Neanche ventenne, Angela s’imbarca. Il coraggio della fame e la fame di futuro più qualche fagotto caricati su una nave, dalla Toscana alla Liguria: destinazione Argentina.

Sono i primissimi anni del Novecento. Biglietto di sola andata, probabilmente un Genova-Buenos Aires, non come l’andata e ritorno dei più benestanti italiani, per esempio Edmondo De Amicis che raccontò la sua traversata della stessa tratta sul piroscafo Galileo nel suo libro Sull’Oceano.

Poi, si racconta, Angela attraversa oltre duemila chilometri a cavallo, Cordigliera delle Ande compresa, fino alla Patagonia cilena.

Angela, Angela Manzoni, probabile classe 1886, portava con se’ quel cognome che a bordo del bastimento, nella sua classe, in pochissimi, forse nessuno sapeva che lei avesse in comune con il padre del romanzo storico italiano.

Angela, con gli 8.769. 749 italiani che tra il 1901 e il 1915 emigrarono nel mondo (rielaborazione dati Istat in Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, Roma, Cser, 1978). Pensare che tra il 1881 e il 1890 solo il 29% dell’immigrazione italiana in Argentina fu femminile. Lei c’era.

Così Angela scoprì il suo futuro: fu in quel cuore del Cile che il suo sguardo intercettò lo sguardo di un giovane Mapuche, etnia amerinda, indigena.

Occhi negli occhi, l’immaginario che diventa presente, famiglia, storia da vivere.

Cosa ha in comune la storia di questa giovanissima toscana e del suo compagno indio con quella del pluripremiato Sepúlveda? No, non solo il fatto che Angela Manzoni e il ragazzo Mapuche fossero i suoi nonni materni. Qui il cerchio inizia a chiudersi. Da questo momento, le scelte, i destini, come gli sguardi della ragazza toscana e del suo amore, si intrecciano e prendono senso.

Avevamo appuntamento per un’intervista a Bari: era l’estate del 2005 e per le pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno dovevo incontrare Luis Lucho Sepúlveda che avrebbe ricevuto in serata il riconoscimento speciale della giuria del premio letterario Città di Bari.

Il tempo di salutarci. Lui gentile, cordiale ma sempre sull’allerta e netto. Mi disse subito: “Guardi, sono nemico dei premi letterari nei quali c’è sempre grande corruzione”, e giù a elencarmi esempi italiani. Quale premiato l’avrebbe mai dichiarato? Nessuno!

Restai interdetta qualche secondo ma poi non mi trattenni dal domandargli perché fosse allora venuto in Puglia a ritirarne uno, di premi. Spiegò:

Sono qui perché in una parte misteriosa del mio corpo abita l’anima, lo spirito di una dolcissima e poverissima ragazza toscana che lasciò con i suoi fratelli la sua terra e s’imbarcò per l’America Latina, per una nuova possibilità di vita. Questa ragazza, mia nonna, arrivò in Cile in cerca di speranze. Per lei sono ora qui, perché condivido gli obiettivi di questo premio: aiutare scrittori e lettori a scoprire parti di se’ che non conoscono. E poi qui c’è il valore aggiunto di una giuria popolare fatta soprattutto di giovani lettori.
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Brindisi, luglio 2005: Luis Sepùlveda durante la presentazione di un suo libro nello stesso giorno in cui ricevette il Premio Città di Bari – Tatarella. Fu in quell’occasione che la cronista Maria Paola Porcelli, autrice dell’articolo, conobbe e intervistò il grande scrittore cileno, vincitore anche dei premi Chiara alla carriera ed Hemingway per la letteratura e, singolare coincidenza il premio Alessandro Manzoni (stesso cognome della nonna) assegnatogli nel 2015 “per aver saputo coniugare letteratura e impegno civile, vivendo e raccontando formidabili passioni, nella certezza che sarà sempre e soltanto l’immaginazione a cambiare il mondo”.

Anche con la scrittura Sepúlveda resisteva agli incubi delle violenze subite dal regime. Mi confessò:

Sì, ma con l’equilibrio e la saggezza che la mia famiglia ha saputo trasmettermi con il lavoro e con la disciplina, nel ricordo e nella stima profonda per Salvador Allende la cui immagine saluto ogni mattina prima di incominciare.

Guardia personale del presidente cileno Salvador Allende, Sepúlveda viene arrestato la prima volta fin dal golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973: torturato, liberato dopo sette mesi grazie alle pressioni di Amnesty International.

Già, l’11 settembre del 1973, è qui il punto: la stessa data in cui, con la presa del potere, il dittatore avvia la sua politica di repressione contro le minoranze etniche del Paese, Mapuche in testa; l’etnia cui apparteneva il marito di Angela Manzoni, nonno di Sepúlveda. Proprio i Mapuche, descritti dai colonizzatori spagnoli come popolo fiero e tenace che perfino loro ritenevano degno del massimo rispetto. L’accanimento di regime contro Lucho fu forse legato anche alle sue origini etniche?

Per capirci di più, per esempio, sfoglio il numero 4 del novembre 2004 della rivista storica spagnola on line Pensamiento critico. In un saggio che vuole dimostrare come le condizioni politiche e sociali dei Mapuche dal 1970 furono conseguenza di quanto di tragico accadeva in Cile in cui comunque questa minoranza resistette con forza e mantenne un ruolo protagonista, lo storico Fernando Camacho Padilla scrive:

L’arrivo di Salvador Allende nel 1970 fu una nuova tappa per il popolo Mapuche, poiché per la prima volta dall’arrivo dei Conquistadores furono varate varie leggi che portavano a importanti trasformazioni socioeconomiche favorevoli ai loro interessi… La vittoria elettorale di Allende fu salutata con gioia da un ampio settore della società cilena, tra cui molti Mapuche, che ora hanno visto con Unidad Popular l’opportunità di essere ascoltati e supportati istituzionalmente per il recupero di gran parte dei loro territori ancestrali.

E poi la svolta:

Tuttavia questa situazione è cambiata con il colpo di stato di Augusto Pinochet nel 1973, che ha ripristinato l’oppressione e la disuguaglianza per il popolo Mapuche.

Solo nel 2017 il presidente della Repubblica cilena Michelle Bachelet ha chiesto ufficialmente scusa al popolo Mapuche per le sofferte violazioni dei loro diritti:

Certo, l’autore di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare aveva avuto modo di dichiarare che “il sangue Mapuche è forte e in me scorre quel sangue”. Ma a indagare un po’ su questo sangue, sul carcere e sulle torture subite dal politico e intellettuale cileno recentemente scomparso e sulla persecuzione golpista che tentò orrendamente di annientare quegli indigeni, i fatti non appaiono più come mere coincidenze.

Il resistere tenace del Sepúlveda testimone di libertà? Dopo averlo conosciuto personalmente, dopo averlo intervistato, ora che non c’è più mi piace pensare che la sua parola “rivoluzionaria” gli derivasse in effetti anche da quella sua discendenza, dagli indomiti Mapuche che Pinochet provò e invano a eliminare. In Patagonia era arrivata a cavallo sua nonna italiana e lì aveva conosciuto l’amore.

Là dove finisce la terra è uno dei titoli di Lucho e là, là dove finisce la terra, in quel vento, voglio pensare che volteggeranno per sempre le sue ceneri.

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Maria Paola Porcelli (Bari, 1962), giornalista free lance, già collaboratrice per le pagine culturali della Gazzetta del Mezzogiorno, del Corriere del Mezzogiorno di Puglia e Campania, del settimanale Oggi dalla Puglia. Ha pubblicato interviste, inchieste e servizi per diverse testate pugliesi e nazionali. Per i libretti di sala della Fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e teatri di Bari ha pubblicato sinossi e interviste a direttori d’orchestra, registi e scenografi. A sua firma è appena uscito in Francia per Éditions L’Harmattan il volume Au milieu du théâtre: A quell’amor ch’é palpito. Du roman-feuilleton à l’Opéra global. In arrivo le edizioni in altre lingue.

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