Invito i lettori alla terza tappa dell’affascinante viaggio intorno ai riti dell’uomo, tra misteri, sacro e favola. A illuminare il Cerchio della vita nelle culture del mondo e, più in piccolo, nella terra di Puglia dove sono nato, ci fanno da guida le parole di uno dei maggiori psichiatri contemporanei, Vittorino Andreoli (che unisce alle qualità di esploratore della mente anche l’eccellenza di scrittore e antropologo) e quelle di Grazia Stella Elia, poetessa degli ulivi, una vita da buona maestra ad arricchire le menti dei suoi allievi, che i naviganti di Giannella Channel hanno conosciuto in precedenti occasioni (qui il link al libro ideato per i suoi primi 85 anni).

A Grazia tocca di illuminare il rito nuziale visto nel piccolo mondo del Tavoliere pugliese e dintorni. La combinazione tra la visione planetaria del professor Andreoli con la realtà di un piccolo mondo antico che può appartenere simbolicamente a tutti porta a un risultato di interesse profondo. Vengono evidenziati tre modelli: uno arcaico, dove matrimonio fa rima con patrimonio; un modello religioso; infine quello delle società attuali, dove le originali motivazioni del matrimonio sono nel frattempo cambiate, fino a perdere sacralità e ritualità, arrivando talora a ‘industrializzare’ persino il legame d’amore. Tre modelli, tre approfondimenti, tre occasioni per riflettere sulle regole – per i cattolici addirittura ascritte a volontà divina, dunque sacramento – che le società umane si sono sforzate di dare a questo rito. Buon viaggio anche a voi, naviganti di Giannella Channel. (S. Gian.)

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“Le nozze” (1910), dipinto a olio su tela di Marc Chagall. La tematica delle nozze è profondamente sentita in tutta l’opera di Chagall.

Caro Salvatore,

dobbiamo agli studi dell’etnologo inglese di origine polacca Bronislaw Malinowski l’aver chiarito il fondamento economico del matrimonio non soltanto nelle società moderne ma anche e soprattutto in quelle “primitive”. Il tabù endogamico, cioè la proibizione di prendere moglie all’interno dello stesso clan, trova la sua ragione principale nel fatto che questa unione limita o esclude un vantaggio economico, ed è infranto solo per la casta suprema, per i capi, il cui problema è semmai quello di mantenere il loro livello di ricchezza, superiore a ogni altro. L’incongruenza fra un tipo di matrimonio ammesso nella famiglia di un capo e proibito per il resto della popolazione non entra né in una complicata “logica” magica, né tra regole eugenetiche, bensì in un preciso e semplice piano economico.

Malinowski si è occupato, tra il 1929 e il 1935, delle popolazioni delle Isole Trobriand, un piccolo arcipelago vulcanico dell’oceano Pacifico, a sud-est della Nuova Guinea, e attraverso minuziose osservazioni ha potuto stabilire che con l’esogamia la donna che va sposa a un uomo deve portare una serie di regali, quasi sempre di origine alimentare, e che di conseguenza il clan dello sposo si arricchisce di beni e di cultura. Il matrimonio è contemporaneamente un legame di coppia tra marito e moglie ma anche tra clan differenti, e ciò serve a diminuire l’aggressività tra i due villaggi e ad avere maggior forza nel difendersi da eventuali terzi aggressori. È così chiaramente sottolineata la separazione tra sesso (amore) e matrimonio. Nelle Trobriand il sesso è la premessa e il richiamo a un possibile legame, ma finché rimane a questo livello è ignorato sul piano della società. Perché diventi matrimonio occorre che il rito sia pubblico, celebrato coram populo, e avviene quando la ragazza entra nella capanna della famiglia dello sposo e dunque visibilmente ne diventa parte. Ma assieme a questo ingresso della donna, quello che suggella il matrimonio è il regalo che la famiglia di lei porta a quella di lui, “esposto” per pubblica testimonianza davanti alla capanna. Da questo momento la famiglia della sposa si impegna a dare un sostegno alimentare per tutto il periodo del matrimonio (generalmente una volta all’anno subito dopo il raccolto). Insomma, il matrimonio è un legame pubblico sancito dai doni, anticipazione di un’economia che invece di esprimersi in prodotti (in questo caso cereali e pesce) si attua con le monete.

La sessualità non è dunque la base del matrimonio primitivo, che non è un affaire à deux, ma ha una funzione comunitaria e dunque economico-sociale. Due giovani che sentono un’attrazione sessuale la realizzano come un evento privato, privo di interesse sociale. Il vero rituale del matrimonio è economico, e si fonda sullo scambio dei regali che, sia per entità sia per liturgia, risente del rango al quale appartengono gli sposi: stato sociale che talora proibisce il matrimonio per differenza di casta, ossia per un legame economicamente non vantaggioso per il clan più forte. I regali di nozze entrano dunque in una complessa psicologia che non si allontana da quella dei doni fatti agli dei, che pure servono a un legame, questa volta tra uomo e divinità. Il maggior vantaggio va allo sposo, e quindi il matrimonio lo rende economicamente più potente. Nel rito dei doni anch’egli e la sua famiglia devono tuttavia rispondere alle offerte della sposa soprattutto per esprimerne il gradimento. Lo fanno con i ‘preziosi’, regali senza funzione alimentare e di carattere simbolico: una collana di conchiglie o un alimento raro. È curioso che tutto questo rituale, sia pure trasformato, avvenga abitualmente nei matrimoni di una società civile, come la nostra.

Oggi i regali vengono fatti dagli amici, dai conoscenti: si tratta di un’estensione del concetto di famiglia come prova dell’evento pubblico. Anche oggi è impensabile un matrimonio senza regali, e la loro consistenza indica la classe economica. Ancora oggi rimane separata la funzione sessuale da quella sociale. La prima si consuma rapidamente, ma ciò non deve togliere nulla alla funzione sociale, senza la quale ogni famiglia sarebbe destinata a rompersi.

Nelle isole Trobriand, dopo il rito non è più possibile l’infedeltà, che può essere colpita persino con la morte. Soltanto al capo è concesso avere più mogli, e l’origine di ciò si lega alla vastità del territorio e al numero dei villaggi che vi sono compresi. Ognuno pretende di dare al capo una propria donna in moglie come segno di un legame paritario. Se il capo avesse una sola moglie, si potrebbe costituire un legame privilegiato con la comunità che essa rappresenta. È regola che alla morte di una moglie il villaggio di origine gliela sostituisca.

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Sposarsi in bici a Cesenatico.

L’economia sacra nel modello egizio-ebraico-cristiano

Il matrimonio nella cultura egizio-ebraico-cristiana si caratterizza soprattutto per l’importanza data al padre come centro e autorità sia della vita sociale sia della religione. Dall’idea egiziana del re-dio a Javhè, fino al sacerdote e al pater familias. Una società patriarcale-sacra, dunque, ed è in questo insieme che viene potenziato il rito economico trasformando un contratto sociale in uno socio-religioso. Il legame non è più espresso dal dono in beni alimentari e quindi come soluzione ai bisogni della sopravvivenza della coppia, ma con simboli. L’anello che ancor oggi entra nel rito cristiano è simbolo di un’unione fisica, del nodo coniugale con il quale venivano legati i corpi degli sposi o della commixtio sanguinis, in cui due ferite rispettivamente del marito e della moglie venivano unite per favorire “uno stesso sangue”.

L’anello ha una serie di significati, tra cui la perennità del legame: il cerchio non ha un punto terminale e quindi si continua eterno. L’anello assume un potere magico e lo mantiene nel tempo sino ai re taumaturghi che con esso guarivano attraverso una ritualità regale la scrofola (adenite tubercolare). Il legame da “anello” è dunque perenne, si esprime in Egitto con la legge per cui la moglie deve morire insieme al marito e accompagnarlo nella vita della tomba. Un concetto che ritroviamo ancora laddove alla morte del marito la vedova si veste di nero a indicare che è morta socialmente. E ciò contrasta con l’abito nuziale bianco che esprime vita, giorno e luce, e non appunto morte, notte e buio. Candidus indica quello che sta per cambiare e quindi una mutazione propria di tutti i riti di passaggio, da cui la parola candidato. Il bianco è il colore del battesimo, della consacrazione. Non ha nulla a che fare con la verginità, che è un’idea tardiva nella storia dei matrimoni, tipicamente cristiana, legata al Nuovo Testamento ma in particolare al culto della Madonna, madre di Dio.

L’anello è presente in molti riti cristiani, basti citare l’anello piscatorio, il sigillo pontificale, che viene spezzato alla morte di ogni papa come segno che si è rotto il legame tra terra e cielo. L’anello matrimoniale è portato anche dalle religiose a simbolo del legame con Cristo.

Nelle società guerriere, dove dominava il principio della conquista, anche nei confronti della donna, se un giovane desiderava sposare una ragazza, disegnava per terra un grande cerchio, una sorta di ring (che vuol dire anello), vi metteva dentro la donna ambita e invitava qualsiasi pretendente a battersi con lui. La cerimonia avveniva davanti a tutta la comunità. Nel ring si svolgeva la lotta, e chi era buttato al di fuori del cerchio non aveva più diritto alla donna. Quando terminavano le lotte, si celebrava l’unione. L’anello non è altro che la rappresentazione di una conquista, sta a indicare insomma che si è combattuto e si è vinto, e dunque si è ottenuta una proprietà. Il concetto di lotta è insito anche quando la conquista è di carattere prevalentemente psicologico. La letteratura è ricca di esempi di veri e propri assedi per conquistare quello che nel linguaggio gentile si chiamava il cuore della donna.

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Due sposi in Moldavia. Per il rito del matrimonio bisogna fare un chilometro a piedi per arrivare al monastero. Percorso non facile per chi ha scarpe e tacchi alti (foto di Vittorio Giannella).

La caduta del rito e l’economia superflua nel matrimonio contemporaneo

L’economia industriale “unifica” gli sposi, nel senso che entrambi contribuiscono al sostegno familiare, e soprattutto il matrimonio non è più ancorato alle famiglie d’origine. In economie molto flessibili i ruoli nella gestione economica possono essere talmente mutevoli da porre una moglie in posizione addirittura dominante rispetto a quella del marito o, più spesso, in una parità. L’altro importante cambiamento nel matrimonio contemporaneo è nella caduta del rito e dunque del significato di metamorfosi: c’è una perdita del significato del sacro che è stato sostituito dall’estetica, dal gusto, dal gioco. Il gioco è il sacro laicizzato, svestito del mistero. E dunque la festa del matrimonio è diventata spesso un rito vuoto, consumistico e non più misterico. Per questo non si tratta di una vera celebrazione nel senso della partecipazione, e c’è dunque perdita dell’effetto magico del legame che lo manteneva nel tempo. In quello cristiano è lo stesso Dio a unire, e ciò che Dio unisce nessuno può sciogliere: una frase stupenda, ma bisogna crederci, non ritenerlo solo un verso poetico. Una parola magica trasforma la realtà, agisce; un verso suscita sentimenti ma non trasforma.

Maggiore importanza viene data nel matrimonio attuale all’amore, che invece in quello arcaico era un aspetto secondario: basti pensare che spesso i padri sposavano (e sposano, come per esempio avviene ancora in India) i figli neonati, e dunque stabilivano promesse senza il consenso e senza l’amore. Ma l’amore non è un sentimento da legame perenne: ogni amore finisce. E si consuma più rapidamente laddove è sostituito dall’attaccamento agli oggetti, al successo personale. Allora è fatale che il matrimonio pian piano si spenga fino a rompersi, come sta accadendo con crescente frequenza nelle società occidentali (una recente statistica sulle famiglie inglesi ha dimostrato che ogni due matrimoni c’è un divorzio, e che un bambino su tre nasce da una donna sola), compresa l’Italia.

L’amore è perlopiù la motivazione dell’incontro, proprio della fase di fidanzamento, ma generalmente si allenta già prima della celebrazione del matrimonio. Così, in una società dove si vive alla giornata; dove il valore degli affetti è in ribasso; dove domina la cultura delle decisioni provvisorie e reversibili; dove spesso le difficoltà del rapporto vengono affrontate con la logica del telecomando, con cui si cancella un programma tv che non ci piace; in questa società, se il legame rimane, spesso non è più d’amore ma diventa nevrotico. Uno studioso del comportamento umano vede instaurarsi il cosiddetto “doppio legame” (come lo chiama Gregory Bateson, “l’inventore dell’ecologia della mente”): in questo caso, il desiderio di rompere il matrimonio genera un senso di colpa che lo ripristina immediatamente. Il doppio legame si caratterizza per una fase aggressiva che attiva, appunto, la colpa, e che obbliga a un rimedio d’amore, che serve però soltanto per mostrare quanto esso sia inesistente e conflittuale tanto da fare ripartire il desiderio della separazione.

Dopo un certo numero di anni un legame d’amore in una società così strutturata sul superfluo e non sull’essenziale può sciogliersi o fissarsi invece il più delle volte su criteri patologici, producendo frustrazione e talvolta violenza. Una situazione critica nella quale si inseriscono anche i figli che, a differenza del matrimonio arcaico (dove uscivano dalla famiglia in età puberale), qui rimangono legati molto a lungo e dunque fanno parte di un insieme disarmonico.

L’attuale società industriale ha dunque, a mio parere, sostanzialmente tradito l’istituzione matrimoniale e, se la vuole riconquistare e mantenere salda, deve riscoprirne il significato rituale e sacro. Sacro vuol dire che il legame ha un valore oltre l’amore, oltre il sesso, oltre i figli (almeno dal momento della loro autonomia fisica e mentale), ma si àncora su una unione che ha significato storico e contemporaneamente misterico, e dunque “religioso”. Sacro vuol dire abbandonare la logica del corpo, dell’estetica, di quel che è mutevole nel tempo, e innalzare l’unione sul pilastro delle motivazioni che non si consumano nel presente ma diventano un progetto per il futuro di un insieme composto da un uomo, una donna, i loro figli: insomma, non più progetti di un singolo staccato da tutti gli altri. (Vittorino Andreoli – 3. Continua)

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* Vittorino Andreoli (Verona, 19 aprile 1940), psichiatra e scrittore. È autore di libri che spaziano dalla medicina, alla letteratura, alla poesia, e collabora con la rivista Mente e Cervello e con il quotidiano Avvenire. Per l’emittente Sat 2000 ha realizzato alcune serie di programmi, della durata di circa 30 minuti, dedicati agli adolescenti (Adolescente TVB), alle persone anziane (W i nonni) e alla famiglia (Una sfida chiamata famiglia). Tra i suoi più recenti libri per Rizzoli, segnaliamo: La gioia di pensare; Il denaro vile; L’uomo di superficie; La gioia di vivere; e l’autobiografico La mia corsa nel tempo. Per Marsilio: La nuova disciplina del bendessere. Vivere il meglio possibile.

Il cerchio della vita

Il matrimonio nel Tavoliere pugliese

Caro Salvatore,

nella prima pagina del capitolo Il matrimonio ieri e oggi del mio libro “Il matrimonio e altre tradizioni popolari” (Levante editori, Bari 2008) avevo riportato varie definizioni del lemma “matrimonio”. A distanza di otto anni ritengo che sia arduo definire il matrimonio alla luce di forti, complessi cambiamenti che si riscontrano nell’ormai difficile rapporto tra uomo e donna. Io però, come già ti dissi all’inizio di questo lavoro da te proposto, parlerò del matrimonio relativamente al primo cinquantennio dello scorso secolo, seguendo, summa capita, le tracce del volume già menzionato.

Erano, quegli anni, ancora legati agli usi e costumi che si imponevano come regole inderogabili. Si dava per scontato, allora, il concetto chiaramente espresso nell’adagio che recita:

U matremönie jé na pézze ca, na völte chesóute, na nźe scóuse cchiü.
Il matrimonio è una pezza che, una volta cucita, non si scuce più.

L’incipit di una relazione amorosa toccava certamente all’uomo, il quale doveva approfittare di celebrazioni e feste religiose per “adocchiare” una ragazza. Il giovane che intendeva sposarsi spesso si lasciava indirizzare dalla madre, che teneva conto della condotta trasparente e limpida, oltre che della comune appartenenza di rango sociale. Elemento non ultimo da valutare era la “dote”, il cosiddetto “buon partito”. Accadeva così che le figlie di proprietari terrieri o di facoltosi commercianti convolassero presto a nozze, anche se non risplendevano di bellezza e intelligenza.

Il fidanzamento era un evento molto importante che accadeva dopo una formale richiesta da parte dell’uomo, in seguito alla quale i genitori della ragazza, assunte le dovute informazioni sulla rettitudine di lui, davano una risposta affermativa per un incontro ufficiale. Questo avveniva di domenica: i genitori di lui si recavano a casa di lei dove, ragionando del più e del meno, si giungeva a toccare lo scabroso argomento della dote: il corredo, i beni, il denaro, la durata del fidanzamento e le ferree regole, per lui, da osservare. Nessun incontro fortuito, ore prestabilite degli incontri con lei in presenza della madre e rare uscite con lui, con la costante vigilanza materna. Si stabiliva intanto il giorno in cui festeggiare il fidanzamento, con balli e cibarie caserecce. In tale circostanza avveniva lo scambio degli anelli.

Non di rado i genitori di una ragazza, vedendo scarseggiare le richieste di matrimonio per la figlia, si rivolgevano a un intermediario (u zanźöne), capace di trovare l’uomo giusto, con i dovuti requisiti.

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Sposa Angela Curci, Trinitapoli 1956. Questa e le prossime immagini sono tratte dal libro “Il matrimonio e altre tradizioni popolari”, di Grazia Stella Elia, con presentazione di Manlio Cortelazzo. Levante editore, Bari, 480 pagine, euro 40.

Il corredo e la dote

Un’importanza davvero grande si attribuiva al corredo, a cui la mamma di una figlia cominciava a provvedere ben presto, spesso fin dalla nascita. Il corredo variava in base alla classe sociale: partendo da un minimo di “panni a quattro” fino ad un massimo di “panni a quaranta” (quaranta capi per ogni tipo di biancheria).

Vanto delle famiglie più facoltose erano i corredi meravigliosi, ricamati a mano. “Bianca è la Puglia del ricamo”, dice Lino Patruno in Puglia e Basilicata – La natura e i segni dell’uomo (pref. di Franco Cardini, Editoriale Giorgio Mondadori, Milano 1996).

Le ricamatrici sulla porta di casa erano le protagoniste del paesaggio umano nel tempo innocente del pane e delle lucciole. […]. Le monache hanno trasmesso a discepole volenterose l’arte bianca del ricamo.

Data l’entità pecuniaria di un ricco corredo, si riteneva opportuno, prima delle nozze, redigere presso un notaio le cosiddette “carte di capitolo”, contenenti un lungo, dettagliato, puntiglioso elenco di tutti i capi di biancheria e vestiario, oltre che dei mobili e utensili vari. Ciò non accadeva, naturalmente, per le classi meno abbienti, che cercavano di rimediare un corredo povero, assolutamente non sfarzoso. Toccava anche allo sposo portare in dote un corredo confacente alla propria classe sociale.

Molto impegnativi e faticosi erano i preparativi per il matrimonio. Al suo avvicinarsi molte erano le incombenze per la sposa e la sua famiglia: imbottire di bambagia l’apposita coperta (la cuvèrta mbuttéte), uno dei capi più emblematici del corredo, che comportava la realizzazione di una piccola festa; le pubblicazioni di matrimonio, l’esposizione del corredo e l’organizzazione della festa nuziale. Per l’imbottitura della coperta, che era fatta di broccato rosso da un lato e giallo dal lato opposto, si richiedeva la presenza di pochi intimi (la suocera in primis), che gettavano sulla bambagia non solo santini, ma anche confetti e cioccolatini. In occasione delle prime pubblicazioni si dava l’incarico di comunicare l’evento a parenti e amici a una donna, la quale si recava a casa delle famiglie segnate su un foglio a purtè l’allégre, a portare l’allegra notizia. Quelle famiglie erano automaticamente invitate per la domenica successiva alla festa da ballo che si sarebbe svolta a casa della sposa.

Evento rilevante era anche quello dell’esposizione e della consegna del corredo, che doveva accadere una settimana prima del matrimonio. Alle pareti di una stanza (che spesso era l’unico vano della casa) si fissavano le funi e a esse si poggiavano le coperte, mentre sul letto e sui tavoli si mettevano lenzuola, tovaglie, biancheria intima, calze, maglie… Sia in casa della sposa, che in casa dello sposo, per un giorno intero parenti e amici potevano guardare, ammirare e osservare quanto era esposto. Molto attenta a giudicare ogni cosa era la suocera, sempre pronta a ogni rilievo su ciò che, secondo lei, mancava o non era di buona qualità.

Dopo l’esposizione il corredo, messo in ordine in ceste capienti, veniva trasportato nella nuova casa degli sposi. Una vera e propria impresa era la preparazione di quanto atteneva alla cerimonia nuziale, al pranzo e agli invitati. I mesi ritenuti giusti per il matrimonio erano quelli tra aprile e ottobre, escludendo maggio, detto il mese in cui ragliano gli asini (quanne ràgghiene i ciòccere) e il periodo dell’Avvento. I parenti stretti venivano invitati direttamente dai genitori degli sposi, mentre ai parenti alla lontana e agli amici ci pensava a comunicare l’evento una donna che purtàive l’allégre (che recava l’allegra notizia). Gli invitati, che per vari motivi non potevano partecipare alla festa, ricevevano un pollo e una cassata – gelato. Intanto chi dava l’assenso a intervenire si impegnava nel preparare gli abiti eleganti e il dono da offrire agli sposi.

La cerimonia nuziale avveniva di domenica, ma i festeggiamenti duravano tre giorni: dal sabato al lunedì. La sera del sabato, vigilia del grande evento, era resa speciale perché, sotto un cielo stellato, mentre la sposa rimaneva chiusa in casa con i compari e i parenti stretti, per volere dello sposo le si dedicava la serenata (la nźerenöte). Un gruppo di bravi musicanti, con chitarra e mandolino, eseguiva musiche romantiche e sentimentali. Immancabile la canzone Jìesse menènne scritta da Francesco Labianca che vale la pena riportare.

Esci, ragazza! – Quanto è bello cantare in questa nottata / sotto questo cielo d’argento e ricamato; / un mandolino e una chitarra è tanto / per farti stanotte svegliare. / un mandolino e una chitarra è tanto / per farti stanotte svegliare. // Rit. Esci, ragazza, esci sul balcone, affacciati a vedere! / Ma tu non senti suonare, / di qui non mi muovo fino a domani. // Tu non esci, ma dimmi, stai dormendo? / Svegliati, ragazza, vieni a sentire / quanto appassionata è questa canzone, / canzone di questo cuore innamorato, / canzone di questo cuore innamorato. // Rit. Nel cielo ho visto un’altra stella; / è uscita perché sei uscita tu: quanto sei bella! / Con quella faccia bianca e scarmigliata / tu sembri proprio come una madonna, / con quella faccia bianca e scarmigliata / tu sembri proprio come una madonna. // Rit. Perché, perché, ora che t’ho vista non posso più cantare; / mi trema la voce, come devo fare. / Ti voglio bene, / ti voglio bene assai.
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Sposi Regano – Canaletti, Trinitapoli 1953.

Certamente molto emblematico va considerato quanto accadeva durante lo svolgimento della serenata. Mentre i suonatori accordavano gli strumenti, alcuni uomini, parenti degli sposi, si posizionavano, per ordine del compare (colui che l’indomani sarebbe stato il testimone di nozze) in alcuni angoli strategici per tenere sotto controllo la situazione. La strada dell’abitazione della sposa doveva rimanere al buio e in assoluto silenzio. Guai a chi osasse attraversare la strada, alzare la voce, accendere una luce o fumare durante la serenata! Ogni movimento poteva essere considerato oltraggioso dalle famiglie degli sposi, generare aspre liti anche con botte e talvolta sfociare in tragedia. Tutto questo perché si poteva sospettare che la “sfida” partisse da un fidanzato respinto o da un innamorato desideroso di vedere scombinato il matrimonio. In tal caso il compare si comportava da paladino della sposa e interveniva con l’intento di rendere serena la situazione. Alla fine della serenata toccava alla madre della sposa spalancare le porte e lasciare entrare lo sposo, il compare e i musicanti, che dovevano suonare per le danze, che si protraevano fino a mezzanotte. Si gustavano pasticcini, taralli e frutta secca con buon vino e varie specie di rosolio.

I testimoni di nozze (i cumböre di fàite) erano di solito marito e moglie, scelti tra i parenti intimi. Essi avevano ruoli importanti: lui nell’organizzazione e nello svolgimento di tutto il cerimoniale e lei nell’accompagnare la suocera della sposa in delicate operazioni e nel dare alla sposa i dovuti consigli. Era doveroso, per i compari, donare agli sposi le fedi nuziali, rigorosamente d’oro.

Il grande giorno

Il giorno del matrimonio era di eccezionale importanza. In casa della sposa, fin dalle prime luci dell’alba, c’era fermento. La sarta, che aveva passato la notte in bianco per gli ultimi ritocchi all’abito di lei, era lì per “vestirla”, mentre la pettinatrice aspettava il suo turno per l’acconciatura dei capelli e la sistemazione sulla testa della coroncina o del diadema (la pettenatóure). L’abito nuziale, fino ai primi decenni del XX secolo, era di un colore tenue: rosa lampone, grigio perla o ecrù, in tessuto di faglia, broccato o pizzo macramè. Il velo, certamente bianco, ornato di fiori di cera o d’arancio, era un dono dello sposo. Segno tangibile di una famiglia onesta e benestante, il velo non veniva indossato dalle ragazze povere, spesso costrette alla scappatella, per evitare spese impossibili. Le scarpe erano di seta, in armonia con l’abito, mentre le calze erano di velo color carne, con la cucitura dietro e frecce ricamate ai lati. Appena pronta, la sposa, seduta su una poltroncina al centro della casa, aspettava le comari del quartiere e le amiche, per ricevere gli auguri. Molto commovente era il momento in cui la sposa usciva dalla casa paterna, al braccio del genitore. Gruppi di ragazzini festanti battevano le mani, mentre alcuni lanciavano confetti sottili e trasparenti (i cumbìtte de vitre).

Nella chiesa, linda e adorna di fiori bianchi, arrivava il corteo a piedi o in carrozza, secondo le possibilità economiche. Era bello vedere il corteo che procedeva a piedi, seguito da uno stuolo di bambini e ragazzini, che facevano allegria. Le carrozze conferivano tanta pompa, con i cavalli dal superbo incedere, con tanti ornamenti bianchi.

Al momento di entrare in chiesa il compare offriva il braccio alla sposa, mentre lo sposo dava il braccio alla comare. Intanto tutti gli invitati prendevano posto tra i banchi. Si officiava la messa cantata con un coro di giovani e l’accompagnamento dell’organo. Vicino all’altare c’erano gli sposi e i compari o testimoni e spesso anche le damigelle. Conclusa la cerimonia religiosa, gli sposi attraversavano la chiesa tra due ali di invitati. Tutti si fermavano sul sagrato, dove avveniva un concitato lancio di confetti, rischioso per chi li vedeva arrivare sul proprio volto. A quel punto il corteo si ricomponeva per raggiungere la sala o la casa della sposa a consumare un pranzo davvero luculliano. Era un dovere per la sposa raggiungere subito la suocera per un baciamano. La sala era stata ornata con rami di palma e lunghe fasce di cartoncino colorato con la scritta VIVA GLI SPOSI.

Ma veniamo al pranzo. Le numerose portate arrivavano su varie, lunghe tavolate, presso le quali gli invitati avevano preso posto e, tra ottime cibarie e vini generosi, si mangiava e si scherzava con battute spiritose, lanci di confetti e brindisi già noti o improvvisati. Il pranzo durava molte ore e alla fine tutti tornavano a casa per un momento di pausa: si cambiavano d’abito e ritornavano alla sala, dove li attendevano gli sposi, pronti a dare inizio alla serata danzante. La festa serale si apriva con la famosa quadriglia d’onore. Il compare, agitando un fazzoletto bianco, chiamava al centro i rappresentanti delle famiglie invitate a consegnare nelle mani della comare i doni per gli sposi e a fare un breve ballo con la sposa. Poi, durante la serata, faceva in modo che tutti, nessuno escluso, si divertissero. Le danze si protraevano fino a mezzanotte, quando si ritornava a tavola per una ricca cena. Soltanto alla fine di quest’ultima si andava a casa.

Gli sposi, accompagnati in carrozza dai compari, raggiungevano la loro nuova dimora, dove trovavano il letto preparato con lenzuola molto belle e un luminoso copriletto, su cui c’era, disegnata con cioccolatini e confetti, la sagoma di un enorme cuore (cosa realizzata certamente dalla mamma della sposa con qualche sua amica).

Finalmente soli, i due sposi trascorrevano la loro prima notte e intanto attendevano che al mattino arrivassero i testimoni di nozze (i compari). Arrivavano, infatti, a metà mattina, quando la comare offriva il vassoio della colazione e prendeva dalla sposa un panno macchiato di sangue (testimonianza dell’avvenuta deflorazione) da passare alla suocera come prova della sua verginità. Si concretizzava così, a conclusione del rito nuziale, la garanzia di onorabilità, a cui tanto (forse esagerando), allora si teneva.

Arrivava intanto il lunedì, terzo giorno di festa. Tutti, stanchi com’erano, si levavano tardi, pronti per una nuova tavolata. Anche quel pranzo si svolgeva in allegria, tra scherzi e battute allusive. Alla fine, ben satolli, tornavano a casa per cambiarsi d’abito, per poi ritrovarsi a ballare e concludere con una definitiva cena. Gli sposi per gli otto giorni successivi erano invitati a pranzo dai compari. Non uscivano da soli, né si facevano vedere in giro. Soltanto la mattina della domenica successiva potevano uscire da marito e moglie per recarsi nella chiesa matrice ad assistere alla celebrazione della messa cantata. All’uscita dalla chiesa erano quasi assediati dagli sguardi curiosi e, dopo una lunga passeggiata, andavano a pranzo dai compari, che finalmente completavano così tutti i loro doveri. I giovani sposi dovevano iniziare a vivere la loro vita, tra lavoro e nuove responsabilità.

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Sposi Di Biase-Guarino, Trinitapoli 1950.

La fuga d’amore

I giovani innamorati, che per varie ragioni venivano ostacolati nel loro amore, si sentivano costretti a ricorrere alla fuga e quindi scappavano. A fuga avvenuta, dopo il rientro, i genitori, soprattutto di lei, cercavano di rimediare, affrontando la situazione con dignità e mirando a esaudire le richieste della suocera, proclive a istigare il figlio se quanto veniva dato alla donna non era ritenuto sufficiente.

La sposa della fuitina (la zéte ascennóute) si sentiva circondata da un’atmosfera di astio, che soltanto a matrimonio ufficialmente avvenuto si stemperava. Era severamente vietato a lei indossare l’abito bianco e ancora di più ornarsi del velo. Niente festeggiamenti, niente invitati e nozze assolutamente in tono minore.

Il pensiero va ai “terrazzani” del Borgo delle Croci di Foggia, per i quali la fuga, quasi un “bonario ratto”, rientrava nel loro rituale del fidanzamento. Nel cuore della notte il terrazzano, aiutato da alcuni amici, si recava con un carretto nelle vicinanze della casa della donna ambita, la quale, udita la canzone intonata dallo spasimante, usciva di nascosto e raggiungeva il carretto; da quel momento il matrimonio veniva considerato cosa fatta.

La seduzione

Fatto antico, la seduzione femminile trova posto alle origini della umana esistenza e nella mitologia. Seduttrici furono Eva, Betsabea, Salomè, Dàlila, Elena, Circe, Didone… Nelle usanze popolari nostrane legate al matrimonio vi erano, fino alla metà del secolo scorso, la magia (la mascéie) e la fascinazione (la fattóure). Gli incantesimi d’amore venivano usati per attrarre e stringere l’amato in un laccio occulto e irresistibile.

Anche l’uomo ricorreva a certi mezzi ma, mentre a lui era consentito fare il primo passo e usare il corteggiamento o la serenata, la donna, dato il rigore dei costumi, che le impediva di prendere l’iniziativa, ricorreva più spesso agli espedienti magici dei filtri amorosi e delle pratiche divinatorie.

Si usava preparare degli strani filtri da mettere in caffè, vino, brodo, ecc. nella convinzione di far capitolare il lui desiderato. Tutto avveniva con la complicità della fattucchiera o masciara, dovutamente retribuita. Frequente era anche la pratica degli scongiuri.

Una descrizione del matrimonio comunque visto in un alone di sacro e di misterico, che più non trova riscontro nella vita attuale anche qui, nel nostro contesto geografico e ambientale, dove separazione, divorzio, famiglia allargata sono parole che rispecchiano la realtà. Sono bastati sei decenni perché gli usi e costumi mutassero in maniera profonda e radicale. (di Grazia Stella Elia – 3. Continua)

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* Grazia Stella Elia, poetessa e scrittrice, è nata a Trinitapoli, nel Tavoliere pugliese. Ha insegnato per molti anni, trasmettendo ai suoi alunni l’amore per la poesia e il teatro. Si è impegnata, sin da giovanissima, nello studio del suo dialetto (“casalino”). Ha operato nel campo della cultura, organizzando convegni e incontri. È da poco in libreria il suo Aspettando l’angelo, ed. FaLvision, Bari, 2017.