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La scrittrice, psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi (Roma, 5 agosto 1947).

Sull’accendino celeste che Arianna ha comprato ad Amatrice, nel mese di luglio 2016, prima del terremoto del 24 agosto, sta scritto in inglese: “Ogni estate ha la sua storia”. E l’estate agostana di questo suo prezioso momento di vita, mentre è, con i suoi amici e Andrea, il suo fidanzatino, in vacanza nei luoghi cari, carissimi della sua infanzia (luoghi nei quali, da bambina, si è sentita viziata, amata, coccolata “come una principessa”) viene per sempre segnata dalla violenza di un sisma al quale gli uomini non hanno saputo opporre, nel tempo, la cura sistematica e lungimirante della prevenzione. E la testimonianza di Arianna, poi, fa da “apripista” alla lodevole idea del cronista Salvatore Giannella di rendere proprio dei ragazzi giovanissimi come Arianna (che sono stati coinvolti testimoni del terremoto e delle sue rovine) cronisti quotidiani del post-terremoto e della ricostruzione, anche in seguito e con i loro scritti. Infatti il diario di Arianna che racconta i giorni di vacanza spensierati a luglio e, poi, invece, la notte del sisma ad Amatrice, introduce anche al pensiero e alle testimonianze dei suoi coetanei. Per lei, intanto, il terremoto che ha distrutto Amatrice è un evento talmente traumatico che le macerie intorno a lei, dopo la notte del 24 agosto, sono le stesse che Arianna porta nel cuore. “Mi hanno levato”, scrive, “una parte di cuore. Sono una miracolata eppure non mi sento viva”. E per recuperare la memoria, i ricordi, “il colore del grano” (per dirla con Saint Exupery) così come Arianna ha recuperato, tra le macerie, l’orso di peluche che le hanno regalato a tre anni, dopo un’operazione, e per tornare a vivere, non resta, ad Arianna come a tutti gli altri (bambini, giovani, anziani) che recuperare, anche tracciando, ovvero scrivendo, disegnando, fotografando, quel che il terremoto ha portato via. L’azione creativa dopo quella distruttiva. (Maria Rita Parsi)

DAL DIARIO DI ARIANNA

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I resti della casa di Arianna Ambrogi, la diciottenne romana sopravvissuta al sisma.

Luglio 2016. È appena finita la settimana di vacanze che i miei amici mi hanno regalato per il mio compleanno a Mirabilandia e all’Aquafan di Riccione. Tra poco raggiungerò mia sorella e mia nonna al mio paese, Collalto. È una frazione di Amatrice, e in realtà alcuni non lo definirebbero paese perché è una piazza con una fontana, un albero e alcune case intorno. Per me in realtà è il paese con la P maiuscola, perché ci ho passato le migliori estati della mia vita. Quando frequentavo le elementari tutti mi chiedevano cos’è Collalto?, perché vai in montagna e non al mare?, ma ci sono i bar?, è difficile immaginare di divertirsi un po’ isolati dal mondo, eppure è sempre stato così. E infatti eccomi qua, pronta ad affrontare l’ennesimo viaggio verso il mio paesello con mia madre ma questa volta guido io!

Che aria che si respira quassù! Altro che Roma, niente rumori di macchine, niente smog, niente caos. Amo l’atmosfera che c’è in montagna, e ci sono tutti i miei amici di sempre. Angelo e Sharon, i miei amici gemelli che vivono su, sono nati solo un mese prima di me, le nostre mamme hanno saputo della loro gravidanza quasi contemporaneamente, e ne parlavano sempre, quindi forse eravamo già amici a quei tempi. Oggi arriva anche Andri da Roma, un altro amico che conosciamo da quando siamo bambini. Giusto il tempo dei saluti a tutti i miei zii e amici, che l’aria di paese ha preso il sopravvento su noi “cittadini”: un tavolo, quattro sedie e una partita a burraco! Giocare a carte è un “lusso” che mi riservo al paese.

La routine dell’estate al paese ricomincia, le abitudini sono dure a morire: la mattina seguente all’arrivo, pullman e colazione ad Amatrice! “Alle 9 in piazza, buonanotte!”. Andiamo al solito bar, a prendere quei cornetti che mi piacciono tanto, fumare una sigaretta, comprare il Corriere dello sport e passeggiata tra quelle piccole vie. La sera andiamo a giocare a carte a casa di zia Rita, perché quest’anno si è rotta una gamba ma fortunatamente è potuta salire, poi di nuovo a letto. Dormire qui è bellissimo, è tutto silenzioso e ci si riposa davvero. Le giornate procedono all’insegna di chiacchierate, passeggiate e carte. Sharon mi ha presentato il suo fidanzato, che è automunito e verrà a trovarci; avendo la possibilità di muoverci autonomamente quest’anno possiamo andare a mangiare una pizza da soli. Così si va a bordo di una Panda a fare un aperitivo e poi a mangiare fuori. La serata passa veloce tra una birra e un gelato sul corso all’ombra della torre di Amatrice, e facciamo rientro in paese. In memoria dei vecchi tempi accendiamo un fuoco vicino la strada per scaldarci, guardare le stelle e poi andare a dormire.

Agosto 2016

Le giornate sembrano tutte uguali, ma in realtà noi inventiamo sempre qualcosa di diverso da fare. Quest’anno ho invitato il mio ragazzo a stare da me quasi un mese, perché mi piace condividere le mie amicizie e il mio affetto per questo posto con gli altri. Il 5 agosto Andrea viene su con il pullman, e le giornate si vivacizzano, perché lui, Andri e Angelo sono sempre in giro a fare danni, o vanno in esplorazione alla ricerca di insetti strani. Anche con l’arrivo di Andrea si ripete il rito della colazione ad Amatrice, alle 9 in piazza. Piano piano, il paese si ripopola e i volti familiari di tutti gli anni tornano a occupare le case e le strade. Durante la settimana io e Andrea siamo andati ad Amatrice con il pullman da soli, a fare la spesa, la colazione. Già che ci siamo, prendiamo anche quei ravioli buonissimi che fanno sul corso. Facendo una passeggiata ci accorgiamo che sulla via dell’Hotel Roma hanno aperto un nuovo giardinetto con vista mozzafiato sulle montagne. Dovremmo tornarci, ci diciamo, magari con gli altri. Poi di nuovo a casa.

Ci giunge notizia da Roma che quest’anno anche i nostri amici Barbara con il fratello William possano venire su. Quando siamo tutti, c’è un’aria elettrizzante tra di noi, perché c’è quell’intesa particolare di chi ha vissuto tanti bei momenti insieme, ed è così forte da inondare anche Andrea che è il novellino del gruppo. La notte di San Lorenzo è un’altra scusa per guardare il cielo, accendere un fuoco e fare tardi. Certo, quando guardo il cielo rifletto su molte cose, una di queste è che essendo già metà agosto tra poco inizierà di nuovo la scuola. Ma sì, non ci pensiamo, deve passare ancora Ferragosto, la festa del paese e la sagra degli spaghetti all’Amatriciana. Per quest’ultimo evento verranno a stare da me Marco per una settimana, Claudia e Alessandro per l’ultimo week-end, tutti i miei amici di Roma.
A Ferragosto siamo invitati a pranzo dai miei zii e passiamo una bella giornata mangiando tutte le cose fatte in casa, tipiche dei paesi. Il pomeriggio Katia ci invita a mangiare, con tutti loro e zia Rita, le bombette di patate fatte da lei che sono buonissime. Il giorno dopo sono arrivati anche Barbara e William, e abbiamo fatto subito una cena fuori. Andrea ha la patente ma non la macchina, quindi abbiamo dovuto chiederla a mia zia, e contro ogni previsione… ce l’ha prestata! Il primo anno che non dobbiamo dipendere dai genitori, si prospettano begli anni!

A cena ricordiamo tutte le estati passate, c’è un po’ di nostalgia ma tante risate. La sera andiamo a San Tomasso, il paese sotto al nostro dove ci sono degli altri ragazzi, per fare qualcosa di diverso, anche se poi finiamo a discutere tra di noi. L’aria del paese è movimentata dai preparativi per la festa del paese, io e i ragazzi osserviamo come deve essere organizzarla perché prima o poi questo compito toccherà a noi e infatti ci ritroviamo a dover mettere in piedi un programma e dei giochi con gli organizzatori ufficiali. Non è facile come sembra creare una caccia al tesoro per i bimbi, ma ce la caviamo.

Si comincia il giovedì con il torneo di burraco che faccio tutti gli anni con Sharon, come al solito, con la nostra solita fortuna – sarà perché siete innamorate, dicono – non vinciamo nulla. Tuttavia sono felice perché quest’anno c’è anche Andrea con me, e non vedevo l’ora di portare qualcuno con me alla festa del paese che amo. Il venerdì la mattina io e Sharon abbiamo fatto la caccia al tesoro con i bambini, e nel pomeriggio c’è il torneo di briscola, che io non seguo perché sono impegnata a fare il dolce per la gara della sera stessa. Purtroppo non vinco neanche quella… Il sabato mattina sono arrivati Gianluca, il compagno di mia madre con il figlio Alessandro, così siamo davvero tutti al completo, e il mio stato d’animo prende il volo. In tarda mattina facciamo un salto ad Amatrice e compro un accendino celeste con scritto in inglese “Ogni estate ha la sua storia”. Nel programma della festa per sabato pomeriggio c’è la “staffetta in discesa”, nessuno di noi ragazzi ha vinto niente… La sera c’è la cena tutti insieme, quella dei primi in piazza, dove ogni famiglia porta un primo, e si sta tutti insieme nella piazzola di Collalto a mangiare e bere. C’è tanto movimento: i signori più anziani ballano più agilmente di come avremmo fatto noi.

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Arianna Ambrogi, la studentessa romana sopravvissuta.

La pentolaccia

La domenica è il giorno più importante, quello della festa ufficiale. Abbiamo giocato alla pentolaccia ed è uscito il peggio di noi, bendati e con il bastone in mano tentando di prendere le maledette tazzine che ci sfuggivano. Tra i suggerimenti urlati come al mercato del pesce come “più a destra!”, “bravo a sinistra… mena! Mena!”, abbiamo fatto cadere i cocci. Abbiamo addobbato la piazza con rose di carta velina che ha fatto Ezio, il papà di Angelo e Sharon, addobbi di ogni colore, bandierine e tracciato il sentiero della processione con le candele. Nel frattempo è arrivato Marco, giusto in tempo per la serata, che bello rivederlo!

Tutto è pronto per la processione e ci dirigiamo in chiesa… Questo per me è un momento importante, perché racchiude tanti ricordi e tante speranze. La festa del mio piccolo ma bellissimo paese mi ricorda i giorni felici in cui c’era mio nonno, costruttore della mia casetta e come un padre per me…Mi commuovo sempre quando vedo la Madonna uscire dalla chiesa e passare per le strade di questo paese sperduto, qui c’è tutta la mia infanzia, i miei ricordi più belli e mi ritengo fortunata ad avere una seconda grande famiglia e una casa, anche se piccola, in una parte di Italia meravigliosa; meravigliosa forse proprio perché è piccola e solo nostra. Nessuno la può toccare o rovinare.

La parte clou della serata sono la tombola e la lotteria. E come al solito non vinco nemmeno a tombola, qualche speranza rimane sulla lotteria, dove ho visto una sdraio sulla quale leggerei volentieri un libro prima di appisolarmi al sole in mezzo alla piazza. Caso strano la vinco io! Tra lo stupore e la felicità, andiamo tutti come sempre nel giardino di Barbara a vedere i fuochi d’artificio. La serata va concludendosi, ma noi non andiamo a letto prima delle tre perché Willy domani parte e non possiamo andare a letto presto! Così ci riversiamo in piazza a fare giochi cretini; a noi, a diciotto e venti anni, piace tornare bimbi per queste poche sere d’estate.
Il giorno dopo c’è la solita malinconia per la festa passata, d’altronde è l’evento che attendo durante l’anno, insieme alla sagra. Ma l’allegria non è svanita, a pranzo rimaniamo a tavola fino a tardi per le risate che ci contagiano. La sera chiediamo il Pandino in prestito ad Ezio per andare a mangiare fuori, con Marco e gli altri. Proviamo una nuova piadineria sul corso, e poi il solito gelato sotto la torre, maestosa, che indica a tutti che lì c’è la bellissima Amatrice. È il mio gelato preferito, più buono di qualsiasi altra gelateria che ho a Roma. Al rientro andiamo nella mia cantina a fare una partita a uomo nero, chi perde cucina la cioccolata calda per tutti comprata poco prima ad Amatrice. In un batter d’occhio mi ritrovo ai fornelli a girare il pentolone di cioccolata calda; nonostante la seccatura di dover cucinare il risultato è ottimo.

