(Johannesburg)

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In questa e nell’immagine in basso, manifesti pubblicitari di aziende che pongono al centro la figura di Mandela.

“Silenzio e rispetto” è il claim di una pagina pubblicitaria della principale banca americana che opera in Sudafrica. Sopra, in mezzo al foglio bianco c’è la foto di Madiba, il papà della nazione. I giornali e le strade di tutte le città del Sudafrica sono stati ricoperti per giorni e settimane, dopo la morte di Mandela, con pubblicità come questa.
L’immagine di Mandela campeggia ovunque nel Sudafrica da anni, ma dal giorno della sua morte, per settimane, tutti i negozi, gli uffici, i supermercati hanno voluto rendere omaggio a Mandela con pagine e manifesti che riportano una sua frase celebre o anche solo poche parole, accanto al volto dell’uomo che ha cambiato le sorti di questo paese, dandogli anche una opportunità a livello economico.
Oggi il Pil del Sudafrica cresce del 2% l’anno, ma nel 1995, quando Mandela, finalmente libero, ha vinto le prime elezioni democratiche alla guida dell’ANC, il Pil cresceva del 5%. Grazie all’intuizione di Mandela di opporsi in parte alla politica economica puramente socialista, entrando in rotta di collisione per questo con il suo partito e dimostrando al mondo, ma prima di tutto all’Africa che poteva esistere un modello diverso da quello cinese delle nazionalizzazioni selvagge, il Sudafrica è entrato a far parte del Bric.
Sono i paesi con una società magari ancora frammentata e problematica, ma con una economia in continuo rafforzamento e con il Pil in cresciuta.

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In Sudafrica, per intenderci, non esiste la crisi. Il che non significa che il Sudafrica non abbia problemi. Il rand, la moneta locale, si svaluta di giorno in giorno, ma solo nei confronti di monete forti, come l’euro e il dollaro. La morte di Mandela ha fatto deprezzare la moneta locale, che oggi vale meno di un due mesi fa. Un euro viene cambiato per 14 rand. Ma il valore d’acquisto della moneta localmente è buono. Con appena 50 rand, cioè poco più di 3 euro, si può cenare al ristorante.
Lo stipendio medio è purtroppo ancora legato al colore della pelle. La paga di un lavoratore nero è un sesto di quella di un lavoratore bianco, cioè circa 3 o 4 mila rand (appena 300 euro).
Comunque nell’intero continente africano, da imprese e lavoratori, Mandela è considerato l’uomo del miracolo economico (oltre che l’eroe di umanità che tutti sappiamo).
Madiba, soprattutto dopo il Forum economico mondiale di Davos, nel 1999 decise di cambiare radicalmente rotta. Sul Sudafrica pesavano ancora gli anni duri dell’apartheid, la disoccupazione, pesantissima per la popolazione nera, superava il 46% e l’embargo imposto al regime bianco dell’apartheid aveva ridotto in ginocchio le famiglie, le imprese e il paese.
Decise di aprire in maniera moderata al mercato, di impedire la nazionalizzazione delle miniere (fortemente voluta invece da gran parte dei suoi compagni di partito nell’ANC) e, in questo modo, di dare una prospettiva di futuro all’economia del Sudafrica.

Oggi questa nazione è la più europea del continente africano. In Sudafrica ci sono ancora i leoni, nei parchi nazionali, ma le città sono moderne e aperte 24 ore su 24. Gli investimenti internazionali sono milionari e provengono per lo più dalla Svizzera e dagli Stati Uniti.
Per questo non stupisce, anche se colpisce, che tutte le realtà economiche del paese salutino Nelson Mandela, che è considerato non solo il papà della democrazia, ma anche dell’economia.
Alcuni giornali locali nei giorni del lungo addio senza lacrime a Tata Madiba hanno messo in evidenza come di Mandela resti, dopo la sua morte, molto più di un brand. La più importante società di analisi del mercato dei marchi americana considera quello di Mandela il secondo marchio più conosciuto (e quindi economicamente interessante) al mondo. Il brand Mandela sarebbe secondo solo a quello della Coca Cola.
Non è un caso che non solo i negozi e le banche locali dedichino un tributo a Tata Madiba. Lo fanno infatti anche i grandi marchi internazionali, compresa la Coca Cola, che riprendendo il proprio logo e riempiendolo di persone stilizzate che si danno la mano, pone al centro la figura di Madiba, il gigante che assieme alla libertà ha anche dato una economia avanzata al suo paese, l’uomo della speranza.

