CASSINA DE’ PECCHI (Milano) –

C’è un luogo, alle porte di Milano e sulla strada che conduce a Venezia, dove la storia è coniugata al futuro: è la Cooperativa La Speranza di Cassina e Sant’Agata, che dal dopoguerra porta avanti la sua intensa attività civica e culturale. Nata nel 1945, la Cooperativa ha la stessa età della Repubblica italiana ed è un paio d’anni più anziano della Costituzione, quella Carta comune i cui princìpi sono tutti, fin dal primo Statuto, la bussola per gli iscritti (oggi 250, presidente Grazia Mastrandrea). A differenza di altre iniziative, in Martesana e oltre, i muri della Speranza non raccolgono solo la memoria di un grande passato, ma indicano la via di un futuro possibile all’insegna della buona politica e dell’attualità, dell’impegno sociale e della solidarietà.

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Milano, 27 gennaio 2020 – Giornata della memoria: in via Sant’Eufemia è stata posta dallo scultore tedesco Gunter Demnig (sopra, con Liliana Segre in una foto di Famiglia Cristiana) la Pietra d’inciampo che ricorda (in basso) il sacrificio di Antonia Frigerio Conte, la cassinese deportata e uccisa nel lager nazista di Ravensbruck. Nella foto d’apertura: Marino Contardo, dirigente della Cooperativa La Speranza, con la pietra contro l’oblio e uno degli organizzatori della manifestazione, il professore Maurizio Barbarello.

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In questa cornice si inserisce l’iniziativa di una doppia serata dedicata a una donna e a un uomo, nostri concittadini ingiustamente dimenticati, vittime l’una (Antonia Frigerio Conte) dell’Olocausto nazista e l’altro (Oreste Sangalli) del terrorismo neofascista, straziato dalla bomba di Piazza Fontana. Due figure per le quali è stato proposto da alcuni cittadini alla sindaco Elisa Balconi di dedicare due vie della nostra città. Sarà anche cancellato, così, un record negativo di Cassina dove fino a oggi nessuna via è stata dedicata a una donna. E che donna: Antonia Frigerio Conte, nata a Cassina nel 1904, su denuncia di fascisti milanesi resistette ai duri interrogatori senza mai rivelare i nomi di aderenti alla Resistenza milanese, fu deportata nel 1944 nel lager nazista di Ravensbruck, e qui fu uccisa nella camera a gas il 26 marzo 1945.

La dignitosa figura della martire Antonia è stata rievocata in una serata alla Speranza, con l’intervento del presidente del Comitato Pietre d’Inciampo Marco Steiner (una pietra contro l’oblio era già stata posta il 27 gennaio davanti alla casa milanese di Antonia, in via Sant’Eufemia, dallo scultore tedesco Gunter Demnig, ideatore della lodevole iniziativa delle “pietre d’inciampo”: finora ne ha collocate 75mila in 22 Paesi europei) e del professor Maurizio Barbarello che ha illuminato, grazie alla pagina del libro della sopravvissuta Maria Arata Massariello, Il ponte dei corvi (Mursia) gli ultimi giorni di vita di Antonia. Ecco brani.

Antonia è stata una dolce compagna del carcere di San Vittore a Milano. Con lei era bello pregare la sera in luridi pagliericci.

La sua debolezza molte volte mi aveva reso forte, capace di superare tante difficoltà, nel desiderio di poterla aiutare. Mi sembrava tanto debole, incapace di resistere all’urto, all’assalto continuo di tante iene, che mi faceva trovare dentro una forza che in realtà non avevo neppure per me, per proteggerla, per tenerla su e darle ancora un po’ di fiducia nell’avvenire.

Sono debole, però trovo la forza e cerco di incitare Antonia. Passano così tre giorni. Noi siamo lì e comprendiamo che siamo all’inizio dio un terribile spaventoso avvenimento. Sono presenti oltre all’Aufsherin, anche due medici delle SS.

Le file per 5 vengono fuse in una fila indiana. Private di calzature, a piedi nudi, con i torsi nudi, senza copricapo per mettere a nudo il colore dei capelli, a volte unica indicazione approssimativa dell’età delle prigioniere, sfiliamo davanti agli aguzzini senza pietà. Le più malridotte sono le italiane e le francesi.

Ogni donna viene osservata dai medici SS che, con un gesto accompagnato da una scudisciata e al grido di “Heraus” (fuori) decidono nella maggior parte dei casi la sua fuoriuscita dalla fila.

Le eliminate sono spinte contro una baracca. Impossibile descrivere lo spettacolo di pietà di questi esseri!

Sono, per lo più, giovani, coperte di ascessi, ulcere, eczemi purulenti, morsicature dei feroci cani di scorta eppure tanto desiderose di vivere.

Coscienti del significato della selezione, con le loro ultime forze, chiedono grazia battendo mani e piedi, con urli e scene selvagge e cercando di rientrare nella fila.

Ma il giudizio è inappellabile, e con lo scudiscio, tra le sghignazzate delle SS, vengono violentemente ricacciate nel gruppo eliminato.

Avanti a me marcia Antonia con la sua testa scheletrica, in cui brillano due occhi nerissimi. Le spalle sono piagate e piene di lividi, i seni svuotati, le gambe fortemente edematose con estese piaghe violacee crostose.

La sua espressione è quella di un docile agnello spaurito. Fa tanta tenerezza questa mia cara gentile compagna di martirio e il grido di “Heraus”, che la colpisce, mi pietrifica, mi oscura la mente.

Rimango immobile davanti agli occhi scrutatori delle SS e il mio atteggiamento indifferente, quasi ostentante il mio stato di demolizione, stupisce il medico SS che, forse per spirito di contraddizione, nello stupore di tanta mia incoscienza, mi sprona a proseguire nella fila con un brusco “Schnell” e una scudisciata. Guardo con desolazione la mia cara amica di cui riesco ancora a cogliere un ultimo sguardo accorato e i nostri destini si sono divisi per sempre.

Ha scritto su La Libertà del 21 aprile 1946 il titolare dello studio legale (in viale Regina Margherita 38, oggi 30) in cui Antonia lavorava, Luciano Elmo, luogo della memoria storica della Milano antifascista:

“Antonia non mollò mai. Trattò i tedeschi guardandoli (con la sua alta statura) dall’alto in basso. Non li temeva lei: sapeva dominarli. Poi da Milano fu deportata a Bolzano, indi a Ravensbruck. Non tornerà più. Certi mestatori che predicano l’odio di classe e insegnano a disimparare l’amore per il lavoro, dovrebbero tutti ricordare il suo nome. Dovrebbero imparare da questa donna come si lavora e come, all’occorrenza, si combatte”.

Oreste, l’eroe della buona terra

Cinquant’anni fa una bomba nella Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana ha fatto strage, alle 16:37, di 17 innocenti, tutte persone legate alla buona terra, e ha fatto strage anche della stessa giustizia visto che la sentenza finale non ha punito i colpevoli. E, poiché mezzo secolo dopo, molti hanno ricordato le vittime ma molti hanno dimenticato i colpevoli, ricordiamolo: è stato versato sangue innocente da nostalgici bombaroli nazifascisti italiani sangue che – per riprendere le parole da parte di uno di loro, ispirate (ironia della storia) proprio al linguaggio degli agricoltori – doveva servire a “concimare la terra della rivoluzione per abbattere la democrazia” e favorire l’avvento di una dittatura nemica della democrazia. È stato il momento più vicino alla perdita della nostra democrazia e, poiché questa stagione difficile per la democrazia si sta ripresentando, su questo momento tragico della nostra storia abbiamo voluto accendere una luce anche nella nostra piccola Cassina: una piccola comunità che ricorda benissimo; e conosce, capisce, giudica. Ricorda la lezione di Piazza Fontana e della strategia della tensione, ma con questa serata vuole raggiungere due obiettivi: risarcire la memoria collettiva, specie per i giovani, e anche risarcire la memoria di un suo dimenticato concittadino che fu straziato da quella bomba: Oreste Sangalli. La manutenzione della memoria è un dovere importante. È questo che ci ricorda e unisce il coraggio di Liliana Segre, la coraggiosa denuncia del presidente Sergio Mattarella, la dignità dei partigiani dell’Anpi, l’impegno culturale e solidale della Cooperativa che ci ospita, la grande forza dei familiari delle vittime, da sempre ricordate come numeri freddi, schiacciati tra l’oblìo e il comodo alibi degli opposti estremismi.

La serata è proseguita con testimonianze toccanti del vicepresidente dell’Associazione Familiari delle vittime di Piazza Fontana, Paolo Silva, di due testimonianze inedite di due ragazzi del Sud (Giacomo Di Lauro, che all’epoca era studente di medicina a capo di un gruppo di volontari della Croce Verde accorsi subito sul luogo della strage e il giovane carabiniere, oggi maresciallo nel Milanese, Gaetano Gramaglia che, quando salì a Milano, scelse di andare in pellegrinaggio laico proprio in Piazza Fontana).

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Cassina de’ Pecchi (Milano): il regista teatrale Massimo Greco legge il ricordo dei figli, Claudio e Franco, di Oreste Sangalli, l’imprenditore agricolo cassinese ucciso il 12 dicembre 1969 dalla bomba di Piazza Fontana. Alla sua sinistra Franco Sangalli, Paolo Silva vice presidente del Comitato familiari delle vittime di Piazza Fontana e il coordinatore della serata, Salvatore Giannella.

La maggiore emozione in sala l’abbiamo vissuta alla lettura della testimonianza dei due figli di Oreste Sangalli, Claudio e Franco. Vi riproduco il testo.

Nostro padre Oreste è nato all’alba dell’8 giugno 1920, alle ore 6, in via Moretti 21, nella frazione di Sant’Agata a Cassina. Due giorni dopo il papà di Oreste, nonno Enrico, 48 anni, lasciò la moglie Francesca Vimercati nella Cascina Moretti e puntò sul municipio di Cassina de’ Pecchi dove indicò il lieto evento al dirigente dell’anagrafe comunale, Ernesto Biffi, presenti i testimoni Antonio Comaschi e Luigi Brambilla.

Oreste nacque in una casa di lavoratori della buona terra: imprenditore agricolo lui a Sant’Agata, casalinga lei, Francesca, che gli morì quando lui, Oreste, era ancora bambino. Il fiato cattivo del suo destino si fece sentire fin da subito.

Fino agli anni Quaranta Oreste aiutò i suoi nella vita e nel lavoro di tutti i giorni. Dopo il servizio militare, fu richiamato alle armi quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale. Fu inviato al fronte con la Grecia dove lo colse l’armistizio dell’8 settembre 1943 con le forze alleate, armistizio che divise il Paese e fece dell’Italia una terra allo sbando, avviandola a un lungo periodo di stenti, bombardamenti, rappresaglie, la Resistenza e la guerra civile.

Come sapete, l’esercito italiano si sfaldò: lo scrittore Beppe Fenoglio, nel libro Primavera di bellezza, ha saputo raccontare bene quell’8 settembre dal punto di vista di un soldato:

«E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci.

Di ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario.

Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi –

non lasciarsi disarmare dai tedeschi –

uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi.»

Dopo il disarmo, soldati e ufficiali furono posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco e, in caso contrario, essere inviati nei campi di detenzione in Germania. Nostro padre, come seicentomila altri soldati italiani, scelse questa seconda strada: per questo fu catturato e deportato in Germania dai nazisti dove lavorò fino alla conclusione della guerra come Italienische Militar-Internierte, si leggeva Internato Militare Italiano, in sostanza significava schiavo di Hitler.

Dopo tutti questi anni passati al servizio della patria, Oreste torna in Italia e si dedica alla sua amata, buona terra, questa volta in un’altra cascina del Milanese. Le sue condizioni di salute da allora restano precarie. Ricordiamo ancora oggi i suoi racconti degli anni terribili della prigionia in Germania. Ci descriveva i patimenti della mancata libertà e della fame, tanto che per sopravvivere si nutriva di bucce di patate.

Ripresosi dopo anni dallo sfinimento fisico e morale per tutto quanto aveva vissuto, papà ritorno intensamente al suo lavoro (occupandosi della gestione della fattoria e, in particolare, dell’acquisto e vendita del bestiame) e alla famiglia, rallegrata dalla nascita di noi due figli, Claudio e Franco. Lui aveva tanti hobby, nei quali gli piaceva coinvolgere anche noi figli. La sua passione più forte era per la pesca, pesca in nostra compagnia. A caccia, invece, ci andava da solo o con qualcuno dei suoi amici.

Uno di questi ultimi, un giorno, ce lo descrisse così: “Vostro padre era un lavoratore instancabile, un uomo che sembrava nato stanco, ma sempre con la grande voglia di lavorare, anche quando appariva deperito”.

Nostro padre è morto alle 16,37 del 12 dicembre 1969 mentre adempiva al suo dovere di lavoratore della terra, ucciso dalla bomba assassina nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana per concludere affari di lavoro, sigillati come sempre da una più che notarile stretta di mano.

Alla sua morte ha lasciato nell’azienda agricola Ronchetto, un convento del quindicesimo secolo declassato a cascina al confine di Milano con Corsico, nostra mamma Guida Locatelli, scomparsa da poco (nel luglio 2018) e noi due figli.

Abbiamo vissuto per anni nello sconforto e nella tristezza assoluta. A distanza di 50 anni siamo increduli che certi atti criminosi non solo siano stati pensati, ma attuati con lucida determinazione di follia stragista da parte di criminali, rimasti impuniti. La giustizia bisognava farla subito.

Vi risparmiamo i dettagli sulle molteplici difficoltà che la nostra famiglia ha dovuto affrontare e i gravi, immaginabili disagi che ha comportato il venir meno di un capofamiglia, che era insieme il perno degli affetti e il sostegno economico della nostra piccola comunità.

Senza retorica, rimpiangiamo la sua figura di uomo forte, autorevole, lavoratore.

Un padre che, maciullato nella carne, ci ha lasciato un vuoto incolmabile, che sentiamo impalpabile sulla nostra pelle.

Ancora oggi non dimentichiamo la strage di Piazza Fontana che, come un ossessionante film, si ripete quotidianamente nella nostra mente a ogni vigilia di Natale e che ci angoscia come fosse una cicatrice difficilmente rimarginabile.

Ogni giorno, per noi, è ancora il 12 dicembre 1969”.

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Fotogallery

Dall’album di famiglia

Oreste Sangalli, agricoltore:

una vita segnata

dal fiato cattivo del destino

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Claudio e Franco Sangalli in visita a Enrico Pizzamiglio, uno dei feriti gravi di Piazza Fontana (gli amputarono una gamba).

Nuovi libri su Piazza Fontana che mi fanno compagnia:

A PROPOSITO

Tornate a innamorarvi

testo di Salvatore Giannella

Nei giorni scorsi i giornali hanno dato spazio all’urlo civile di Liliana Segre contro il male dell’indifferenza e all’invito a riscoprire il rispetto e l’amore per il prossimo. Queste parole mi hanno riportato alla mente le parole che raccolsi da un padre dell’industria turistica Gilbert Trigano, patron del Club Méditerranée, cioè il capo di una delle più grandi industrie delle vacanze. Lui, francese, mi dette un’indicazione non secondaria di uno dei tanti problemi dell’Italia contemporanea: “Vedo dappertutto in Italia mascelle tese, vedo dappertutto un’assenza della cultura della gioia. È come se il carisma della gioia, insieme a quello della cultura e dell’imprenditorialità, stia perdendo quota”. Ebbene, io credo che questa sia una molla straordinaria che deve riaccendersi: bisogna che noi italiani torniamo a innamorarci.

Che torniamo a innamorarci del nostro territorio senza eguali al mondo. Che torniamo a innamorarci dell’impegno civile e della lotta politica, della lotta pulita, perché non possa più accadere che ci siano popolazioni intere chiare chiuse nelle loro case nell’indifferenza mentre attorno si giocano sfide decisive per le fortune personali e collettive.

Che torniate a innamorarvi dell’informazione perché le nuove armi sono quelle lì, sono quelle delle tipografie, degli uffici grafici e dei tubi catodici e dell’etere e dei social dove si fabbricano realtà virtuali, spesso bugiarde e anonimamente aggressive. Che torniamo a innamorarci dell’equilibrio tra il febbrile interventismo di alcuni (che credono di poter risolvere a colpi di cemento e tecnologia tutti i problemi) e anche tra l’estremismo della cautela di altri. Che torniamo a innamorarci della bellezza, perché ci stiamo disabituando alla bellezza e pochi hanno seguito l’esempio virtuoso di Ravello, sulla Costiera amalfitana, che per primo ha nominato un assessore all’Estetica (il sociologo Domenico De Masi).

Che torniamo a innamorarci dell’amministrazione pubblica: noi dobbiamo tornare ad avere fiducia nell’amministrazione pubblica, dobbiamo essere esigenti con loro, chiedere che il geometra faccia i suoi viaggi all’estero per capire come a Lione abbattano (e perché) sei grattacieli in periferia “causa di bruttura e di infelicità per chi ci abitava” e l’amministrazione comunale ha ritenuto di dover ridare nuovi appartamenti in un’altra parte della città, radendo al suolo i sei grattacieli. Che torniamo a innamorarci della qualità, del metodo di lavoro e della progettazione. Che torniamo a innamorarci della buona politica, alla quale va dato il primato perché altrimenti c’è la legge darwiniana e quella favorirebbe gli squali di ogni genere. Che torniamo a innamorarci dell’intelligenza, perché se n’era accorto già Carlo Cattaneo in un libro che non a caso ha per titolo Scritti economici, non scritti di romanticismo, quando scriveva che “non v’è lavoro, non v’è capitale che non cominci con un atto di intelligenza. Prima di ogni altro lavoro, prima di ogni altro capitale quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia e imprime in essa per la prima volta il carattere di ricchezza”. Che torniamo a innamorarci dell’educazione perché senza di essa non ci sarà futuro e noi nel settore della scuola, dell’università e dell’educazione abbiamo un costante declino degli investimenti. Chiudo ricordando una battuta di Robert Kennedy che diceva a proposito dell’essenza della democrazia: “Vi prego, siate indignati”. Io lo aggiornerei così:

Vi prego, siate indignati e soprattutto siate nuovamente innamorati del grande, faticoso gioco della democrazia, sistema che può presentare qualche difetto ma non se n’è trovato finora uno migliore. Ricordiamocelo, ricordiamolo ai figli e nipoti.

(Adattamento dal libro “Manifesto contro il potere distruttivo”, di Maria Rita Parsi e Salvatore Giannella, Chiarelettere, 2019)

 

Maria Rita Parsi e Salvatore Giannella

Maria Rita Parsi e Salvatore Giannella, “Manifesto contro il potere distruttivo”.

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Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog che vuole essere una bussola verso nuovi orizzonti per il futuro, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”, “Guida ai paesi dipinti di Lombardia”, “In viaggio con i maestri. Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo” e, a quattro mani con Maria Rita Parsi, “Manifesto contro il potere distruttivo”, Chiarelettere, 2019), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” (clicca qui per approfondire).