Caro lettore,
prosegue il viaggio di Giannella Channel attraverso tappe di avvicinamento (tappe studiose e tappe gustose) all’Expo milanese. Al di là degli aspetti, purtroppo consueti, di corruzione che stanno infangando il volto di un’iniziativa che dovrebbe stare a cuore di tutti gli italiani, a parere mio è sbagliata l’impostazione che finora sembra tradirne l’impegno ufficiale: “Nutrire il pianeta. Energia per tutti”.
Per raggiungere l’obiettivo occorrerebbe una attenzione alla cultura dei mezzi per nutrire il pianeta che sono i numerosi complessi prodotti tratti dall’agricoltura, trasformati con processi agroindustriali (pastifici, zuccherifici, conservifici), per arrivare alla distribuzione e alla fine per arrivare sui tavoli, su quelli opulenti e su quelli dei poveri. Processi che coinvolgono, oltre ai prodotti agricoli e zootecnici, energia e acqua.
Con l’aiuto di autorevoli collaboratori, andremo a illuminare il concetto, che è ecologico, tecnico-scientifico e merceologico, del ciclo natura -> industria -> commercio -> “consumo” e che continua con i rifiuti e il loro smaltimento. Una campagna che sostenesse l’importanza della cultura agricola, agroindustriale e alimentare farebbe, a nostro modesto parere, cosa utile anche ai fini del successo di una impresa che impegna, oltre a una montagna di soldi, anche la faccia del nostro paese. Più di cantanti, mùsici, ballerini, chefs e calciatori. (S.G.)
Dove troveremo tutto il pane
Per sfamare tanta gente?
Questi versi di una famosa canzone scout tornano alla mente pensando allo scandalo della fame che affligge 2500 milioni di persone, sparse in Asia, Africa, Sud America, quel nuovo “terzo mondo” che continua a essere povero, in gran parte poverissimo, afflitto da fame, malattie, mancanza di case decenti, di elettricità, di gabinetti e fognature e di acqua pulita. Eppure sono gli abitanti di questo terzo mondo che producono molte delle derrate agricole che fanno opulenti le mense dei 2000 milioni di abitanti del “primo mondo” e degli altri più di 2000 milioni di abitanti dei paesi emergenti di un “secondo mondo” – Cina, India, Sud est asiatico – sempre più avidi di benessere anche alimentare.
Per sconfiggere la fame occorrono riforme dei mercati e dell’economia mondiale, responsabili delle violenze e delle speculazioni che provocano l’aumento dei prezzi delle derrate agroalimentari, ma occorre aumentare la disponibilità fisica di tali derrate (prodotti agricoli, carne, latte) attraverso un aumento delle conoscenze tecnico-scientifiche e storico-geografiche, attraverso una meno iniqua distribuzione di quello che è disponibile.
Ogni persona, in media, per sopravvivere, ha bisogno di alimenti come carboidrati e grassi capaci di sviluppare nel nostro corpo, circa 3500 MJ (una volta si diceva 900.000 chilocalorie) di energia all’anno per persona, e ha bisogno delle proteine che forniscono gli amminoacidi necessari alla sintesi delle proteine del corpo umano: circa 30 chili di proteine sia animali sia vegetali, all’anno per persona. Se si somma il contenuto di energia e di proteine delle sostanze alimentari mondiali annue, si vede che esso “sarebbe” sufficiente a sfamare tutti gli abitanti della Terra; eppure centinaia di milioni di persone nel mondo sono sottoalimentate o affamate per varie ragioni.
La prima causa della fame
Il primo motivo è che circa un terzo dei terrestri consuma più della metà dei prodotti alimentari disponibili. Nei paesi industrializzati, quelli che abbiamo chiamato del “primo mondo”, il contenuto energetico del cibo disponibile arriva, in media, a oltre 4.000 MJ all’anno per persona. Fatte le debite proporzioni si vede che per i restanti circa 4600 milioni di persone – abitanti nei paesi emergenti o arretrati, quelli che sono stati indicati, rispettivamente, come i nuovi “secondo” e “terzo” mondo – risulterebbero disponibili, sempre in media, circa 3.000 MJ/anno per persona di energia alimentare, per cui molte centinaia di milioni di terrestri sono al limite della disponibilità di energia alimentare e alcune centinaia di milioni sono anche sotto tale valore. In altre parole, a pochi, 2000 milioni, tanti alimenti (in media oltre 4000 MJ/anno.persona) e a tanti, 4600 milioni, pochi alimenti (in media 3.000 MJ/anno.persona). Gran parte del problema è proprio lì.
Mancano tecniche di conservazione
La seconda ragione della scarsità di cibo nel mondo è dovuta al fatto che grandi quantità dei raccolti e degli alimenti vanno perdute perché, nel “terzo mondo”, mancano tecniche di conservazione che potrebbero anche essere semplici: essiccatoi solari, silos per evitare l’attacco dei parassiti, tecniche di trasformazione sul posto dei prodotti agricoli, zootecnici e della pesca, molto più semplici di quelle dei grandi stabilimenti industriali e che potrebbero utilizzare esperienze e materiali locali. Oltre a dare qualche soldo in elemosina alle innumerevoli organizzazioni che promettono di aiutare qualche abitante di qualche paese povero del mondo, sarebbe necessario investire e incoraggiare la ricerca scientifica nel campo delle tecnologie intermedie, appropriate, che utilizzano le conoscenze scientifiche dei paesi ricchi per conservare e trasformare, nei paesi poveri, gli alimenti locali.
Processi che fanno perdere sostanze nutritive
Una terza ragione della fame è che i prodotti agricoli e zootecnici, prima di arrivare alla vendita e ai “consumatori”, passano attraverso processi di separazione, raffinazione, conservazione, in ciascuno dei quali si perde una parte delle sostanze nutritive. I cereali vengono macinati per separare la parte cellulosica (crusca) ma vanno così perdute anche proteine e vitamine; della carne macellata soltanto una parte del grasso e delle proteine si ritrova nella carne che ciascuno di noi mangia, eccetera.
Destinazione zootecnica
Una quarta ragione è che molti prodotti agroalimentari di origine vegetale, contenenti proteine di più basso valore nutritivo, sono destinati alla zootecnica per produrre proteine di origine animale (quelle della carne, uova, latte, eccetera) biologicamente più pregiate. Ma occorrono da due a cinque chili di proteine di origine vegetale (cereali, soia, foraggi, eccetera) per ”fabbricare” negli animali da allevamento, un chilo di proteine più pregiate; il resto delle sostanze nutritive viene “consumata” dalla vita e dal metabolismo animale ed è “perduta” ai fini della nutrizione umana.
Fatte le debite proporzioni, pur sempre molto approssimative, circa un terzo dei terrestri ha a disposizione alimenti di origine animale, con proteine biologicamente pregiate, in quantità sufficiente o abbondante, mentre gli altri due terzi dei terrestri hanno una disponibilità di proteine che è spesso al di sotto del fabbisogno minimo, tanto che spesso le malattie da sottoalimentazione sono malattie da carenze proteiche. E’ tipico il caso della pellagra ancora diffusa nelle popolazioni la cui alimentazione è basata principalmente sul mais, le cui proteine sono povere di alcuni amminoacidi essenziali. Da qui le ragioni della cultura (ancora molto minoritaria) vegetariana ispirata non a caprici ecologisti ma al desiderio di economizzare le proteine animali che richiedono sostanze nutritive altrimenti utilizzabili dagli umani. Altre malattie, infine, derivano da carenze di vitamina A, di vitamina D e di altre vitamine.
Erosione del suolo e altre cause
All’impoverimento della disponibilità presente e futura di prodotti alimentari contribuisce la progressiva erosione del suolo, e specialmente dei suoli fertili, dovuta a un eccessivo sfruttamento agricolo e zootecnico, all’estensione delle città e delle strade, all’abbandono delle terre da parte dei contadini e dei latifondisti che trovano più redditizi investimenti in altre attività, la crescente prevedibile scarsità di acqua.
Un’altra piccola ma non insignificante causa della scarsità di alimenti pregiati è associata al crescente uso di alimenti per gli animali domestici; tanto che anni fa una pubblicità mostrava una bambina sudamericana visibilmente denutrita e avvertiva: “Il vostro gatto mangia meglio di ‘Dolores’”.
Biocarburanti
Alla scarsità degli alimenti e all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari contribuisce anche, da alcuni anni, l’utilizzazione di prodotti di importanza alimentare – soprattutto mais e soia ma anche zucchero di canna – per la produzione di carburanti alternativi al petrolio. Soprattutto alcol etilico (ribattezzato “bioetanolo”) dalla fermentazione di prodotti zuccherini e amidacei, come surrogato della benzina, e grassi e esteri degli acidi grassi come sostituti dei carburanti per motori diesel. Tanto da far dire a molti che la politica dei biocarburanti, “toglie di bocca” la tortilla ai sudamericani per far correre i potenti SUV dei paesi ricchi. Il che è vero: i carburanti di origine vegetale potrebbero sostituire quelli di origine petrolifera, sempre più scarsi e anche più inquinanti, se fossero ottenuti, come è possibile fare, da prodotti di scarto agricoli e forestali, da residui lignocellulosici, eccetera.
L’aumento della produzione agricola sarebbe possibile (con l’impiego di sementi a maggiore resa per ettaro, con la messa a coltura di nuovi terreni), ma molte delle soluzioni “tecnologiche” prospettate sono devastanti per la fertilità del suolo, per la necessità di impiegare crescenti quantità di concimi e pesticidi (con relativo inquinamento), per la stabilità degli ecosistemi e per la conservazione di quella diversità biologica fra le specie vegetali e animali da cui dipende la possibilità di continuare in futuro le coltivazioni.
Il grande ostacolo: la convenienza “economica”
Gran parte, inoltre, dei sottoprodotti e scarti agricoli e dell’industria alimentare potrebbero essere utilizzati con nuovi processi e cicli produttivi per aumentare, per esempio, la componente proteica del cibo. Il punto fondamentale sta nel fatto che qualsiasi azione verso la lotta alla scarsità di cibo comporta azioni finora scartate o scoraggiate sul terreno della convenienza “economica”. Si pensi all’abbandono di colture agricole e di piante alimentari nell’Unione europea per non deprimere il prezzo dei prodotti, alla distruzione delle eccedenze agricole che le regole del libero mercato sono incapaci di pensare possano essere distribuite ai paesi sottoalimentati o utilizzate a fini alimentari con processi e prodotti diversi dagli attuali. Ogni anno nel mondo si producono circa 600 milioni di tonnellate di latte; dalla produzione del burro e del formaggio e dai relativi sottoprodotti si possono ricavare concentrati proteici e alimenti ben diversi da quelli “raccomandati” dalla melensa pubblicità dei paesi industriali.
Un altro dei tanti processi che potrebbero alleviare la crisi alimentare con materie non convenzionali e adatte ai paesi più poveri di alimenti è rappresentato dalla estrazione di proteine biologicamente pregiate presenti anche in molti vegetali, specialmente nelle foglie. Del resto le insalate, gli spinaci, sono proprio alimenti pregiati a base di foglie, anche se hanno l’inconveniente di avere una “vita utile” breve. In molti hanno pensato di estrarre le proteine dalle foglie in una forma facilmente conservabile. Nel 1942, in periodo di guerra, N.W. Pirie (1907-1997), un chimico inglese della stazione sperimentale di agricoltura di Rothamsted, ha cominciato a condurre ricerche sull’estrazione di proteine dalle foglie con un processo consistente nell’omogeneizzare le foglie, che hanno un elevato contenuto in acqua, nell’estrarre un succo e nel fare coagulare le proteine. Con l’estendersi del benessere e della disponibilità di alimenti di origine animale il processo è stato accantonato. Viene riscoperto adesso e vari studiosi hanno ripreso le ricerche i cui risultati potrebbero essere applicati alle foglie di piante esistenti nei paesi che più soffrono di carenze proteiche.
Alle radici della fame
La fame, insomma, non è una condanna biblica, ma deriva da egoismi, miopie politiche incapacità di innovare in un settore da cui dipende la reale sopravvivenza dell’umanità; e anche dalla povertà delle conoscenze tecniche e anche geografiche e dalla poca voglia di approfondirle.
Di Giorgio Nebbia per Giannella Channel: