politica industrialeC’è un fantasma che si aggira per l’Italia, mentre la base industriale s’assottiglia tra crisi della domanda interna e problemi strutturali, gli ex campioni nazionali si dibattono in una pericolosa agonìa e la nostra imprenditoria mostra una debolezza endemica. E’ la politica industriale, vittima di una “schizofrenia culturale” tipicamente italiana. Prima ideologia e polmoni del boom economico italiano negli anni ’60, poi abbandonata come la peste nella simultanea corsa verso privatizzazioni e liberalizzazioni negli anni ’90, oggi nuovamente invocata come ciambella di salvataggio di pezzi d’industria nazionale in svendita. Peccato che oggi in Italia non esista una vera discussione sulla politica industriale – né in sede politica, né in sede scientifica – e che continui a dominare l’ideologia “mercatista” secondo cui la cosa migliore è non far nulla, perché il mercato risolve tutto da solo. E in effetti risolve. Spesso sostituendo le italiche urla di battaglia con la pace del cimitero industriale, ma questo non è considerato così rilevante.

Se una politica industriale è costituita non tanto da incentivi monetari, ma soprattutto da politiche per ricerca e innovazione, strategie di sistema per rafforzare l’internazionalizzazione delle imprese, scelte pubbliche per “blindare” i campioni nazionali e perfino da una domanda pubblica ad alto valore tecnologico (come negli Stati Uniti), in Italia oggi non abbiamo nulla di tutto questo. Tentiamo solo di rifugiarci in una “politica industriale d’emergenza”, chiedendo al Governo un intervento disperato solo quando due asset strategici come Alitalia e Telecom hanno già consumato errori, cassa e competitività a tal punto da rendere inevitabile il passaggio in mani straniere. Intervento giusto e opportuno, perché a oggi solo il Governo italiano può provare a impedire che Alitalia diventi solo una compagnia “regional” che porta passeggeri intercontinentali da Roma a Parigi o che Telecom diventi mero terreno di speculazioni lontane dagli interessi del Paese. Ma la vera politica industriale è tutt’altra cosa.

E’ per esempio ciò che ha fatto con successo la Francia, affiancando la protezione dei suoi big player industriali (pubblici) con una politica industriale bottom up, capace di moltiplicare sul territorio i centri d’eccellenza industriale. Attraverso due scelte politiche: la creazione nel 2005 dei “Poli di Competitività” – dove le energie territoriali sono convogliate verso la nascita di imprese ad alta intensità R&D (Ricerca e Sviluppo) e verso progetti di sviluppo industriale – e dell’Agenzia per l’Innovazione Industriale, che finanzia questi progetti unificando risorse che prima erano fornite in ordine sparso dalle amministrazioni a livello locale, regionale e nazionale.
Politica industriale è anche ciò che ha fatto la Germania. Non solo con le ormai celebri strategie di sistema per la conquista dei mercati dell’Est, ma anche con il suo piano “High Tech Strategie”. Varato nel 2006 e poi prolungato fino al 2020, il piano mobilita decine di miliardi di euro per sostenere innovazione e ricerca in 17 settori industriali prioritari. In Italia, invece, oggi la politica industriale è un fantasma. Peccato, perché basterebbe soltanto copiare (bene).

inpiù* Fonte: InPiù, newsletter diretta da Giancarlo Santalmassi. Contatto: info@inpiu.net