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A PROPOSITO / Come hanno operato le Commissioni per la verità e la riconciliazione

Signor nemico crudele: lei è stato perdonato

di Russell Ally*

L’esperienza dei Tribunali del perdono in Sudafrica può insegnare qualcosa nella nostra società dove molte stragi sono ancora avvolte dal segreto di Stato e ancora misteriosi molti suoi ideatori principali. “Con troppa facilità la novità dell’esperienza delle Commissioni per la verità e la riconciliazione è stata accantonata e giudicata come qualcosa che, tutto sommato, ha potuto funzionare più o meno bene per paesi arretrati. Non si è cercato di capire che alcuni degli aspetti fondamentali della giustizia, e soprattutto il tema della centralità delle vittime, possono e debbono entrare in una riforma della giustizia di tipo tradizionale, di tipo occidentale” (Marcello Flores, docente di Storia contemporanea e Storia comparata alla facoltà di Lettere dell’Università di Siena). E allora ricostruiamo come hanno funzionato quelle Commissioni con le parole di uno dei suoi componenti. (S.G.)

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Quando la Commissione per la verità e la riconciliazione è stata costituita, nessuno di noi aveva veramente capito che cosa avremmo fatto e quali sarebbero state le conseguenze. C’era solo una legge del nuovo governo che diceva: questo è il compito che vi viene assegnato. Era stimolante, e per i membri della commissione era anche un privilegio, ma è anche qualche cosa che può spaventare. Voi sapete quali erano le condizioni in Sudafrica fino a poco fa, cioè tutti i conflitti violenti che avvenivano nel nostro paese: non erano in molti quelli che avrebbero scommesso sulla possibilità di una transizione pacifica. Tutti pensavano che ci sarebbe stato un cambiamento, ma nessuno era in grado di capire e di prevedere “quale” tipo di cambiamento. Di fronte a un cambiamento pacifico, si corre sempre il rischio di dimenticare il passato, mentre un cambiamento violento fa guardare al passato con il desiderio di punire chi era prima al potere.

Quando il nostro presidente Nelson Mandela uscì di prigione, il suo primo messaggio al paese fu: “riconciliazione e unità”; e molti si sorpresero nel vedere il nostro leader che, dopo tanti anni di prigione, parlava, senza tracce di amarezza, di riconciliazione. Ma è proprio a partire da questo messaggio di comprensione e di riconciliazione che si è reso necessario riesaminare il passato. Per superare l’apartheid c’è stato un compromesso? Credo che, a un certo livello, sia vero. Però il compromesso non ha riguardato il bisogno di democrazia o il rifiuto del razzismo, ha riguardato “come” arrivare alla democrazia e al rifiuto del razzismo. “Ci uccidiamo a oltranza, per arrivarci, oppure cerchiamo un’altra soluzione?”. Questa è la cosa più difficile da capire per i razzisti, perché loro pensano che il compromesso sia stato fatto con il vecchio sistema. Mentre il fatto che si dovesse creare uno Stato democratico non razzista non è mai stato oggetto di negoziazione.

Così molte persone, in particolare quelle che erano al potere e che avevano tratto vantaggio dal regime dell’apartheid, hanno pensato che l’appello alla comprensione e alla riconciliazione di Mandela fosse un invito a passare un colpo di spugna sul passato. Dicevano: “Che miracolo incredibile, il perdono e la comprensione! Allora, perché guardare al passato quando regnava soltanto conflitto e divisione? Cosi si creerà soltanto odio, si aumenteranno le divisioni del paese, si minaccerà la comprensione che si sta creando”. Così dicevano gli ex gruppi dominanti nel nostro paese per motivare il loro rifiuto radicale a gettare uno sguardo al passato.

Ma c’è stata anche un’altra reazione – chiamiamola di sinistra – di rabbia nei confronti di questa grande magnanimità di Mandela. Dicevano che i neri avevano sofferto per tante generazioni e i cambiamenti che si registravano non erano frutto di un favore che i bianchi facevano al neri. La comunità internazionale aveva definito l’apartheid un fenomeno criminale, come il nazismo e il fascismo. Quindi se l’apartheid era stato un crimine ci doveva essere qualche criminale che ne era responsabile. Ecco perché dovevamo creare dei tribunali, dovevamo trovare dei responsabili e metterli in galera.

Al momento della transizione si sono manifestate queste due posizioni estreme, ed entrambe le parti si riferivano a Mandela, utilizzandolo in maniera opposta. Da una parte si diceva: è stato troppo generoso e questo gli impedisce di procedere legalmente con dei tribunali. Dall’altra si diceva: è stato così generoso, dimentichiamo il passato. La discussione è stata lunga, accesa, ma da questo dibattito è nata la Commissione ed è stato definito il suo compito: non avremmo dimenticato il passato e nello stesso tempo non avremmo messo in atto persecuzioni. Ciò che volevamo costruire era un meccanismo che ci permettesse di capire ciò che era successo, ma senza innescare azioni di vendetta.

Base di partenza: i diritti dell’uomo. Nostro compito, trovare le vittime e farne un lungo elenco

Così abbiamo costituito la Commissione per la verità e la riconciliazione articolata in tre sottocomitati indipendenti ma che collaborano strettamente e sono uniti dal filo rosso dei diritti dell’uomo. Il sottocomitato di cui io faccio parte si occupa delle violazioni dei diritti dell’uomo: persone che sono state uccise durante conflitti politici, che sono state sottoposte a torture, i desaparecidos, persone che sono state sottoposte a gravi maltrattamenti come il confino in isolamento. Nostro compito è trovare queste vittime e farne un lungo elenco. Viaggiamo in lungo e in largo nel paese, in zone rurali e urbane; abbiamo degli incontri per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica; lavoriamo con le chiese, con i sindacati e con le organizzazioni politiche, con le Organizzazioni non governative, e, grazie a questa collaborazione, portiamo le vittime di violazioni dei diritti dell’uomo a scrivere una dichiarazione. Fra queste dichiarazioni selezioniamo quelle più importanti. Poi organizziamo incontri pubblici e le vittime parlano delle violazioni subite; e questo è un momento molto importante perché permette alle vittime di recuperare la propria dignità, perché nel vecchio Sudafrica non era mai stata offerta loro la possibilità di parlare pubblicamente delle loro sofferenze. Questo è molto importante, specialmente, per le famiglie che hanno perso una persona cara.

Parlo dei padri, delle madri, dei fratelli, delle sorelle, di tutti i cari che vengono e fanno una celebrazione della vita di questa persona morta combattendo per i diritti dell’uomo. Sono esperienze potenti, drammatiche, ma anche molto difficili perché le persone narrano storie di vero orrore, di vera sofferenza e sono persone comuni, spesso analfabeti, non sempre con delle convinzioni politiche, persone che a volte non hanno capito quello che faceva il figlio o la figlia. E’ un’esperienza drammatica quella di una madre che, dopo venti anni, ha la prima occasione di parlare in pubblico di suo figlio che è sparito nel nulla; oppure raccontare un’irruzione della polizia che ha cominciato a picchiare tutti violentemente e poi qualcuno è morto. Questi incontri vengono ripresi dalla tv e vengono trasmessi in diretta dalla radio, in tutte le lingue ufficiali parlate in Sudafrica – ne abbiamo 11 – e tutti i giornali li seguono e ne riferiscono.

Il sottocomitato per l’amnistia è quello che si occupa dei processi, per far sì che i colpevoli di certi reati non vadano impuniti. Questo sottocomitato ha il compito specifico di esaminare le richieste di amnistia per le gravi violazioni dei diritti dell’uomo indicati dalla legge costitutiva della Commissione: omicidio, tentato omicidio, tortura, rapimento e maltrattamenti gravi. I processi nel sottocomitato per l’amnistia, sono quasi giudiziari perché coloro che chiedono l’amnistia possono ottenerla solo se sono assolte tutte condizioni previste dalla legge. Queste condizioni sono molte, ma qui ricorderò solo le tre principali.

  1. La prima condizione riguarda l’arco temporale. L’amnistia può essere richiesta solo se il reato è stato commesso fra marzo 1960, quando l’African National Congress iniziò la lotta armata, come risposta alla strage di Soweto, e il 10 maggio 1994, quando Mandela fu eletto primo presidente di questa nuova Repubblica.
  2. La seconda condizione è che il reato – che si tratti di omicidio, di rapimento o di tortura – deve essere stato commesso con motivazioni politiche; non è valida la motivazione personale o per crimini comuni.
  3. La terza condizione – forse la più importante – è che ci deve essere una confessione piena e totale. Bisogna dichiarare tutto quello che si è fatto, assumersi responsabilità definite e precise. L’amnistia infatti è molto specifica ed è applicata per ogni atto. Non si può chiedere amnistia dicendo “ero nella polizia addetto alla sicurezza, chiedo l’amnistia per avere ammazzato delle persone oppure per avere torturato”. No, bisogna riferire in modo specifico di ogni persona uccisa, di ogni persona torturata e ogni azione viene giudicata in base agli stessi criteri. La stessa persona può ottenere l’amnistia per un’azione, ma non per un’altra. Le famiglie delle vittime o la vittima, se è ancora in vita, hanno il diritto di opporsi alla concessione dell’amnistia e hanno anche il diritto di essere rappresentate da un legale. Possono opporsi alla concessione dell’amnistia dicendo che non è stata detta tutta la verità oppure che non c’era nessuna motivazione politica per quel determinato crimine.

C’è un caso che ha avuto grande risonanza nell’opinione pubblica. È il caso di Chris Hani, leader del Partito comunista sudafricano, comandante dell’apparato militare sudafricano e membro chiave dell’esecutivo dei National Congress. Dopo Mandela era la  figura di maggior spicco nel nostro paese. Nel 1993 fu assassinato, e all’epoca furono catturate due persone: un immigrato polacco e un ex immigrato di passaporto britannico che vive in Sudafrica. Queste due persone dichiararono che questo assassinio era stato voluto dalla destra per impedire l’avvento del comunismo in Sudafrica. Ma gli avvocati e la moglie, che è adesso in Parlamento, sostengono che è impossibile che l’ordine venisse da un qualsiasi partito: pertanto, o queste persone non hanno detto tutta la verità e proteggono qualcuno, oppure hanno agito a livello individuale. Per questi motivi si oppongono alla concessione dell’amnistia e il processo è ancora in corso. Il nesso fra i due sottocomitati – quello dell’amnistia e quello della violazione dei diritti dell’uomo – consiste nel fatto che se una persona riesce a farsi concedere l’amnistia, le persone che sono state torturate o uccise automaticamente diventano delle vittime e a questo punto comincia il lavoro del terzo sottocomitato, quello addetto alla riparazione e alla riabilitazione.

Risarcire e riabilitare. Chi vuole un medico e chi una strada intitolato al figlio

Il compito specifico di quest’ultimo sottocomitato è di esaminare ciascuna vittima e di decidere le misure adeguate di risarcimento e riabilitazione. A volte si tratta di cure mediche, perché in quegli anni la gente aveva paura di andare all’ospedale, e così ci sono delle persone che hanno proiettili o schegge nella carne anche a dieci anni di distanza; altre hanno bisogno di cure mediche per le conseguenze di torture alle quali sono state sottoposte e per le quali non sono mai state curate. Uno dei metodi di tortura preferiti all’epoca lo stiamo scoprendo adesso, era la mutilazione dei genitali con pinze o strumenti elettrici: molte persone vengono da noi dichiarando di essere impotenti a causa della tortura. Per questo è importante essere esaminati dal medico anche a tanti anni di distanza. Poi ci sono persone che sono state costrette a interrompere gli studi e ora vogliono riprenderli. C’è chi chiede una tomba per i propri cari, perché le persone venivano sepolte senza lapide; oppure si chiede una nuova sepoltura perché le persone possono essere decedute in Angola, in Mozambico oppure perché la polizia addetta alla sicurezza aveva seppellito i cadaveri in un posto qualunque. A volte, in memoria di una persona, si vuole dare il nome a strade, a scuole ed è compito del governo decidere se dare seguito a queste richieste.

Naturalmente questo non è un compito facile perché le risorse sono limitate, c’è bisogno di denaro per l’edilizia pubblica, per l’acqua e per tante altre cose. Ecco perché sono fermamente convinto che uno dei test più importanti per la Commissione per la verità e la riconciliazione è vedere il governo dare una risposta al maggior numero possibile di queste richieste. Perché se il responsabile di un crimine riesce a ottenere l’amnistia  non vi saranno cause né penali né civili, quindi le vittime vengono private dei diritto di appellarsi in questi processi. Allora è importante sostituire questo diritto con qualcos’altro, diversamente le vittime avranno tutte le ragioni di essere amareggiate e di sentirsi tradite.

Ascoltare il nemico. Sì, ma anche scoprire i delitti di noi che abbiamo vinto

Io sto partecipando a un incontro dal titolo “Ascoltare il nemico”; ho riflettuto e, per essere onesto e franco, devo dire che non sono stati questi i termini in cui noi abbiamo visto la questione della nostra Commissione. Dato che la Commissione ha due aspetti, la verità e la riconciliazione, è difficile pensare in termini di “nemico”: pensiamo più alle vittime e ai responsabili del conflitto; credo che questo sia qualche cosa di unico, perché ci sono vittime fra gli ex nemici e ci sono anche responsabili di crimini tra gli ex appartenenti ai movimenti di liberazione. Quindi cosa significa adesso “ascoltare il nemico”?

La Commissione per la verità e per la riconciliazione ha deciso di concentrare l’attenzione nel forgiare una nuova cultura, quella dei diritti dell’uomo. Se si assume un orientamento di questo genere, non si è più in grado di scegliere tra le violazioni buone e le violazioni cattive dei diritti dell’uomo, perché in questo modo si distrugge la base di questa cultura. Non si può dire: poiché l’African National Congress si batteva per la liberazione, era giustissimo che l’Anc torturasse le persone in galere putrescenti. No, anche se l’Anc poteva dire che si trattava di spie dei vecchio ordine, l’Anc aveva la responsabilità di trattare i prigionieri in maniera degna. Quando Thabo Mbeki, che sarà il nostro prossimo presidente, e attualmente è il vicepresidente, ammette che l’Anc ha torturato, ha ucciso, allora chi devo “ascoltare”? Forse la situazione è un po’ peculiare, unica: un movimento di liberazione nazionale costretto ad ammettere responsabilità di questo genere. Quando ci sono degli adolescenti che vengono alla Commissione e raccontano che, essendo pienamente convinti che una certa persona era un nemico, che lavorava per il governo dell’apartheid, hanno preso un pneumatico e glielo hanno messo sul collo, gli hanno gettato la benzina addosso e hanno acceso un fiammifero, chi dobbiamo “ascoltare”? Dobbiamo “ascoltare” chi ha messo in atto il crimine o la vittima?

Credo che tutto questo ci abbia dato una nuova percezione della natura del conflitto. Forse un filo conduttore importante è considerare il fatto che ci sono vittime e rei da entrambe le parti dei conflitto. Però il conflitto è stato combattuto da una parte per i diritti dell’uomo e dall’altra parte per la negazione dei diritti dell’uomo, quindi è impossibile applicare gli stessi pesi e le stesse misure a quelli che combattendo per i diritti dell’uomo hanno violato loro stessi quei diritti e a quelli che imponevano con la forza un sistema che era basato sulla negazione dei diritti dell’uomo. Nel caso dell’apartheid le gravi violazioni dei diritti dell’uomo erano intrinseche al sistema, ne erano un elemento costitutivo. Per chi lottava contro l’apartheid invece i diritti dell’uomo, la democrazia, erano il fine, ma qualche volta c’era confusione tra mezzi e fine. Allora, sebbene si debba riconoscere quanto è avvenuto, non si può dire che è stata la stessa cosa.

Questa è la grossa lotta in questo momento in seno alla Commissione, perché i rappresentanti dell’ex governo l’apartheid vogliono vederlo solo come un conflitto politico, non come una lotta intorno al problema cardinale dei diritti dell’uomo. Fino a quando non riusciranno a percepire questa differenza, non sarà mai possibile ottenere un’assunzione di responsabilità, non ci potrà essere riconciliazione. Io ritengo dal più profondo del mio cuore che se non c’è un’accettazione piena e incondizionata del fatto che l’apartheid era un sistema razzista, senza tentare alcuna razionalizzazione di ciò che quel sistema comportava, non vi può essere riconciliazione; quello è il nostro nemico, il sistema dell’apartheid, e dobbiamo ascoltare e ascoltare di nuovo per cercare di capire e soltanto in questo modo procedere verso una nuova storia.

La forza per raccontare. Piangere può essere un punto di forza

Solo da poco abbiamo cominciato a prendere coscienza dell’impatto traumatico che il conflitto ha avuto sulle persone. Al tempo della lotta, tutti pensavamo che dovevamo essere forti: nessuno ha mai pensato che fosse necessario parlare di quello che era successo loro. Poco fa, per la prima volta, uno dei membri del nostro gabinetto, Mac Marage, ha parlato pubblicamente delle torture alle quali fu sottoposto. È successo che un generale, oramai in pensione, a domanda aveva risposto di non essere mai stato coinvolto direttamente o indirettamente nelle torture. Mac Marage era presente, si è alzato, gli ha chiesto di ricordare il tempo in cui era un luogotenente: “Fosti tu a torturarmi, mi facesti questo e quest’altro, quindi adesso non osare negarlo”.

Agli esordi di questa Commissione non erano gli attivisti che venivano alla Commissione, erano le famiglie, le madri, le mogli. Questi familiari venivano alla Commissione e scoppiavano a piangere; davanti ai nostri occhi si dispiegava la tragedia dell’uomo e questo, un po’ per volta, ha eroso la necessità di essere forti che spingeva i militanti a pensare che “loro” non potevano andare davanti alla Commissione. Esisteva un conflitto interiore, ma piangere, a volte, può essere un punto di forza e credo che stiamo cominciando a capirlo. Le conseguenze di tutto ciò forse in futuro potranno essere studiate in modo più approfondito, ma non era qualcosa che potevamo prevedere quando abbiamo creato la Commissione.

Le diversità delle memorie. I torturatori ricordano il bene, i torturati ricordano tutto

Adesso voglio raccontarvi una storia che mi ha toccato personalmente. Nella parte occidentale di Città del Capo c’era un gruppo di giovani attivisti, un’ala clandestina del movimento militare dell’African National Congress. Li conoscevo perché avevo appena finito l’università e avevo cominciato a insegnare. A causa della loro attività due sono stati uccisi, pensiamo giustiziati. La polizia ha sostenuto che si trattava di autodifesa; ma altri quattro sono stati sottoposti a gravi torture. Alcuni mesi fa il torturatore, uno che si chiama Benzin, ha chiesto l’amnistia. Ogni attivista all’epoca sapeva che la persona da evitare era proprio questo Benzin. Era noto per il suo metodo di tortura infame: prendeva un sacco nero di tela, lo bagnava, vi faceva sdraiare supini, legava le mani, legava le gambe, saliva sulla schiena, metteva il sacco di tela nera sulla testa e lo chiudeva con una corda; era così esperto che sapeva con esattezza il momento in cui la persona cominciava a perdere i sensi, stava per morire. Allora levava il cappuccio; poi continuava il trattamento fino a quando la persona rispondeva alle domande. Diceva che non gli servivano più di trenta minuti per ottenere le risposte che voleva. Ora davanti al pubblico stava Benzin e di fronte c’erano quelli che aveva torturato; e lui chiedeva l’amnistia. Il fatto strano è che le quattro persone che stavano di fronte a lui non si opponevano alla richiesta, ma dicevano: “Non dici tutta la verità”. Benzin, stranamente, non era in grado di ricordare tutto quello che aveva fatto; ha dovuto fare una dimostrazione pubblica del suo metodo di tortura: ma la cosa che lui ricordava erano solo i gesti di umanità nel confronti delle sue vittime. “Ma non ti ricordi che ti ho tirato fuori di’ prigione e ti ho comperato il pollo?  E tu mi hai detto: quanto mi è piaciuto il pollo!”. “Sì”, diceva l’altro, “me lo ricordo, ma è stato dopo che mi hai quasi ammazzato”. La cosa più importante per Benzin era riconquistare una fetta della sua umanità, ricordando soltanto i momenti umani del suo comportamento; le barbarie, quelle non se le ricordava o diceva che non era in grado di ricordarle. Ma i torturati ricordavano tutto, fino all’ultimo dettaglio.

Dopo la sessione ho parlato con alcuni di questi attivisti che adesso fanno politica e mi hanno detto che anche per loro era la prima volta che ne parlavano. Non l’avevano fatto mai ne’ con la moglie, ne’ con la fidanzata, ne’ con l’amico più intimo. Uno di questi, Gary Cooder, che adesso – ironia della sorte – è a capo del servizio segreto militare, quando si è trovato a confronto di Benzin ed è stato interrogato, è crollato e ha cominciato a piangere davanti al pubblico.

