Che il Covid, quando avrà deciso di andarsene, lascerà un mondo diverso, cambiato, forse in meglio, non sembra sostenibile sulla base di precedenti storici, o indizi reali, ma resta il mantra del nostro tempo. Il dubbio è che si tratti di una fugace reazione spontanea per dare un senso, se non un risarcimento alle sofferenze imposte dalla pandemia a tanta parte dell’umanità. E non di una raggiunta consapevolezza circa la necessità di una svolta rispetto ai valori dominanti, in testa il profitto, lo sfruttamento dei più deboli, il rifiuto di “sprechi”, quali un civile sistema a tutela della salute pubblica.

Come negare che sia legittimo, anzi necessario ricostruire il nostro servizio sanitario nazionale, ridotto a livello di Asl, dove la prima lettera risponde ad Azienda, vale a dire impresa economica che come tale ha anzitutto obiettivi di bilancio, e solo dopo il fine di salvare la vita. È così che di fronte all’ondata del coronavirus l’Italia si è trovata con la metà dei posti di terapia intensiva rispetto alla Francia, mentre la Germania ne aveva addirittura il triplo; livelli di previdenza che aiutano a capire il divario delle vittime del virus nei tre Paesi (Germania 8.000, Francia 21.000, Italia 31.000, dati di metà maggio 2020).
 

patrick-zaky-manifesto

Patrick Zaky è lo studente egiziano dell’università di Bologna che è in carcere al Cairo dal 7 febbraio 2020,
con l’accusa di propaganda sovversiva su Facebook. (Credit: Perlapace.it)

Affrontare cause e responsabilità di una simile strage non può essere che il primo passo per un vero cambiamento. È un percorso tutto in salita perché il virus della sopraffazione, dell’affarismo senza scrupoli dilaga più del Covid. Non c’è maschera che tenga e il contagio è ormai diffuso nei summit internazionali dove i dittatori che si reggono sul terrore, come Al Sisi in Egitto, sono accolti al G7 di Biarritz quali ospiti d’onore. Allo stesso Al Sisi il presidente francese Emmanuel Macron conferisce senza clamori la Legione d’Onore. Non conta che abbiano ucciso sotto tortura Giulio Regeni (simbolo di un’Italia aperta al mondo, solidale, curiosa e impegnata, del quale sono scomparsi gli striscioni invocanti verità in più parti d’Italia, Ferrara e Friuli in primis) e tengano da mesi in carcere senza motivo persone innocenti, come lo studente egiziano dell’Università di Bologna Patrik Zaki sfidando l’indignazione dell’opinione pubblica. Quando si trattano affari miliardari, verità e giustizia sono parole sovversive.

bussola-punto-fine-articolo

Cittadino del mondo (dall’introduzione

al libro “Giulio Regeni. Ricatto di Stato”)

In termini polizieschi si chiama depistaggio, ma questo è un intrigo di Stato che vede un intero governo mobilitato a coprire l’evidenza dell’accaduto. E lo fa con scenari posticci, evocando ombre di “terrorismo” o di “trame spionistiche”, secondo un copione che però riscuote soprattutto incredulità e freddezza. Autori-attori della fuorviante fiction sono i generali al potere in Egitto. Il silenzio della platea internazionale è d’imbarazzo. Solo un improvvido ministro di casa nostra ha finto a suo tempo di crederci; la voluta distrazione dell’Europa fa il resto. La realtà che si vuole nascondere è un atroce omicidio di Stato con una decina gli sgherri che «hanno fatto tutto il male del mondo» e strappato infine la vita a Giulio Regeni, 28 anni, il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge, sequestrato e ucciso quattro anni fa sotto tortura al Cairo.

I nomi e cognomi dei carnefici, quattro 007 dei servizi segreti egiziani secondo i magistrati della Procura di Roma che hanno chiuso l’inchiesta l’11 dicembre 2020), sono il punto d’arrivo, quasi insperato, degli investigatori italiani, osteggiati in ogni modo dal Cairo. Risultato che coincide con i dati raccolti, al riparo da occhi indiscreti, dai legali della famiglia Regeni, grazie al contributo di una controinformazione che resiste al vigente regime del terrore. In attesa di stabilire se i relativi indizi basteranno a provare in giudizio le responsabilità dei killer gallonati e di chi li ha coperti finora, già questo primo atto rappresenta un macigno, scagliato contro il muro di sabbia costruito per dissimulare la verità. Il sistematico boicottaggio del Cairo all’inchiesta giudiziaria condotta dagli investigatori italiani insieme, si fa per dire, alle autorità locali è palese, estenuante, ai limiti dell’irrisione. Si tratta di un lavoro d’ostruzione pianificato che ha già determinato mesi di silenzio-stampa sul piano nazionale e internazionale. È la precondizione per assicurare la copertura, quindi l’impunità, dei colpevoli ai vari livelli. Come reagire ai mezzi della distrazione di massa? Una risposta può essere il restauro del film della memoria collettiva, che altri vorrebbero cancellare. A partire dalla scena-madre.

