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Ignazio Marino (Genova, 10 marzo 1955)

Ignazio Marino (Genova, 10 marzo 1955)

Ha da poco ufficializzato la sua partecipazione alle primarie del centrosinistra per ottenere la candidatura a sindaco di Roma, ma di Ignazio Marino, nuovo nome della galleria in costruzione degli italiani eccellenti di questa sezione Italy in Usa 2013, ho potuto apprezzare, prima che le sue idee di politico (è stato eletto senatore nelle liste del Pd) quelle di medico chirurgo dei trapianti formatosi negli Stati Uniti: nel 2005, quando tornò in Italia, questo genovese nato nel 1955, allievo ed erede di Thomas Starzl (l’inventore del trapianto del fegato) lasciò l’incarico di direttore del Centro trapianti della Jefferson University di Filadelfia. Era stato indicato come caso simbolo della fuga all’estero dei cervelli italiani, scottato dal Moloch della burocrazia italiana. Al suo rientro (per il suo nutrito curriculum scientifico, i suoi libri e la sua Imagine onlus rimando all’aggiornato sito biografico su Wikipedia e al suo blog su il Fatto quotidiano) aveva annunciato il suo impegno in politica per migliorare i servizi sanitari e la ricerca scientifica. E aveva evidenziato un triste paradosso: “L’Italia forma i ricercatori e poi li regaliamo agli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo”.

A me era capitato di intervistarlo, per Oggi (n. 38/2008) su un particolare angolo della sanità italiana. Era un periodo in cui si manifestava la crisi del rapporto tra medico e paziente. Nella Sanità erano raddoppiate le richieste di danni da parte di pazienti ritenuti vittime di errori medici. E a lui chiesi le cause di questa crisi e che cosa fare per superarla. Ecco una sintesi delle sue risposte di allora.

“Dottore, non mi fido”. Gli avvenimenti di malasanità, dagli ospedali pubblici del Sud alle cliniche private come la Santa Rita di Milano, stanno trasformando gli italiani da pazienti a impazienti e stanno rompendo il rapporto tra i medici e chi si avvicina a loro per guarire. Cresce, in Italia più che nel resto dell’Europa, il timore di essere vittime di disservizi sanitari: una ricerca del Censis informa che “il 97 per cento degli italiani teme gli errori dei medici, contro il 78 per cento degli abitanti degli altri Paesi europei”. Ulteriori prove vengono da altri dati. La sanità italiana spende 500 milioni di euro per assicurarsi contro le cause per richieste di danni che sono ormai 30 mila l’anno. Il Tribunale dei Diritti del Malato rivela che nel 2007 ha ricevuto 24.300 segnalazioni di errori medici. L’Ania, che raggruppa il 91 per cento delle compagnie di assicurazione, denuncia che in 10 anni il totale dei risarcimenti è ormai raddoppiato. Tra nuove terapie, più moderne tecnologie e ultime scoperte nel campo medico, sarà quello di ristabilire questo legame incrinatosi tra medico e paziente uno dei temi centrali del primo Festival della Salute, a Viareggio.

Incontri sul lungomare. Sanità pubblica e privata, aziende del settore, associazioni, mondo della ricerca si confronteranno tra loro, ma soprattutto avranno l’ occasione di incontrare i cittadini in un vero e proprio open space sul lungomare della città versiliese in cui conoscersi, confrontarsi, discutere, divertirsi. Ad animare le tre giornate del festival, oltre agli scienziati come Umberto Veronesi e il premio Nobel Carlo Rubbia e ai volti noti della Tv come Piero Angela e Michele Mirabella, anche protagonisti della politica. Presidente del comitato scientifico è il professor Ignazio Marino, chirurgo dei trapianti di fama internazionale, una laurea all’ Università Cattolica di Roma, un quarto di secolo di esperienza all’estero (Cambridge, Pittsburgh e Filadelfia). Eletto senatore nel 2006 come indipendente con i Ds(e riconfermato alle ultime elezioni del 2013, per il Pd) è stato presidente della commissione Sanità in Senato nella precedente legislatura, e ha scritto un libro di successo (“Credere e curare”, Einaudi), un saggio sulla professione medica, un dialogo con il cardinale Martini e una diagnosi sulla crisi di un mestiere che è cambiato e che rischia di perdere il suo senso più profondo, quello della missione e della solidarietà verso gli esseri umani.

Professor Marino, si sta rompendo il feeling tra medici e pazienti. Come pensa che si possa ristabilire il giusto rapporto di fiducia?

