garantito equilibrio tra i poteri e consenso da parte dei cittadini.

(Europe-Suisse, &#169 Mayk)

(Europe-Suisse, © Mayk)

La storia ci offre pochi esempi rilevanti di federazioni politiche di successo. Negli anni Ottanta del Settecento, nel periodo in cui furono una federazione, gli Stati Uniti erano un pugno di Stati nati da poco e scarsamente popolati, con cultura e lingua comuni, e di conseguenza non si prestano a fornire insegnamenti di rilievo per l’Europa di oggi.

Jakob Kellenberger

Jakob Kellenberger

L’esperienza della Svizzera ne offre molti di più, uno dei quali è la gestazione lenta. “Una federazione richiede tempo”, dice l’ex diplomatico svizzero Jakob Kellenberger. “Sono occorsi secoli prima che le persone che vivono nei cantoni svizzeri si conoscessero a vicenda, e poi c’è voluto un lungo periodo di confederazione prima di arrivare alla federazione piena nel 1848”. […]
Secondo Kellenberger la federazione svizzera funziona perché il centro ha saputo rispettare pienamente l’autonomia dei cantoni (mai particolarmente ansiosi di cedere integralmente la loro autorità) ed è stato sempre attento a non abusare dei propri poteri. Tutti i poteri non specificatamente delegati al governo federale dalla Costituzione svizzera, oltretutto, sono rimasti di pertinenza dei cantoni.

Con decenni di graduale integrazione alle spalle, e avendo davanti un mondo in forte accelerazione, l’Europa deve portare a termine la sua transizione fino alla piena unione politica in termini di anni e decenni, non di secoli, ma questa transizione può nondimeno seguire in parte il modello svizzero. […] Come la Svizzera, in altre parole, l’Europa necessita di un governo centrale forte ma dai poteri limitati, che sappia accogliere quanta più diversità locale possibile.
L’opinione pubblica di ciascuno Stato dovrà decidere se è nel suo interesse a lungo termine unirsi alla federazione o no.
Anche se un’Europa federale deve essere aperta a tutti gli stati membri dell’Ue, i progressi verso di essa non dovrebbero essere intralciati perché alcuni non sono ancora disposti ad arrivarci, ma d’altra parte non glielo si dovrebbe neppure imporre dall’alto. L’opinione pubblica di ciascuno Stato dovrà decidere se è nel suo interesse a lungo termine unirsi alla federazione o no. È una pura illusione credere che una forte unione politica possa costruirsi sul debole e vago impegno risultante da trattati in via di modifica. La sua premessa di fondo deve essere un mandato popolare.

Guy Verhofstadt

Guy Verhofstadt

La sede più appropriata per queste discussioni dovrebbe essere una convenzione pan-europea. Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga, e Daniel Cohn-Bendit, politico tedesco, entrambi europarlamentari, insieme ad altri hanno proposto di trasformare le elezioni del 2014 del Parlamento europeo in elezioni di un’assemblea costituente che rediga una nuova costituzione per l’Europa e che incorpori idee di questo tipo.

Come potrebbe funzionare un’unione politica in Europa? Il Parlamento europeo potrebbe eleggere il capo esecutivo della Commissione europea, che quindi formerebbe un gabinetto di ministri attingendo ai membri dei partiti più rappresentati in esso, compreso un ministro delle finanze che abbia la competenza necessaria a imporre tasse e formulare un budget per l’Europa intera. Il ministro delle finanze dovrebbe concentrarsi sul coordinamento delle politiche macroeconomiche e non sulla gestione di quelle micro-economiche.
In tale gabinetto altre posizioni si occuperebbero di gestire beni pubblici europei sovranazionali (difesa, politica estera, energia, infrastrutture e così via), lasciando gli altri aspetti nelle mani dei governi nazionali. La corte penale europea sarebbe arbitro di qualsiasi questione di sovranità che dovesse sorgere tra la commissione e gli Stati membri.

Daniel Cohn-Bendit

Daniel Cohn-Bendit

Poiché il Parlamento avrebbe maggiore potere, dovendo scegliere un capo esecutivo per l’Unione, avrebbe senso indire elezioni parlamentari basate su candidati europei, invece che sui candidati dei partiti nazionali. Dato che in tali elezioni la posta in gioco sarebbe molto maggiore, si avrebbero più discussioni e un più alto tasso di affluenza alle urne, il che comporterebbe maggiore legittimità per il risultati e le istituzioni in generale.

I partiti che hanno ottenuto meno del 10-15 per cento dei voti alle elezioni europee sarebbero presenti al dibattito, ma privi del diritto di voto. Una tale regola tenderebbe a spingere la politica verso un compromesso di centro ed eviterebbe quel genere di paralisi che può insorgere dal potere di veto dei piccoli partiti facenti parte di una coalizione.

Bicameralismo europeo. La rappresentanza sarebbe basata su un sistema proporzionale, secondo le popolazioni degli Stati membri. In questo schema l’attuale Consiglio europeo sarebbe trasformato nella camera alta della legislatura dell’unione. I suoi membri sarebbero eletti dagli Stati nazione per mandati più lunghi rispetto al ciclo elettorale più breve della camera più bassa del Parlamento, e ciò incoraggerebbe una visione della governance a più lunga scadenza. A differenza della camera bassa, che dovrebbe concentrarsi sugli interessi a breve termine del suo elettorato nazionale, la camera alta sarebbe un’istituzione più deliberativa, concentrata su questioni di più ampia portata e a più lungo termine. La rappresentanza sarebbe basata su un sistema proporzionale, secondo le popolazioni degli Stati membri. Al fine di preservare una parte delle qualità bipartisan e meritocratiche dell’attuale commissione, ogni ministro della stessa sarebbe affiancato da un segretario permanente del servizio civile europeo della propria area di competenza.

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Il parlamento del Regno Unito, il palazzo di Westminster, a Londra.
 
Il modello Westminster o sistema Westminster è una forma di governo democratica parlamentare sviluppatasi nel Regno Unito e utilizzata da molti fra i paesi che appartengono (o sono appartenuti) al Commonwealth, come Australia, India, Irlanda, Malesia, Nuova Zelanda e Singapore. Essa definisce per altri versi il parlamentarismo in senso stretto come modello di democrazia fondantesi sul ruolo esclusivo del parlamento come organo deliberativo, prim’ancora che rappresentativo, in quanto depositario in ultima istanza della sovranità del popolo che la esercita per suo tramite.

Come in un ideale “sistema Westminster”, la formulazione dei budget sarebbe di competenza della commissione e non del parlamento. Il budget della commissione sarebbe sottoposto in Parlamento a un voto per aumentarlo o diminuirlo. Un voto di sfiducia da parte del Parlamento potrebbe portare a respingere la direzione politica fissata dalla commissione, nel qual caso si formerebbe un nuovo governo. In tale contesto, le imposte e le leggi dovrebbero essere approvate dalla maggioranza di entrambe le camere della legislatura.
Qualsiasi mossa in direzione di una simile unione politica ovviamente solleverebbe una miriade di questioni spinose. Le nuove istituzioni e le loro regolamentazioni idealmente dovrebbero essere stabilite dal basso, tramite un’assemblea costituente invece che da un emendamento del trattato. Come potrebbe veramente avere seguito un simile processo dal basso? I partiti vincitori, con il maggior numero di seggi al Parlamento europeo, dovrebbero arrivare a un compromesso su un’agenda comune sufficientemente forte da rendere possibile governare.

Ma che accadrebbe nel caso in cui non ci riuscissero? E, cosa ancora più importante, un’unione politica potrebbe veramente essere unificatrice se non fosse proceduta da un processo di nation building in tutto il continente, finalizzato a forgiare un’identità comune rivolta al futuro? Ciò che più conta ora, in ogni caso, è riconoscere che il sistema attuale non funziona, e che un’integrazione più stretta, invece che meno stretta, è l’opzione più sensata e allettante.

L’unico modo di rispondere all’attuale sfida all’Europa a fronte delle molteplici incertezze, per i leader europei e le rispettive opinioni pubbliche significherebbe impegnarsi finalmente in questa trasformazione, invece di rimanere paralizzati dall’indecisione.

sitetheme_logo* Fonte: Foreign Affairs, New York / PressEurop. Traduzione: Anna Bissanti.

Foreign Affairs è una rivista bimestrale di politica internazionale, in lingua inglese, diffuso in oltre 160 mila copie. E’ stata fondata nel 1922 dal Council on Foreign Relations, organismo indipendente con sede a New York che ha come mission promuovere la comprensione della politica estera degli Stati Uniti.