3 febbraio 2016. Il corpo senza vita trovato seminudo nella scarpata di un viadotto che attraversa la desert road, a Giza, quartiere periferico del Cairo in direzione delle piramidi, ha retto solo per poche ore alla messinscena di un incidente. Quel corpo parlava da solo con i segni delle numerose e specifiche lesioni che testimoniano di una morte dopo sevizie. E quando si è saputo che la vittima era il ricercatore italiano scomparso misteriosamente da alcuni giorni nella capitale egiziana, non ci sono stati dubbi: presto si è levata l’accusa di omicidio contro gli apparati di sicurezza del generale Abdel Fattah Al Sisi. Ne è seguito un maldestro quanto sanguinoso tentativo di depistaggio: un blitz, preparato a tavolino, nell’intento di addossare il crimine alla delinquenza comune. È così che sono stati uccisi a freddo cinque mariuoli di strada, facendo trovare in loro possesso i documenti del ragazzo italiano, per presentare le vittime come i responsabili del sequestro seguito da morte. È solo la conferma della brutalità di una dittatura che, agendo senza l’incomodo di un’opposizione e di un’informazione libere, perde il senso della misura, della stessa realtà.

Ma l’ondata di sdegno, l’insistente richiesta di “verità per Regeni” che percorre le tante piazze europee e oltre, dipende dalla natura di un fatto nuovo rispetto al format che muove le contestazioni della società civile. La ragione di fondo è che qui è stato assassinato certo un innocente, ma anche un simbolo per le nuove generazioni, un modello per tanti giovani che guardano a un futuro libero da confini. Giulio non era solo “il figlio che tutti vorrebbero avere”, come lo ricorda con accorata quanto motivata espressione la madre. Era «un ragazzo del mondo» che a 17 anni, grazie a una borsa di studio, frequentava già un liceo internazionale nel New Mexico, Stati Uniti, e che, dopo la laurea a Oxford, stava facendo un dottorato a Cambridge. Uno come lui, che parlava correntemente cinque lingue, arabo compreso, cioè un giovane colto e a suo agio in ogni angolo del globo, non poteva non dare speranza ai sogni di chi studia e lavora per un avvenire da costruire non importa dove, senza limiti geografici, culturali, sociali. Come tanti suoi coetanei dall’aspetto un po’ “casual”, capelli arruffati, mai abiti firmati, rara la cravatta, Giulio apparteneva alla “meglio gioventù”, quella cui è affidato l’atteso “messaggio in bottiglia” per il futuro.

Giulio Regeni - Ricatto di Stato

La copertina del libro di Camillo Arcuri (Castelvecchi Editore) nelle librerie a 4 anni dall’omicidio di Giulio Regeni. pagine 144 – Euro 16,50. Qui il link per acquistarlo.

L’unico errore di questi nuovi protagonisti può essere quello di sottovalutare, nel loro entusiasmo, il rischio della sfida al pregiudizio, alla diffidenza, al sospetto paranoico dei sistemi autoritari e al collaudato apparato di delazione, spionaggio, violenza, sempre puntato contro i portatori di cambiamento. È questo scontro geologico, tra un futuro sperato e un passato arcigno ancora e sempre presente, che buona parte dell’opinione pubblica avverte all’origine di quello che è più e peggio di un delitto di Stato. La dimensione del crimine è più vasta, l’origine più complessa e, se gli aguzzini sono sicuramente egiziani, non manca sullo sfondo uno scenario internazionale tutt’altro che trasparente. Quel ricercatore italiano che interrogava per strada la gente e annotava tutto per i suoi report a Cambridge, non poteva sfuggire all’attenzione di uno Stato di polizia, ma non è escluso che fosse anche nel mirino di interessi, magari contrapposti, pronti per i propri fini a passar sopra alla vita di un ragazzo inerme.

Di certo, Mohamed Abdallah, capo del sindacato dei venditori ambulanti del Cairo, non è stato l’unico ad averlo tradito (naturalmente non prima di aver tentato di ottenere una consistente “erogazione” di 10.000 sterline). «Lavoro per l’università, un’istituzione pubblica, quindi devo documentare e giustificare ogni esborso», è stata la risposta di Regeni, equivalente a un rifiuto. E la registrazione nascosta di quel colloquio da parte di chi voleva incastrarlo come spia o “agente al servizio dei fomentatori di disordini”, resta la prova migliore della sua deontologia e della sua etica ostinata, non certo della sua ingenuità.

Che dire invece dell’illustre Università di Cambridge che, facendosi forte di un’antica tradizione (o di più contingenti esigenze), si trincera dietro l’obbligo della riservatezza, per non rivelare come è nata e si è sviluppata quella “ricerca sul campo” in merito alle condizioni dei venditori ambulanti? Portava su un terreno davvero minato quel tema di ricerca così lontano dai sentieri battuti, tanto che il giovane dottorando non ne è uscito vivo. E saperne di più su quello studio potrebbe aiutare non poco a raggiungere la tanto osteggiata verità, forse scomoda, ma irrinunciabile.