23 agosto 2016

La mattinata inizia tranquilla, Marco si è svegliato presto per accompagnare Barbara e Andri ad Amatrice a comprare la frittura di pesce, mentre io e Andrea ci siamo svegliati tardi. Parlando proponiamo di andare a mangiare fuori di nuovo venerdì sera a quel ristorante buonissimo, con Claudia ed Alessandro così che anche Marco lo provi. Io leggo un po’ il libro che mi sta appassionando sulla panchina di fronte casa mia, anche quella costruita a mano da mio nonno. Il vento è forte, ma al sole si sta bene. Facciamo il caffè per tutti, e poi la solita partita a burraco accompagnata da una sigaretta a casa di zia Rita. La sera siamo impegnati ad andare a cena fuori con zio Luigi, perché c’è la Roma che gioca contro il Porto. A me non interessa molto della partita perché io sono della Lazio, ma vado comunque per stare con i miei amici. Anche mia madre e la mia famiglia vanno a cena fuori con zia Marisa, ma mentre noi andiamo a Sommati loro vanno ad Amatrice nello stesso ristorante in cui andremo noi venerdì. La cena è buonissima, la pizza si fa attendere un pochino ma ne è valsa la pena. Tutto ciò per me è condito dalle brutte facce e dalle imprecazioni sussurrate dai miei commensali mano a mano che la Roma prende un gol. Alla fine ringraziamo zio Luigi per la bellissima serata e gli auguriamo una buonanotte. Noi ovviamente di dormire non se ne parla. Di nuovo in cantina a giocare a uomo nero -questa volta ha perso Andrea- o scopa. Fino a che a un certo punto Andrea non se la prende un po’ per aver perso a carte allora cominciamo a discutere, poi io decido di andare a dormire e di lasciare loro in cantina. Su tutte le furie raggiungo casa. Ci metto un po’ in realtà perché da quando è arrivato Marco non dormiamo più a casa mia perché non ci entriamo, così un amico di mamma ci ha prestato la sua, che è sempre in piazza solo dal lato opposto alla mia. Arrivata a letto mi metto a leggere il mio amatissimo libro, alle due di mattina viene Andrea da me a chiedermi scusa per il piccolo litigio. Chiariamo tutto subito, ma io gli dico “in realtà ho paura a dormire qui da sola, venite a letto? Sento dei rumori strani, il vento che soffia, tutto scricchiola, ho sentito un botto del quale non conosco l’origine. Tornate a casa per favore?”, lui mi accontenta e va a chiamare Marco. Al loro ritorno c’è anche Barbara che non è voluta tornare a casa perché aveva paura, ma purtroppo da noi non c’era spazio e un po’ adirata ho detto che non potevo ospitarla perché non potevo prendere decisioni in una casa non mia. Arrivati a letto, Marco pensa di aver sbagliato a invitarla senza dirmi niente, così bussa alla porta della camera mia e di Andrea e ci chiede se l’indomani mattina volevamo fare colazione ad Amatrice solo noi tre, come facciamo di solito a Roma. Una colazione riconciliante…

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Amatrice. Corso Umberto I, prima del terremoto.

24 agosto 2016

Dopo la proposta di Marco si sono fatte le due e mezza e io e Andrea ancora non riusciamo a dormire. Poi di colpo mi trovo a urlare, un urlo agghiacciante di paura, apro gli occhi e vedo il mio letto che si muove. Gridando sveglio Andrea, ci abbracciamo, immobili, incapaci di reagire. Finita la scossa, provo ad accendere l’abat-jour, ma la luce è saltata. Chiamo mia madre che urlando e piangendo mi dice: “Torniamo a Roma”. Con la torcia del telefono illumino il nostro letto, accanto al comodino ci sono dei sassi e pezzi di intonaco. Cominciamo a chiamare Marco che non risponde, ci precipitiamo nell’altra stanza. È immobile, fissa il soffitto, sopra di lui una crepa enorme a forma di X. “Corri Marco, vestiti, andiamo via!”. Mi vesto, prendo le due felpe che avevo in quella casa, butto le cose nel borsone di Andrea e scendiamo giù. Andiamo alla porta, ma non riesco ad aprirla. Va bene io non avevo forza, mi era già successo. Ma né Andrea né Marco riescono ad aprirla.

Da fuori arriva la voce impastata di lacrime di Luca che mi chiama “Arianna! Ragazzi sto arrivando!”. Solo il suo tono di voce mi fa capire che la situazione è gravissima. Lui e Damiano, un ragazzo del paese, provano a sfondare la porta. Ma la porta continua a non aprirsi né a spallate né con i tronchi di legno. Damiano dice: “Niente, la porta non si apre!”. Momento di panico, di rassegnazione. Mentre la casa trema e scricchiola ancora. Andrea urla di raggiungere la finestra di sopra perché quelle al piano terra hanno le inferriate. Corriamo di sopra, buttiamo di sotto il borsone e la mia borsetta con portafoglio e le due felpe, il mio orso di peluche e siamo pronti a saltare. Andrea impaurito salta senza pensarci, io mi appendo al cornicione della finestra tentando di cadere sui pioli della scaletta che hanno messo in basso, che arriva a circa metà muro. Il mio ginocchio struscia sul muro e poi a terra, ma io sono intera. Tocca a Marco saltare ma lui soffre di vertigini, in quel momento mi si è bloccato il cuore dalla paura che rimanesse là appeso. Ma fortunatamente anche lui si getta sui pioli della scala, e siamo salvi.
Nella mia mente adesso arrivano le domande Dov’è mamma? Nonna? Ale? Tutta la piazza?, avverto un brivido di paura e giriamo l’angolo della casa per arrivare in piazza. È buio, ma i lampioni rimasti accesi aprono la vista su una tragedia. La casa accanto quella di zia Rita è crollata sul suo soggiorno, la mia è piena di crepe. Altre case sono crollate nella piazza, e la macchina di mia madre e quella di Luca è coperta dalle macerie, inutilizzabili. Mi guardo intorno, mia madre c’è, anche mia sorella e Alessandro. Ma nonna? Ok, sta piangendo dietro la macchina ma c’è. Tutti gli altri ci sono, Angelo e Sharon, Andri in mutande, Barbara e i nonni con il cane… Ma zia Rita è dentro casa, perché è sulla sedia a rotelle, e sulle scale di casa sua ci sono le macerie della casa accanto che è venuta giù. La vedo, è sotto la trave della porta principale, immobile sulla sedia.

Tutti gridiamo, tutti piangiamo, è terribile. Ezio e Luca vanno sulle scale a cercare di portarla fuori, ma mentre sono sulle macerie c’è un’altra scossa. Sono quasi le 4, e saltano giù di nuovo. Finita la scossa tirano fuori una lastra di ferro dalle macerie, e la mettono sopra tutti i sassi per farci sdraiare zia e farla venire giù così. Fortunatamente si recupera anche la sedia a rotelle, e ora ci siamo tutti. Siamo tutti in piazza, chi nudo, chi vestito, chi piangente, chi ammutolito. Ci guardiamo intorno, non esiste più nulla. Chiedo notizie di come abbiano fatto gli altri a salvarsi, Angelo era bloccato da un armadio, la porta della mia famiglia si è aperta solo grazie al cugino di mia madre che l’ha sfondata dall’esterno. È uno strazio. Fa freddo ed è buio, dobbiamo girare con le torce dei telefoni perché non funzionano nemmeno più i lampioni. Chi ha rimediato delle felpe o dei calzini li dà a chi non ne ha, come ad Andri che è uscito fuori in mutande e con una copertina. Cominciano le telefonate indirizzate agli amici e ai parenti, alcuni rispondono altri no. Sopravvivi alla scossa, e non sai se sopravvivrai alle notizie che arrivano. Il tempo non migliora, anzi il freddo viene incrementato da raffiche di vento, e aspettiamo il giorno, con la paura di vedere realmente quello che non c’è più intorno a noi, abbandonando a poco a poco la speranza che sia solo un incubo.

Le telefonate continuano, e più passa il tempo più arrivano notizie di amici rimasti intrappolati sotto le macerie. In un momento di follia decido di dover prendere le medicine a mia nonna, rimaste nel salone al pian terreno. Mi faccio coraggio ed entro. La visione è a dir poco mostruosa, la cucina non esiste più, e in salone sono cadute tutte le nostre foto di quando eravamo bambine. Il soffitto ha delle crepe allucinanti e per un secondo rimango lì immobile a vedere tutti i miei ricordi crollare nel vuoto. Per un secondo mi sfiora l’idea di rimanere lì, come a dire alla Terra: “Questa è casa mia, non me la leverai tanto facilmente”. Mi riprendo e sfilo tutto il cassetto con le medicine ed esco. Siamo vivi per miracolo eppure la mia vita si è fermata, è come in stand-by e non so quando riprenderà. Il caos che c’è tra di noi aumenta, piangiamo tutti, sono tutti spaventati. Sono cadute tutte le maschere, tutte le discussioni e le male parole non esistono più. Ora siamo solo una grande famiglia, senza più una casa, o una macchina, o peggio un amico o un parente. L’umanità di ognuno di noi prende il sopravvento pronti a donare anziché ricevere.

Nella tragedia, colgo il piccolo lato “bello”, dell’unione che c’è tra tutte queste persone, ignorando i difetti, abbandonando la forza che fingiamo di avere, e finalmente ogni animo è messo a nudo in ogni suo briciolo di insicurezza e terrore. Marco non parla più, Angelo attende invano che qualche suo amico risponda a una chiamata, ma da Amatrice nessun segnale di nessuno. Chi come Andrea è stato calmo prima, ora è nel panico perché l’atmosfera invece di migliorare peggiora mentre la terra trema ininterrottamente con alcuni intervalli tra una scossa e l’altra. Si racimolano le sedie della festa rimaste in piazza e qualche sdraio dai giardini, per cercare di rimanere calmi ma invano. Le telefonate aumentano e mentre racconti di essere vivo per miracolo, rivivendo la nottata milioni di volte a tutti coloro che chiedono come avete fatto?, inizi piano piano a realizzare quello che è stato. Quello che hai perso. Il tono della voce con il quale mi chiamava Luca e pronunciava il mio nome mi fa gelare il sangue. Sento gli adulti parlare, ma qui non ci si tornerà più, è un paese fantasma, ormai è finito. Ricomincio a singhiozzare. Prego chiunque mi abbia protetto di non far finire tutto qui. Non può essere possibile. Nel frattempo siamo in contatto con il mondo per miracolo, ma non capiamo più nulla, le notizie arrivano in poche parole “Amatrice è rasa al suolo”, “Da Amatrice vengono più morti che vivi”. Si può andare via? Sì, no, non si sa. Andate via, rimanete, no andate voi che potete. Tra tutte le chiamate, il freddo, il panico, case che continuano a cadere, prendiamo la macchina di Marco perché mamma dice che se non portiamo via nonna potrebbe non reggere eventuali scosse più forti per il cuore. Così salutando tutti tristemente ce ne andiamo io, Marco, Andrea e la mia nonnina. Non sono sicura questa sia la scelta giusta, lasciare su mia madre e Luca con mia sorella e Alessandro, e i miei amici. Soprattutto Angelo e Sharon che vivono su, mi sento male all’idea di abbandonarli, ma “devi farlo” così dicono.

Il viaggio è una tortura, guardo le strade che percorrevo al contrario con tanta gioia e voglia di andare via dalla città, chiamo mia madre ogni due minuti presa dall’ansia. Già mi mancano, e con loro mi manca anche l’aria. Piango ininterrottamente, pensando a casa mia, a mio nonno, alle giornate che passavo su con lui quando ero piccola. Quando andavo fuori per la prima volta, mi costruiva l’altalena, poi mi portava a mangiare il gelato a Villa, una frazione vicina, e la pizza ad Amatrice. È l’unico posto in cui io mi sia mai sentita una vera principessa, viziata e coccolata. Questa sensazione è diminuita nel tempo con la perdita di nonno, ma quel paesino per me era come un piccolo regno, dove esistevamo solo noi. Ora non c’è più, non ci saranno più feste, né balli. Né fuochi in mezzo alla strada guardando le stelle, né colazione ad Amatrice, né la pace mista litigate paesane. Mi hanno levato una parte di cuore, sono una miracolata eppure non mi sento viva. Penso a mia madre, a come l’ho vista, la gioia nel vedere che stavamo bene e mi sento venire meno a pensare che lei è ancora lì, e che io sono lontana dalle sue braccia perché sto scappando, lasciando nell’incertezza del futuro tutto quanto, e la persona più importante della mia vita.

Impieghiamo quattro ore ad arrivare a Roma, un tempo straziante e interminabile. Roma, la mia città, che porto nel cuore, non mi sembra più così bella. Perché l’altra metà di me è rimasta intrappolata dentro casa e sotto le macerie di Amatrice. La città che nessuno aveva presente ma che io andavo vantandomi di andarci tutti gli anni, appena potevo. Gli altri della piazza tornano a Roma con le persone che sono potuti andare a prenderli, nella tarda serata anche mia madre rientra. Continuiamo a ripeterci che siamo fortunati, che abbiamo la vita, e non smetterò mai di ringraziare per questo. Ma una parte minuscola ed egoista di me pensa a tutto ciò che ho lasciato sotto le macerie, come le fotografie, i libri di scuola, i miei vestiti -non ho più mutande-, le scarpe e tutto quello che ci portavamo dietro perché stavamo su almeno un mese.

Nel frattempo i miei amici dovranno passare la notte in macchina perché non sono fortunati come me ad avere un tetto a Roma. Questo mi fa stare male, io dovrei essere al freddo e in una macchina con loro. Vado a prendere un caffè al bar sotto casa mia con Andrea, mentre tutti mi chiedono come stai? sotto di me la terra continua a tremare, anche se so che non è il terremoto, sono io che continuo a riviverlo. E continuo a tremare convinta che sia la terra, ininterrottamente e forte. Comincio ad assumere le sembianze di uno zombie, e lo sento a pelle anche se non mi vedo. Gli occhi gonfi, le lacrime scendono da sole, e la paura dipinta nel volto di chi sente ancora tremare la terra. La barista fa urtare due bicchieri, io sobbalzo, impaurita, rivivendo i rumori dei vetri che si frantumano, di un mondo che mi crolla addosso. Vedo le prime immagini al telegiornale e mi sento venir meno. Ieri ero lì, tra quelle vie, a camminare spensierata mangiando gelato e discutendo, ora che ci penso, di frivolezze con i miei amici. Tutti i discorsi non servono più a nulla, quindici secondi e la terra ha distrutto tutto ciò che credevamo fosse nostro per sempre. La casa dei sogni della pensione di mia madre e mia zia, la mia casa dei sogni. Quella per la quale avevo tanti progetti come una piscina, ingrandirla per invitare tutti i miei amici, ristrutturarla per levare le piccole imperfezioni, come il parquet rigato, che ora mi mancano una a una. Vedo le fatiche e i sacrifici fatti da mio nonno volare via. Continuo a chiamare i ragazzi da qui, mi dicono che sono arrivati dei soccorsi che dovranno accamparsi nel prato con le macchine fino a che non gli verranno consegnate le tende. Tutte le persone che ora mi cercano mi fanno quasi rabbia, non per colpa loro, ma perché nessuno può capire la paura che abbiamo provato, la tristezza che abbiamo sentito e percepito dagli altri, la distruzione che abbiamo visto e vissuto, le frazioni ridotte a cenere e i corpi che vedevamo estrarre nei paesini sottostanti mentre fuggivamo. È un macigno che ci rimarrà sul cuore, sullo stomaco e nella testa, comprensibile solo da chi l’ha vissuto.

Arriva la notte e ancora piangiamo, abbiamo deciso di dormire tutti insieme. Che bella parola dormire, non so cosa voglia dire in realtà. Sono sveglia da quasi ventiquattro ore e i miei occhi non sembrano avere intenzione di chiudersi. Il letto si muove, ma il lampadario è immobile, quindi sono io. Ho le allucinazioni, e ogni rumore è motivo di infarto quasi. Sembro una pazza, e realizzo che sono solo una persona in stato di shock, quando guarirò da tutto questo? Quando sarà solo un lontano incubo?

Le premesse non sono buone, non c’è visuale di un futuro ad Amatrice. Le giornate mi sembrano tutte inutili ora, incollata a un notiziario come a voler sentire “non era vero nulla, è tutto ok”. Sembra che la vita non scorra più e invece noi siamo i pochi fortunati che si sono salvati. Anche a Roma non c’è via di fuga il terremoto ti perseguita: tutti chiamano, chiedono, vogliono sapere; le telefonate portanti altri morti, altri edifici distrutti, anche i cimiteri con gravi danni. Non ne usciremo mai. Siamo terrorizzati e sotto shock tutti, e in terribile ansia per i ragazzi che stanno ancora su.

Si parla di ricostruzione in televisione, io purtroppo ho le mie perplessità: quanto ancora durerà l’interesse per Amatrice? Prima o poi sarà solo un fatto accaduto e accantonato, per noi continuerà a essere una tragedia. Si potrà mai ricostruire? Potrà mai risorgere? Noi abitanti delle frazioni, piccole e mai esistite per nessuno all’infuori di noi, avremo la possibilità di ricevere aiuto per i lavori? Purtroppo le speranze sono deboli. Le uniche cose che noi ragazzi possiamo dire o promettere a noi stessi saranno l’impegno, il sacrificio e il duro lavoro che quando sarà nelle nostre capacità e competenze impiegheremo per portare all’antica bellezza i luoghi della nostra infanzia e, mi auguro, del mio futuro. Quando invecchierò voglio poter stare seduta accanto al mio camino, come faceva mio nonno, leggendo. Voglio dare ai miei nipoti una casa, un luogo cui affezionarsi e desiderare di rivedere per tutto l’anno, come mio nonno ha fatto con me.

Il terremoto ha smesso di farmi vivere al momento, ma mi ha avvicinato ancora di più a tutti i ragazzi. Sono tutti parte importante della mia vita, se me li avessero levati non avrei avuto l’accenno di forza che ho ora. Non vedo più le prospettive che mi ero fatta, posso solo ripromettermi di dare il cento per cento per rivederle, ma sarà dura.

Mi consolo con il mio animo ottimista, di poter ricominciare da capo, con tutte le persone che mi sono sempre state vicino, e con la speranza, che ora tutti siano un po’ migliori, meno materialisti. Sarà difficile ma non impossibile, perché come dice l’accendino che ho comprato ad Amatrice due giorni prima che sparisse, “ogni estate ha la sua storia”, e qualcuno mi ha dato la possibilità di raccontarla, per uscirne migliore di prima.

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I resti della casa di Arianna Ambrogi, la diciottenne romana sopravvissuta al sisma.

30 agosto 2016

Stanotte alle 3:36 sarà passata una settimana. Solo una settimana dall’inferno. Il tempo per noi è un concetto relativo, a volte passa subito, a volte delle giornate sembrano interminabili. Io sento di non avere una collocazione in nessuna delle due circostanze, è passato velocemente perché mi sento ancora lì, quando la notte ho gli incubi, quando il giorno non sono serena, e perché solo quindici secondi hanno portato via una parte della mia vita. Mentre scrivo mi rendo conto di avere lo sguardo perso nel vuoto, sento una canzone che al momento mi sembra rappresentare la situazione attuale. “We don’t talk anymore”, non parliamo più come facevamo di solito né ridiamo più. Sento queste parole e le mie orecchie le caricano di tristezza e consapevolezza che non ci saranno più le chiacchiere da bar e le risate delle persone tra le vie di Amatrice. Né nel mio paese incantato, dove ero la principessa dei miei nonni (giusto per loro perché di principesco ho poco e nulla).

Mi sento un’aliena, dalla casa ho salvato il mio orso di peluche che ho da quando avevo tre anni post operazione, e non riesco a “dormire” se non c’è lui. Devo averlo per abbracciarlo, perché mi dà la sensazione di essere protetta. E non ho la minima vergogna di dirlo, nonostante abbia diciotto anni. Di solito riesco a dormire senza l’orso quando c’è Andrea, perché lui mi proteggerebbe. È saltato con me quella notte, e mi ha detto “fortunatamente ero con te, perché se fossi stato lontano mi sarei spaventato troppo”. Quindi in piccolo c’è chi si sente fortunato ad aver vissuto questa esperienza…

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A PROPOSITO / UN DOCUMENTO RITROVATO

Gli edifici monumentali di Arquata del Tronto prima delle scosse nel censimento redatto dal futuro “salvatore dell’arte” Pasquale Rotondi

Il paese marchigiano di rara bellezza in provincia di Ascoli Piceno era stato, nel 1936, al centro della studiosa attenzione dell’allora dirigente della Soprintendenza di Ancona dell’uomo che, tre anni dopo, sarebbe diventato Soprintendente delle Marche e coordinatore dell’Operazione Salvataggio” dei principali tesori culturali italiani. Prossimamente l’elenco dettagliato nella schede di Rotondi.

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Una foto di Arquata del Tronto, prima del terremoto.

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Invito alla visita

telefono-iconaIl salvataggio e la messa in sicurezza dei tesori delle Marche “museo diffuso” portano per il momento a escludere viaggi nell’area colpita dal sisma. Ma il resto delle Marche, da Gradara al Montefeltro, da Fano a Urbino, da Senigallia a Jesi, dalla Riviera del Conero all’entroterra di Ancona, da Loreto a Osimo, aspettano i nostri e vostri occhi curiosi di turisti solidali.

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