Fine anno, tempo di pranzi e cene, con amici e con parenti. A cosa servono? A mangiare, a scambiarsi auguri e regali, a parlare del più e del meno. A parlare di niente, insomma. Molti anni fa un amico avvocato, che ora mi spiace di non frequentare più, aveva inventato una piccola procedura per far sì che queste serate conviviali non si trasformassero in inutili perdite di tempo.
Cominciò a telefonare a tutta la compagnia:
Si sparse la voce nella cerchia di amici che si frequentavano con continuità, con una decina di coppie che si ritrovavano a rotazione in casa dell’uno o dell’altro. Le serate che fino ad allora s’erano riempite di banalità si accesero improvvisamente, fin troppo calde anche dopo la mezzanotte. Già dalla prima sera il mio amico avvocato si ritrovò bersaglio di attacchi frontali: gli si domandava con quale faccia potesse prendere le difese di un assassino. Mancò poco che la discussione degenerasse in baruffa.
Ben presto ci rendemmo conto che occorreva darci delle regole, anche perché le signore più timide non avevano modo di inserirsi nel dibattito. Decidemmo di evitare i temi politici e quelli che chiamavano in causa troppo esplicitamente la professionalità dei presenti. Tutti avrebbero avuto fino a un massimo di dieci minuti per esporre il loro pensiero, e un presidente della serata eletto a turno avrebbe potuto togliere la parola agli indisciplinati.
Anche con queste limitazioni non ricordo neppure una serata moscia. Scoprimmo ben presto che queste serate ci consentivano di approfondire in poche ore la personalità di amici che credevamo di conoscere da anni. Si andava a dormire con la convinzione di avere rinsaldato i nostri rapporti e di aver dato il nostro contributo a uno spettacolo interessante.
A volte tra le pieghe delle discussioni
venivano alla luce verità
imbarazzanti che erano rimaste chiuse
per anni nei cassetti della memoria.
Uso nomi di fantasia: nella serata sulla legittimità delle droghe leggere Mario confessò di avere scoperto la suocera completamente ubriaca e alla moglie allibita replicò: «Credevo di avertelo detto». Un’altra sera discutendo sull’abolizione del servizio di leva apprendemmo che Enrico, quattro figli, era stato scartato alla visita militare perché affetto da una malattia che lo condannava all’impotenza. E ancora, in un indimenticabile dibattito sul valore della verginità, Daniela, forse in preda ai fumi dell’alcool, ammise dopo molte reticenze di avere avuto una decina di esperienze prematrimoniali.
Il mio amico avvocato, dopo quel primo exploit piuttosto movimentato, era sembrato più propenso ad ascoltare gli altri che a dire la sua. E ogni sera ringraziava tutti dicendo: «Anche questa volta ho imparato qualcosa». I nostri incontri si diradarono progressivamente, perché forse lui stesso non era più così aperto al confronto. Mi giunse voce che aveva litigato con un fratello, e poi che le cose con sua moglie non andavano più tanto bene. Fatto sta che senza di lui le cene a tema sono cessate. Peggio: i temi sono ancora il calcio, la cucina e i nipotini.