“Purtroppo è vero, ci stiamo avvicinando pericolosamente agli indici di litigiosità di altri Paesi con sistemi sanitari più incerti. E la Medicina attraversa una crescente crisi di identità. Se ne viene fuori, intanto, comunicando meglio e più a lungo. Studi scientifici hanno provato che le denunce diminuiscono in misura proporzionale all’aumento del tempo della visita: più precisamente, se si passa da visite medie di 10 minuti a 18 minuti, il numero delle denunce si dimezza. Il paziente che vede messo a rischio il bene più prezioso, la salute, vuole accanto insieme allo scienziato che sa una persona, un alleato nel momento del maggior bisogno. Proprio a come migliorare quantità e qualità delle informazioni tra medico e paziente sarà dedicata una giornata del Festival della Salute, che abbiamo voluto far nascere per estendere ai cittadini appuntamenti e informazioni che annualmente gestivamo in posti diversi, in Umbria o in Toscana, invitando solo addetti ai lavori”.

Mai come oggi i medici hanno a disposizione mezzi straordinari, e mai come oggi sta calando la fiducia in loro…

“Effettivamente stiamo vivendo un periodo contraddittorio: la salute sta diventando sempre più tecnologica, noi medici siamo in grado di curare con passi avanti fino a ieri impensabili e, contemporaneamente, siamo sempre meno capaci di parlare. L’ umanizzazione della Medicina è una sfida che non possiamo perdere. Avremmo gravi conseguenze entrambi, medici e pazienti. Personalmente, a ogni intervento, mi sforzo di spiegare preventivamente, anche solo accompagnandomi con qualche disegno, l’intervento chirurgico che andrò a fare. Spesso basta solo questo perché il paziente percepisca di essere circondato da una grande attenzione. Me lo ha insegnato l’esperienza personale, specie negli Stati Uniti dove il sistema sanitario ha molti difetti, ma l’ educazione al comunicare è fondamentale”.

Tanto che alla Columbia University di New York hanno varato il primo corso di Medicina narrativa, destinato ai futuri medici, proprio per ottimizzare la qualità dei dialoghi in corsia. Per restare vicini a noi, l’Istituto europeo di oncologia diretto da Veronesi ha riconosciuto che un problema serio del rapporto medico paziente è la “sindrome dell’ abbandono”. Cioè il fatto che, una volta tornato a casa dopo l’intervento, al paziente riesce difficile rimettersi in contatto con lo specialista. Per questo lo Ieo ha varato con successo un’iniziativa: una lettera all’anno e tutti i pazienti arrivano in ospedale in assemblea, per ritrovare i “loro” medici. È il primo tentativo di aprire un dialogo permanente tra la struttura ospedaliera e i pazienti che sono stati curati e che vogliono poter dialogare con i medici curanti e altri pazienti.

“Giusto puntare su una migliore educazione dei medici. Ma non sono solo loro i responsabili, qui c’entra il sistema: l’aziendalizzazione sempre più diffusa nella sanità, da una parte ha lati positivi, come quello di lavorare in gruppo; dall’altra spinge gli operatori a considerare prioritario il numero invece della qualità degli interventi. E invece a volte basterebbe poco, una mano sulla pancia…”.

Una mano sulla pancia?

“Mi spiego meglio. Quando un ammalato arriva in ambulatorio per una visita, di solito porta con sé i risultati degli esami diagnostici, le radiografie, la Tac, la risonanza magnetica, in base alla gravità del suo problema. Quello che un medico vede e capisce dall’ analisi dei referti è più che sufficiente per elaborare una diagnosi. Praticamente non c’è quasi bisogno di una visita vera e propria e, difatti, il tempo che uno specialista dedica all’esame del corpo di un paziente si è molto ridotto. Nonostante tutto, ancora oggi in pieno boom tecnologico, il paziente desidera che il medico lo tocchi, gli metta una mano sull’addome, ascolti il cuore con lo stetoscopio e lo faccia tossire. Questi semplici gesti, di ridotta utilità diagnostica rispetto a una Tac, servono tuttavia a creare una particolare intimità tra il medico e il paziente, a rafforzare la fiducia, a spingere l’ammalato ad aprirsi e a raccontare i propri timori, non solo i propri sintomi. In questo modo si crea anche un legame umano tra chi cura e chi viene assistito e, sinceramente, credo che l’empatia tra due esseri umani non possa essere sostituita da nessun esame per quanto perfetto esso sia. Senza dimenticare che a volte proprio da quelle confidenze fatte dal paziente al medico quasi involontariamente emerge l’ elemento diagnostico più importante, la piccola tessera di un mosaico che neanche la tecnologia più moderna è in grado di evidenziare”.