È mai possibile che neanche di fronte a un delitto così spietato possa essere rimossa la clausola del riserbo? Questo, si badi, in Gran Bretagna, patria dell’habeas corpus, mentre nel tormentato Egitto lascia scarse speranze la sudditanza delle alte cariche giudiziarie a un governo autoritario quanto spregiudicato. Ne sono prova i continui rinvii degli accordi stipulati con gli inquirenti italiani, che hanno dovuto attendere oltre due anni per poter disporre di ciò che resta (ben poco) dei filmati delle telecamere di sorveglianza, ossia i frame con le scene della “scomparsa” di Giulio Regeni, sceso nella metropolitana del Cairo e mai più riemerso dal buio dell’orrore.

Non è fantapolitica collocare la presente storia nello scacchiere mediorientale esasperato dall’emergenza dell’islamismo armato. Sul destino dell’Egitto incombono i Fratelli Musulmani che non cessano di condurre la loro guerra sotterranea contro la giunta militare insediatasi con il golpe del 2013. Il Presidente Mohammed Morsi, che dopo aver vinto nel 2012 le elezioni in Egitto, è stato destituito e arrestato, è morto dopo sei anni di isolamento carcerario, mentre nel Paese si susseguono le sentenze capitali contro gli oppositori, considerati e giudicati automaticamente terroristi. La cortina di ostinato silenzio, estesa dalla Russia agli Stati Uniti passando per l’Europa, a copertura della realtà egiziana, risponde alla scelta dello status quo di fronte al pericolo di una ripresa dell’Isis in Nord Africa. Ma sul tavolo egiziano è soprattutto in corso con l’Italia la grossa partita del cosiddetto oro nero allo stato gassoso: un tesoro sotto il mare che, grazie all’Eni, rende per la prima volta Il Cairo esportatore di energia e assicura in proporzione vantaggi al cane a sei zampe.

Ed è su questo terreno accidentato che si esercitano giochi proibiti d’ogni fatta. La fragile sorte del giovane ricercatore, isolato quanto indifeso con il fardello del suo compromettente incarico, presentava ben poche speranze in un Paese dove la delazione di massa è praticamente un obbligo e dove molti sanno, ma nessuno ammette ufficialmente che, come Regeni, sparisce qualche persona ogni giorno. Dietro lo stereotipo delle spiagge dorate, della lunga estate turistica, c’è la tenebra del più popoloso Stato del Medio Oriente (circa 100 milioni di abitanti) schiacciato da un regime golpista che impone agli studenti due esami di nazionalismo per accedere all’università e a “chi ama la patria” il dovere di denunciare ogni forma di dissenso, passibile di carcere e tortura fino alla morte. Si parla di circa 3.000 persone sparite negli ultimi anni, complice la spia della porta accanto…

Il senso delle pagine che seguono nel mio libro su Giulio Regeni non è certo quello di aggiungere polemiche superflue se non fuorvianti. L’unico possibile obiettivo è portare un contributo utile alla memoria collettiva e alla comprensione dell’accaduto, tuttora difficile da decifrare fino in fondo per gli stessi addetti alle segrete cose. Qui il metodo seguito è quello, mai superato, di ricostruire i fatti, metterli in fila e lasciare le conclusioni ai lettori, senza anticipare troppi giudizi. È un lavoro senza secondi fini, non sollecitato da nessuno e che non può avvalersi neppure dell’adesione della famiglia Regeni, contraria a ogni richiesta di autorizzare film o libri sulla vicenda: «Ci sentiremmo come espropriati delle memorie più care» è la spiegazione, certo comprensibile. Ma provare a fare il punto su una storia conosciuta finora attraverso un’informazione tanto attenta quanto frammentata nel tempo, ossia tentare di avvicinare di qualche passo i lettori a ciò che accadde realmente, non vuole né può essere motivo per dubitare del sincero rispetto verso questi genitori e la loro figlia, così dignitosi e lucidi, oltre che ammirevoli, per come sostengono una prova terribile.
Quello che segue è il racconto di quattro anni di inganni, di sfacciate mistificazioni, di brutali violenze della dittatura egiziana e di contraddittorie risposte da parte italiana, quattro anni ricostruiti dall’inchiesta di un cronista di lungo corso che non ha ancora perso il vizio di indignarsi.

bussola-punto-fine-articolo

* Camillo Arcuri (Genova, 1930). Giornalista e scrittore, ha lavorato nella cronaca di alcuni quotidiani genovesi e come inviato al Giorno e al Corriere della Sera. È stato a lungo collaboratore di Oggi e de L’Espresso. Tra i suoi libri La trasparenza invisibile (1990), Colpo di Stato (2004) e Sragione di Stato (2006), L’altro fronte del porto (2009) e Il sangue degli Einstein italiani (2015), Il trapianto negato (2017).

Leggi anche: