Caro Alberto,
la lettura del tuo stimolante libro Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini & Castoldi, 2020) ha mosso miei ricordi e innescato un’iniziativa intrigante che proporrò a puntate in futuro alla comunità di Giannella Channel.

I ricordi

Ne scelgo due, che ti proietto come diapositive immaginarie:

  1. Venezia 1987, dopo il vertice in laguna dei Grandi della Terra, a Palazzo Grassi arriva – ospite di Gianni Agnelli – il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan con la moglie Nancy e una delegazione di imprenditori italiani e americani. Nel brindisi di saluto, Agnelli si rivolge a Reagan con queste parole: “Caro presidente, benvenuto nel Museo Italia. Il nostro Paese, per i suoi numerosi beni culturali e ambientali, è il museo del mondo e dovremmo far pagare il biglietto d’ingresso a chiunque arrivi”.
  2. Madrid 2007: vent’anni dopo, nel mio giro per l’Europa eccellente sfociato nel libro Voglia di cambiare (Chiarelettere), atterro nella capitale spagnola dove in serata danno la rappresentazione teatrale “Notte di guerra al Prado”, di Rafael Alberti, gigante della cultura spagnola figlio di genitori italiani, dalla vita secolare (1902-1997) intensa e drammatica a causa del suo impegno politico contro la dittatura di Franco. Le opere del principale museo madrileno, in quel dramma teatrale, si animano durante una giornata della guerra civile spagnola (1936), vissuta realmente dall’autore che era stato incaricato dal governo legittimo di salvare i quadri più preziosi durante l’assedio franchista di Madrid. L’opera, pubblicata in un libro del 1956 e ristampata da Einaudi nel 1970 (tre anni dopo fu presentato in Teatro in piazza a Santarcangelo di Romagna e a Bari da un giovane regista destinato a un futuro successo popolare in tv, Michele Mirabella) è ormai introvabile nei cartelloni teatrali e nelle librerie. Così vidi che i popolani di Goya e altri eroi della storia spagnola escono dalle tele, si materializzano e danno forza e coraggio agli assediati del Prado che stanno combattendo una battaglia giusta in difesa della Libertà e dell’Arte (poi riusciranno a portare in salvo, fino a Ginevra, i preziosi dipinti).

Il genio degli italici

Avrai intuito perché ho usato, e non per pigrizia, l’aggettivo stimolante per il tuo libro, che raccomando caldamente ad amici e lettori del mio blog. Lo raccomando non solo perché davanti ai loro occhi fai sfilare, tu giornalista più francese dei giornalisti italiani, nomi, storie, dati, contributi forniti Oltralpe dagli italiani famosi, e meno, nei vari campi di attività (da Leonardo da Vinci a Caterina de’ Medici, fino a Pierre Cardin e Renzo Piano). Ho avvertito la sensazione che il Museo Italia evocato a suo tempo da Agnelli (oggi più che mai dopo l’emergenza sanitaria a un bivio storico tra la rinascita o, in mancanza di idee, il degrado diffuso) abbia bisogno che si materializzino dai nostri quadri le migliori figure tra le decine di milioni di compatrioti emigrati nel mondo (gli ITALICI li chiama giustamente l’imprenditore che fu primo governatore della Lombardia, Piero Bassetti) come quelli che hanno contribuito con il loro genio alla grandeur delle altre terre del mondo, a partire dalla Francia: “La Francia non sarebbe la stessa senza i suoi immigrati”, scrivi giustamente nella tua prefazione. “E l’Italia non sarebbe la stessa senza la storia dei suoi figli che hanno dovuto andarsene”. Storie di uomini e donne che ci facciano sentire fieri in un periodo in cui, avvolti da un chiacchiericcio informativo spesso di basso livello, c’è bisogno di una forte iniezione di orgoglio nazionale che vite non comuni di nostri connazionali potrebbero ricordarci quello che che comunque all’estero ci viene riconosciuto nella nostra storia e che potrebbero cementare l’edificio traballante di una comune cultura europea.

Della galleria di questi geni italici intendo illuminare in futuro le loro menti regione per regione, nazione per nazione. Cominciamo dalla Francia e da alcuni nomi uniti dalle comuni radici pugliesi, rievocati da te, caro Alberto. Nelle prossime puntate, pur rimanendo in Francia, risaliremo sulle tracce di saggi emigrati dal Friuli e dalle altre regioni della penisola. Successivamente passeremo ad altri parti del mondo e ad altre storie di genio italico (a questo proposito lancio un appello alla comunità italica nel mondo affinché, con le loro testimonianze, contribuiscano a tessere questo ambizioso mosaico di personalità geniali che hanno cambiato il mondo grazie alle loro qualità e fattori: intelligenza, creatività, tenacia ma anche fortuna, per citarne alcuni.

Il poker d’assi pugliese

Durante i miei studi universitari a Bari, mi è capitato di varcare la soglia del teatro cittadino intitolato a Niccolò Vito Piccinni, musicista italiano a Parigi (Bari, 1728 – Passy, oggi nel comune di Parigi, 1800). Toscano lo introduce così: “Nel suo affresco della vita parigina negli anni 1770-1780, c’è una sorta di competizione musicale italo-tedesca in terra francese: quella tra Christoph Willibald Gluck (grazie ad Adriano Celentano, la via Gluck diventerà dal 1966 la via più cantata di Milano) e il suo rivale pugliese Niccolò Piccinni. Fa gli elogi del primo, descritto come il compositore che gli ha fatto ‘conoscere il fascino della musica’. Ma aggiunge che nella Francia dell’epoca è molto apprezzato anche l’italiano Piccinni, che definisce ‘armonioso, brillante e tenero’.

Mercier ci racconta che agli italiani del Settecento capita di darsi un sacco d’arie quando si trovano a Parigi per i loro affari. Con fare un po’ altezzoso, si comportano talvolta come i maestri europei della musica e dell’arte. Lo scrittore francese dedica un paragrafo alla vita e alle attività degli stranieri a Parigi. A proposito degli italiani, afferma: «Nel suo albergo, l’italiano è sobrio e non vi inviterà mai a cena; vi offrirà il gelato come nel suo Paese; vorrà vedere dei quadri per prendervi in giro e ascoltare la musica per riderci sopra». Lo stereotipo dell’italiano a Parigi è insomma quello di una persona con la puzza sotto il naso, convinto della superiorità culturale (in particolare musicale) della propria patria.

Casa Niccolò Piccinni - Bari

La casa dove il 16 gennaio del 1728 nacque Niccolò Piccinni nel centro storico di Bari, con ingresso in Piazza Mercantile. Casa Piccinni è stata restaurata grazie a un accordo tra Comune e Conservatorio barese, anch’esso intitolato al musicista, finalizzato a rasformare la struttura in un contenitore di arte e cultura e in un Centro ricerche musicali. (foto di Ennio Cusano).
Sotto: il francobollo commemorativo di Piccinni nell’anno 2000, bicentenario della sua morte.

Niccolò Piccinni - Francobollo commemorativoNiccolò Piccinni era figlio d’arte: suo padre, Onofrio, era impiegato dal 1719 nella basilica di S. Nicola come violinista, contrabbassista e, nel 1743, maestro di cappella e sua madre, Silvia Latilla, era sorella dell’operista Gaetano. Dopo gli studi al Conservatorio di Napoli, nel 1760 riscuote grande successo (in Italia e in Europa) con l’opera buffa La Cecchina, ovvero la buona figliola con libretto di Carlo Goldoni. Dal 1763 il compositore abita in affitto con la moglie, la cantante Vincenza Sibilla, già allieva sua, e la famiglia in un appartamento davanti al teatro di S. Carlo. Piccinni ebbe cinque figlie (Maria Rosa Maddalena, Giulia Maddalena Luisa, Marianna Chiara Francesca, Barbara Rachele Maria Giuseppina e Teresa Giacinta Giovanna; le ultime due si fecero monache) e due figli maschi: Giuseppe Maria e Luigi Pietro Flavio (Napoli, 1766 – Passy, 30 luglio 1827), quest’ultimo avrebbe poi seguito le orme paterne nei teatri d’Italia, di Parigi e di Stoccolma.

Piccinni varca le Alpi nel 1776. A Versailles eccolo impartire lezioni di musica alla regina Maria Antonietta. Diventa anche direttore del Théâtre italien. La sua collaborazione con Goldoni si intensifica e la storia della buona figliola continua con l’opera La buona figliola maritata, che riceve un’accoglienza molto favorevole nel 1779 all’Accademia reale di musica di Parigi. Piccinni cambia aria prima della tempesta rivoluzionaria. Lascia Maria Antonietta e la Francia nel 1789 per vivere a Napoli, da dove torna nel 1798 in Francia in cerca dei suoi amici, del suo lavoro e della pensione a cui pensa d’avere diritto dopo aver composto 116 opere liriche. (In vecchiaia Piccinni viene attanagliato da difficoltà economiche dopo la rovinosa gestione della vendita per procura delle lastre delle sue partiture francesi e dei diritti di rappresentazione). In riva alla Senna trova l’ammirazione di Napoleone Bonaparte, lanciato verso il potere, ma non trova né Maria Antonietta né alcuni suoi amici, partiti loro malgrado per un viaggio senza ritorno.

Bonaparte ha altre simpatie. Adora le musiche di un altro pugliese, Giovanni Paisiello (Taranto, 1740 – Napoli, 1816), l’ultimo maestro del Settecento napoletano, figlio di Grazia Fuggiale e di Francesco, eminente chirurgo veterinario al servizio di Carlo III, re di Napoli. Studi a Napoli, impegni nei teatri di tutt’Italia e poi (1776) direttore musicale alla corte della zarina Caterina II di Russia nella neonata San Pietroburgo.

Teatro Paisiello - Lecce

Giovanni Paisiello (Taranto, 1740 – Napoli, 1816) e il piccolo gioiello del teatro di Lecce a lui dedicato.

Giovanni PaisielloBonaparte è ancora «soltanto» primo console, quando nel 1802 Paisiello si trasferisce a Parigi, beneficiando ben presto di condizioni economiche molto vantaggiose, grazie appunto all’evidente ammirazione dell’uomo forte della Francia post-rivoluzionaria. Nel 1804, Napoleone diventa imperatore e Paisiello mette in musica il suo trionfo. Potrebbe godersi gli allori parigini, ma torna a vivere nell’amata Napoli. La cerimonia d’incoronazione di Napoleone si svolge il 2 dicembre 1804 nella cattedrale di Notre-Dame e il Te Deum è opera del devoto Giovanni, che rielabora una sua composizione di 13 anni prima. Per non perdere la stima e i lauti emolumenti dell’imperatore, Paisiello inviò poi con regolarità a Parigi un gran numero di brani sacri e una nuova composizione celebrativa per il genetliaco di Napoleone.

La biblioteca dei Girolamini di Napoli possiede un’interessante raccolta di manoscritti che registrano le opinioni di Paisiello sui compositori a lui contemporanei.

Un pugliese “inventa” la settima arte

Fin dai tempi del muto, il cinema italiano e quello francese sono strettamente legati fra loro. Attori, registi e sceneggiatori di origine italiana si fanno largo nella «settima arte» transalpina. L’espressione stessa «settima arte», entrata nel linguaggio comune per indicare il regno di celluloide, è frutto delle riflessioni di un intellettuale italiano andato a vivere al di là delle Alpi: il pugliese Ricciotto Canudo (Gioia del Colle, Bari, 1877 – Parigi, 1923).

Ricciotto Canudo

Ricciotto Canudo (Gioia del Colle, Bari, 1877 – Parigi, 1923) è stato
un critico cinematografico, poeta e scrittore.

Nel libro collettivo delle edizioni Skira L’Italia del Père-Lachaise, il critico cinematografico e storico del cinema Jean Gili, massimo esperto francese di cinema italiano, cita una frase scritta da Canudo nel 1911 a Parigi: «Il cinematografo rinnova ogni giorno, e ogni giorno in modo sempre più possente, la promessa di questa grande conciliazione. Non solo tra Scienza e Arte, ma anche tra i Ritmi del Tempo e i Ritmi dello Spazio». Ricciotto Canudo compie studi letterari e filosofici prima a Firenze e poi a Roma. Si trasferisce in Francia nel 1901 e cerca lavoro come giornalista, sperando di ottenere una corrispondenza per un quotidiano o un periodico italiano. Al tempo stesso s’inserisce nel microcosmo parigino delle arti figurative, allora in pieno fermento. Conosce Picasso e ha una relazione con Valentine de Saint-Point, modella per Rodin.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola come volontario nella Legione garibaldina, in seno all’esercito francese. Combatte su vari fronti e viene gravemente ferito. Tornata la pace, continua a risiedere a Parigi, dove approfondisce le proprie riflessioni sul rapporto tra il cinema e le forme tradizionali dell’espressione artistica. Concepisce il cinema come un’arte a sé stante, cosa che in quel momento non è affatto scontata. Nato nel 1895, il «cinematografo» è ancora poco più di una curiosità quando l’intellettuale pugliese (chiamato scherzosamente le Barisien, per indicare la sua natura di parigino barese) comincia la sua riflessione. Jean Gili – lui stesso di origine italiana, visto che la sua famiglia è emigrata da Cannobbio, sul Lago Maggiore – descrive a Toscano il ruolo profondamente innovatore del pensiero di Ricciotto Canudo. “Nel 1919”, dice Jean Gili, “Ricciotto Canudo esprime il concetto di settima arte in una serie di articoli e di discorsi a proposito del cinema. In particolare pubblica, il 23 ottobre di quell’anno, sul quotidiano parigino L’Information, un testo intitolato “La Leçon du cinéma”, in cui per la prima volta parla esplicitamente, in un documento scritto, di settima arte a proposito dell’invenzione dei fratelli Lumière”.

In quello stesso periodo Gabriele D’Annunzio è a Fiume, dove Canudo va a dargli manforte per alcuni mesi nel 1920. Jean Gili prosegue dicendo: “Rientrato a Parigi, le Barisien riprende le sue riflessioni di agitatore intellettuale. Eccolo il 17 febbraio 1921 pronunciare al Café Grillon, per l’esattezza al numero 43 del boulevard Saint-Germain, una conferenza dal titolo La settima arte: il cinema. Ed eccolo creare nell’aprile 1921 il Club des Amis du Septième Art, la cui sigla è tutta un programma: CASA. È proprio a casa sua, dalle parti dell’Opéra, al 12 rue du Quatre Septembre, che Canudo riunisce cineasti, attori, critici, scrit-tori, pittori, architetti, musicisti e così via”. Tutti insieme a riflettere sul senso e sull’avvenire della nuova forma di espressione artistica. Il gruppo di intellettuali del CASA parla di letteratura e di musica sempre con l’occhio rivolto alla rivoluzione che il cinema (peraltro muto) sta esprimendo e potrebbe esprimere. Jean Gili ha trovato l’analisi di Canudo, espressa nel suo articolo «Les sept arts», uscito il 23 novembre 1922 sulla rivista belga 7 arts e divenuto nel gennaio 1923 il «Manifeste des sept arts» sulle colonne della nuova rivista francese La Gazette des sept arts, diretta dallo stesso Canudo. Ecco il testo:

Questa arte di sintesi totale che è il cinema, questo favoloso bimbo della macchina e del senti-mento, comincia a passare dai primi vagiti all’età dell’infanzia. Ben presto l’adolescenza lo vedrà impossessarsi della sua intelligenza e moltiplicare i suoi sogni; vorremmo vederlo sbocciare in fretta e arrivare alla sua giovinezza. Noi abbiamo bisogno del cinema per creare l’arte totale verso cui tutte le altre hanno da sempre anelato di muoversi.

Il barlettano che sedusse Parigi

Per Giuseppe De Nittis, pittore nato a Barletta nel 1846, figlio quartogenito di Raffaele e Teresa Emanuela Barracchia, e stabilitosi nel 1868 a Parigi il soggiorno in Francia avrebbe dovuto essere un’esperienza umana e professionale di breve durata, ma diventa la svolta nella sua esistenza. “Io amo la Francia appassionatamente e disinteressatamente, più ancora di un qualsiasi francese”, afferma. In Francia sposa Léontine Gruvelle, che sceglie l’amore mentre sogna una carriera di giornalista e scrittrice.

Giuseppe De Nittis - Autoritratto

Giuseppe De Nittis, Autoritratto (1883-1884; pastello su tela, 114 x 88 cm;
Barletta, Pinacoteca Giuseppe De Nittis).

Tra gli amici di Giuseppe e Léontine ci sono grandi nomi dell’Impressionismo, con cui il pittore pugliese ha un rapporto molto stretto, anche se evita di identificarsi completamente in questo movimento. Partecipa nel 1874 alla prima esposizione degli Impressionisti, con Claude Monet, Paul Cézanne, Edgar Degas, Jean-Baptiste Armand Guillaumin, Berthe Morisot, Camille Pissarro, Pierre-Auguste Renoir e Alfred Sisley. In occasione dell’Esposizione universale del 1878 a Parigi propone al pubblico 11 delle sue opere.

Giuseppe De Nittis - La masseria

Giuseppe De Nittis, La masseria (olio su tavola, 12 x 25 cm; Collezione privata).

De Nittis è il marito di Léontine, ma dice d’aver in un certo senso sposato la Francia. In questo Paese si sente completamente a casa sua, muovendosi come un pesce nell’acqua sulla scena artistica e intellettuale parigina. Guy de Maupassant ed Emile Zola sono tra i suoi amici. La città di Parigi diventa la sua modella. Ne ritrae la vita, le passioni, le pulsazioni. Nei suoi dipinti parigini troviamo personaggi della vita quotidiana in posti significativi di una città in piena evo-luzione, tra il Secondo Impero e la Terza Repubblica. De Nittis, ritenuto l’impressionista italiano, ritrae volentieri luoghi come place de la Concorde, l’Etoile, i Grands Boulevards. Trasmette la sensazione della vita parigina durante le diverse stagioni e condizioni meteorologiche. Torna in Italia varie volte. Dice di aver «sposato» la Francia, ma vuole portare la moglie francese a Barletta. Non manca di dipingere i paesaggi della sua terra natale.

A seguito di un problema cardiaco, muore nel 1884 a Saint-Germain-en-Laye. Uno dei suoi amici, Alexandre Dumas, scrive l’epitaffio per la sua tomba al cimitero del Père-Lachaise:

Qui giace il pittore Giuseppe De Nittis morto a 38 anni in piena gioventù

in pieno amore in piena gloria come gli eroi e i semidei.

La vita di De Nittis si snoda tra Barletta, Napoli, Londra e Parigi. A Barletta, la sua memoria è alimentata dalla Pinacoteca De Nittis, situata nello storico Palazzo Marra. Vi si trovano i molti quadri donati alla città pugliese dalla vedova dell’artista. Purtroppo la Francia è sembrata perdere progressivamente la memoria del pittore italiano, che tanto l’aveva amata e raffigurata. Tra il 1886 e il 2010 la città di Parigi non ha organizzato specifiche esposizioni con i quadri di De Nittis. Finalmente, nei mesi a cavallo tra il 2010 e il 2011, un luogo prestigioso della capitale – il Petit Palais – ha posto fine a questa ingiustizia, dando vita all’esposizione che ha rilanciato Oltralpe l’immagine del pittore di Barletta. Gli organizzatori di questa mostra lo definiscono “la figura più notevole della colonia d’artisti italiani presente a Parigi nella seconda metà del XIX secolo”.

Ungaro, maestro d’eleganza figlio di un sarto pugliese

Un’altra storia di famiglia e di uso della lingua regionale, in questo caso il pugliese, mi viene raccontata da Cosima Ungaro, figlia del grande stilista francese (di origine italiana) Emanuel Ungaro (Aix-en-Provence, 1933 – Parigi, 2019). “Mio padre si chiamava in realtà Emanuel Matteotti Ungaro perché, anche nel dargli il nome, mio nonno Cosimo, comunista e militante antifascista, ha voluto lasciargli un’eredità politica e quasi una missione di coerenza morale con gli ideali della famiglia. I suoi genitori venivano da Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi. Erano legatissimi alla loro terra, ma hanno dovuto abbandonarla per ragioni politiche, in un periodo in cui in Italia l’intolleranza aumentava di giorno in giorno. Si sono stabiliti ad Aix-en-Provence, dove mio nonno ha continuato il suo mestiere di sarto. I miei nonni avevano sei figli, di cui Emanuel era il secondo. Vivevano in otto in un appartamento di 32 metri quadri, in una vecchia casa di Aix-en-Provence. Le toilette erano comuni a tutto il palazzo, in cortile. I genitori non parlavano italiano. Parlavano pugliese e poi hanno imparato per forza di cose il francese. In famiglia nessuno parlava italiano. Mio padre lo ha imparato più tardi, seguendo i suoi interessi e facendo il suo lavoro. La loro era una famiglia all’italiana, profondamente unita, in cui tutti erano pronti a lavorare tanto e a darsi sempre una mano tra loro. Mio padre ha cominciato a lavorare all’età di 14 anni nella sartoria di mio nonno. Poi il suo dramma si è trasformato nella svolta della vita. A 16 anni si è ammalato di tubercolosi e la famiglia ha fatto grandi sacrifici per consentirgli di trascorrere un lungo periodo in un sanatorio, sulle Alpi francesi. Lui ne ha approfittato per pensare all’avvenire, per sognare e per costruire tutta una vita sui sogni che ha poi realizzato. Era riconoscente alla Francia per aver accolto la sua famiglia e poi per il successo che ha avuto nel suo lavoro, ma aveva un po’ di nostalgia dell’Italia. Lo si vedeva anche quando si metteva a tavola. Il suo piatto preferito era la pasta con le polpette. Pasta pugliese, naturalmente. Orecchiette come quelle che sua mamma faceva a mano. Scherzando, io gli dicevo che “rideva in italiano”.

Emanuel Ungaro

Emanuel Ungaro, il grande stilista francese dal sangue italiano.

Nel senso che si distendeva quando la sua vita entrava in sintonia con l’Italia. Quando chiacchierava con amici italiani, magari bevendo un bicchiere di buon vino italiano. Anche la sua villa in Provenza è stata concepita pensando all’Italia, con cipressi fatti venire dalla Toscana. Se n’è andato così. Riconoscente alla Francia e con l’Italia nel cuore”. Se n’è andato alla fine del 2019 dopo essere diventato una delle principali firme della moda mondiale.

Da Corato a Grenoble: “Quando sul Frejus passavamo noi”

L’esilio di Cosimo Ungaro per motivi politici è anche una delle componenti dell’abbandono dell’Italia da parte di tanti altri connazionali. Scrive Toscano: “Il simbolo di questa migrazione di massa è costituito – per quanto riguarda i pugliesi – dai coratini di Grenoble”. Da Corato, a nord di Bari (città a me cara perché da lì veniva la mia dolce nonna Vittoria Mastromauro), in Francia negli anni Venti per sfuggire al fascismo erano gli italiani a percorrere la stessa rotta che oggi utilizzano i migranti per passare in Francia. È successo a Savino Ferrara, che 70 anni fa superò il confine senza documenti, passando a piedi per le montagne. Stesso percorso per l’ingegnere Victor Tarantini, 80 anni, oggi vicepresidente dell’associazione di Grenoble che dal 1984 rappresenta i circa 30 mila coratini o francesi originari di Corato che hanno studiato e si sono integrati bene. Le due città sono gemellate.

L’Europa l’hanno fatta anche loro, i Ferrara e i Tarantini che hanno sopportato per anni di essere chiamati con disprezzo «macaroni» e oggi sono fieri di sentirsi integrati come francesi, che sono amici ma soprattutto figli, nuore, nipoti. Si parla francese, poi si passa all’italiano e anche un po’ al dialetto pugliese: l’«identità plurale» teorizzata da Daniel Cohn-Bendit.

I coratini di Grenoble ci ricordano i sacrifici di un secolo e più d’emigrazione italiana. Del passato dell’emigrazione italiana si può, per fortuna, parlare anche con un sorriso. Possono farlo le persone coscienti di aver compiuto sempre il proprio dovere e che, in alcuni casi, arrivano a ottenere straordinarie ricompense. La molecola chiave, ci ricorda Toscano nel suo libro, è il lavoro: ecco l’immagine del popolo migratore, che in Francia come altrove è stato capace di integrarsi lavorando. Lavorando sempre, lavorando tanto. I veri italiani che hanno «fatto la Francia» sono sì, i geniali italici, ma anche quei milioni di donne e di uomini che hanno sempre pensato al lavoro. Perché lavoro fa rima con futuro. (1. Continua. Nella prossima puntata: il contributo dei friulani alla grandeur della Francia.)

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Alberto Toscano (Novara, 1948) è giornalista, saggista e politologo. È stato ricercatore dell’ISPI di Milano e redattore del settimanale «Relazioni Internazionali». A Parigi, dove vive dal 1986 (telefono 06 12185877) e collabora con i principali gruppi radiotelevisivi, i media lo hanno definito «il più francese dei giornalisti italiani». Ex presidente dell’Associazione stampa estera in Francia e attuale presidente del Club de la presse européenne di Parigi, è membro dell’Unità di formazione e ricerca di italiano della Sorbona. È cavaliere dell’Ordine del merito sia della Repubblica francese sia della Repubblica italiana. Dalla fondazione, 2001, è il motore culturale lavori della Associazione culturale Piero Piazzano di Novara che annualmente assegna l’omonimo premio giornalistico per la migliore divulgazione dei temi scientifici ed ecologici (info: premiopiazzano.com).

 

Alberto Toscano - Gli italiani che hanno fatto la Francia

La copertina del libro scritto da Alberto Toscano per Baldini + Castoldi,
18,05 euro. È possibile acquistarlo a questo link.

 

A PROPOSITO/ I numeri della Fondazione Migrantes*

Alla conquista del mondo: 5,3 milioni gli italiani in 195 destinazioni diverse

  • Su un totale di oltre 60 milioni di cittadini residenti in Italia a gennaio 2019, alla stessa data l’8,8% è residente all’estero. Gli iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), aggiornati all’1 gennaio 2019, sono 5.288.281 (+173.812 iscritti rispetto al 2018). Dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del +70,2% passando da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’AIRE a quasi 5,3 milioni.
  • Il 71,2% degli iscritti all’AIRE per solo espatrio nel 2018 è in Europa e il 21,5% in America (il 14,2%, in particolare, in America Latina). Sono ben 195 le mete di destinazione verso le quali si sono diretti gli oltre 128 mila connazionali partiti nel 2018. Torna il protagonismo del Regno Unito che, con oltre 20 mila iscrizioni, risulta essere la prima meta prescelta nell’ultimo anno. Al secondo posto, con 18.385 connazionali, vi è la Germania (-8,1%). A seguire la Francia (14.016), il Brasile (11.663) la Svizzera (10.265), la Spagna (7.529).
  • Stando ai dati del Musée National de l’histoire de l’immigration1, nel 1931 gli italiani residenti in Francia erano 800 mila, cifra passata a poco più di 211 mila nel 2017. Attualmente 3 milioni di francesi hanno almeno un parente di origine italiana.
  • La Francia resta una delle mete preferite dell’odierna migrazione italiana. A differenza di quanto avveniva nel passato, oggi le donne sono rappresentate quanto gli uomini e come loro sono altamente qualificate. Oltre che nei tradizionali campi del turismo e della ristorazione, gli italiani di oggi si inseriscono molto bene in settori qualificati come comunicazione, arte, moda e cultura, tutti campi in cui godono di un vasto credito proprio in quanto italiani. Tantissimi inoltre sono i connazionali che lavorano nel campo della ricerca e dell’insegnamento e al Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) risultano la nazionalità più rappresentata tra i ricercatori stranieri. Anche se non tutti riescono a trovare il lavoro che corrisponde alla loro preparazione, la maggior parte degli italiani sono soddisfatti della loro esperienza migratoria nel territorio francese.

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Delfina Licata - Fondazione Migrantes* La Fondazione Migrantes è un organo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana. Compito peculiare della Migrantes è l’assistenza al mondo della mobilità umana. Quello degli italiani all’estero è l’ambito operativo più antico caratterizzato dagli oltre 150 anni di azione pastorale che la Chiesa italiana ha realizzato nel mondo dove erano e sono presenti i nostri emigranti. Per la Migrantes lo studio di questo ambito è iniziato nel 2006 con la pubblicazione del Rapporto Italiani nel Mondo. Oggi il Rapporto è molto di più che un annuario: è uno studio sistematico, un progetto culturale attraverso che fa conoscere la storia dell’Italia e degli italiani e soprattutto il tema della mobilità italiana degli ultimi 15 anni. Multidisciplinarietà e transnazionalità sono le parole d’ordine di uno strumento culturale caratterizzato da una redazione di almeno 50 autori all’anno che dall’Italia e dall’estero scrivono di mobilità italiana. Curatrice e caporedattrice di questo progetto culturale è Delfina Licata, sociologa, da anni attenta studiosa della mobilità umana e italiana in particolare. Contatto: delfinalicata@migrantes.it

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