La suprema ingenuità. Libertà in cambio di verità

Quando abbiamo cominciato a prendere in considerazione i primi reati di violazione dei diritti dell’uomo, una delle richieste che veniva continuamente presentata dalle vittime era sapere cosa era successo all’amato, chi l’aveva perpetrato e perché. Si dichiaravano pronti a perdonare, ma dovevano sapere cos’era successo, perché perdonare e chi perdonare. Adesso, man mano che emergono sempre più nomi e più fatti, le vittime cominciano a sapere chi, cosa e perché. E non sono più sicure di voler perdonare. Questo è umano, perché a volte le azioni sono state così barbariche, così violente. Persone che sono state ridotte in cenere, avvelenate, persone gettate in fosse comuni. La polizia di sicurezza, per combattere la cosiddetta guerra di guerriglia, intercettava le persone che dalla campagna andavano in città: o le convincevano a lavorare per loro, a diventare “ascari”, oppure le eliminavano. In entrambi i casi non si sapeva cosa fosse successo a queste persone. Per anni e anni c’è stato un velo di mistero. A volte i familiari accusavano l’Anc, perché dicevano: “Mio figlio è venuto a fare parte delle tue file, tu devi sapere dove è andato finire”. Quindi immaginate il loro shock quando scoprivano che i loro figli, partiti da casa per combattere per l’Anc, erano diventati “ascari”, ammazzavano, quelli dell’Anc, o venivano uccisi dall’Anc in quanto “ascari”.

Senza che noi lo avessimo preventivato o programmato, le vittime si vedono assegnare un ruolo preminente nella Commissione. Ecco che cosa è così forte, potente, nella Commissione a tutti i suoi livelli, sia che si tratti del sottocomitato sui diritti dell’uomo dove si parla con la propria voce, oppure dei sottocomitato per l’amnistia in cui i rei si devono confrontare con le vittime. Ed è così diverso da un processo in tribunale. Perché in un processo comune, in tribunale, l’accusato ha sempre la tendenza a proteggersi, a dire bugie, a negare. Ma nel processo per l’amnistia, è proprio dire la verità che evita la condanna, perché se non si dice la verità, se non si dice tutto, non c’è amnistia. È un fenomeno molto interessante perché le vittime e le famiglie delle vittime a volte si vedono assegnare un posto più importante di quello dell’avvocato nello stabilire la verità, soprattutto se si tratta di sopravvissuti. Ecco perché viene sempre sottolineata l’importanza della presenza delle vittime: questo è un diritto fondamentale perché la riconciliazione non è solamente un processo storico ma è anche il modo in cui la società tratta le vittime dei diritti umani. E abbiamo notato che anche se i familiari della vittima si oppongono alla concessione dell’amnistia non rinunciano mai a essere presenti; anche se sanno che l’amnistia potrà essere concessa anche contro il loro parere ritengono che, sia importante presentare il loro punto di vista,

La riconciliazione non è un processo facile. Perché è un processo che non si propone solo di sapere chi è la vittima e chi è il carnefice; il nostro compito è cercare di capire in tutte le sue sfaccettature e in tutta la sua complessità quello che è successo. Credo che questo sia un problema che non riguarda solo l’oggi, ma il futuro. È una cosa che abbiamo ribadito più volte nell’ambito della Commissione: che esiste non solo per indagare il passato, ma per ricostruire il futuro.

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* Fonte: Diario della settimana, anno III, n.10, 11/17 marzo 1998, Presente Passato.
Letizia Magnani è nata a Cervia, in riva al mare. È giornalista professionista e ama l’Africa. Di ritorno dal Sudafrica, dove ha avuto la fortuna di vivere il lungo addio senza lacrime a quel gigante di umanità che è Nelson Mandela, ha deciso di lasciare in parte i suoi impegni come consulente di comunicazione (fra le altre cose è a capo dell’ufficio stampa delle Giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù) e di dedicarsi solo alla ricerca di storie da raccontare. Per il resto ha una laurea in scienze della comunicazione (con lode!) all’Università di Siena e un master in giornalismo investigativo in Urbino. Ha pubblicato diversi volumi di ricerca, il primo sul giornalismo di guerra, C’era una volta la guerra…e chi la raccontava. Da Iraq a Iraq: storia di un giornalismo difficile (Roma 2008); il secondo sulla storia dei 100 anni di Milano Marittima: Milano al Mare. Milano Marittima: 100 anni e il racconto di un sogno (Ravenna 2011). Sono di prossima pubblicazione Ustica e i giornali (ricerca condotta per l’Associazione parenti delle vittime e l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna” e La battaglia delle idee è la forma di democrazia. Vita e storia politica di Ariella Farneti (1921 – 2006) (Forlì, 2013).