Enzo Biagi, che la gratificò di un grande elogio (“Marino è uno dei pochi italiani da esportazione”), raccomandava di arricchire le testimonianze e i dati statistici con storie.

“Mi limiterò a una: riguarda un’anziana signora che abitava nello stesso quartiere dell’ospedale di Pittsburgh. Le ho trapiantato il fegato. Un intervento molto difficile 25 anni fa, con tante complicazioni. Molto tempo dopo l’intervento, incontrandomi per strada, la signora mi ringraziò. Ma, con mia sorpresa, non per l’intervento complesso quanto per un dettaglio di una visita notturna, una consuetudine che avevo e tendo a conservare ogni qualvolta sono in attività: le avevo fatto, una notte dopo l’intervento, una carezza sulla fronte e l’avevo incoraggiata. “Vedrà che nel giro di pochi giorni starà bene”, le dissi, “e fra un anno si godrà la vita e avrà dimenticato questi momenti difficili dopo l’ operazione”. “Quella carezza e quelle parole mi hanno dato tanta forza e credo siano state decisive per voler andare avanti”, mi ha detto quella signora gentile, ringraziandomi”.

Nel rapporto con i pazienti quali sono le parole alle quali lei ricorre spesso? E quali non usa mai?

“Evito il ricorso a parole tratte dal gergo militare, tipo: ‘Questo intervento è una battaglia, questa è una guerra che dobbiamo vincere’. Mi rivolgo al paziente così: ‘Dobbiamo affrontare questa difficoltà insieme. Dobbiamo cercare qual è la strada migliore per risolvere questo momento di difficoltà del suo corpo. Dobbiamo farcela insieme. Se lei mi aiuta, io la aiuto’ “.

A PROPOSITO

In un paese normale i cervelli non scappano

Enzo Biagi (1920-2007)

Enzo Biagi(1920-2007)

In occasione del rientro di Ignazio Marino in Italia, nel 2005, parlai con Enzo Biagi di Marino (che con il grande giornalista aveva una regolare corrispondenza) e dei cervelli italiani che scappano all’estero, lontani da un’Italia che tra i Paesi industrializzati è agli ultimi posti per investimenti nella ricerca. Lui chiese alla sua efficiente assistente Pierangela una cartella. Aveva come titolo «A volte ritornano». Mi spiegò: “Raccolgo i ritagli di chi sceglie di tornare. È una cartella che si va riempiendo di nomi e foto. Sono annunci che fanno bene al cuore. Intanto metto in testa la cinquantina di ricercatori rientrati grazie a Telethon e al progetto avviato dal Nobel Renato Dulbecco e finanziato dalla maratona in televisione per raccogliere fondi. Un nome per tutti: Andrea Ballabio, il genetista che a Napoli oggi guida centoventi scienziati. Un altro esperto di genetica e di tumori, Antonio Giordano, dopo aver collaborato con James Watson, uno dei padri del Dna, ha lasciato gli Stati Uniti per Siena: vuole portare un po’ di pragmatismo negli atenei. Massimiliano Gnecchi, 32 anni, vogherese, rientra al San Matteo di Pavia dal Duke University Medical Center per continuare le sue ricerche sulle staminali da usare per riparare lesioni al miocardio. Emilio Bizzi, studioso delle neuroscienze che ha fatto del suo laboratorio al Massachusetts Institute of Technology uno dei più prestigiosi centri a livello mondiale, è atterrato a Roma per dirigere l’Istituto europeo di ricerche sul cervello, voluto dal Nobel Rita Levi Montalcini. Sempre dall’America è arrivato in Emilia il matematico Scipio Cuccagna, per insegnare all’Università di Reggio Emilia”. Richiudendo la cartella, Biagi concluse: “Perché in un Paese normale i cervelli non scappano”.

P.S : di contro ci sono le beffe professionali subite da scienziati del calibro di Lucio Luzzatto, che a New York aveva lasciato la direzione di un intero dipartimento allo Sloan-Kettering, e poi a Genova è stato mandato a casa da un burocrate, la cui decisione, cinque anni dopo, è stata giudicata illegittima dal tribunale. Lucio Luzzatto ora è impegnato in Toscana come direttore scientifico dell’Istituto toscano tumori. Ma sulla sua storia vi rimando a una prossima puntata.