Più volte con mia figlia Valentina e mio genero Massimo, avevamo imboccato la strada di Rivolta d’Adda per andare nella cascina tipo “Albero degli zoccoli” dove ci accoglieva l’amica Franci con la sua famiglia, in primo piano suo padre, Emiliano Mondonico, un gigante dello sport e dell’umanità scomparso ieri mattina, giovedì 29 marzo, a 71 anni dopo una lotta con il cancro cominciata sette anni fa quando allenava l’AlbinoLeffe.
Mondonico è stato prima un calciatore di talento (giocava all’ala) e poi un allenatore garbato e incisivo, che portò la Cremonese in A dopo 54 anni, l’Atalanta in semifinale di Coppa delle Coppe, il Torino a vincere la Coppa Italia. Il calcio che lo piange lo celebra con quel suo gesto diventato un’icona del tifo granata, la sedia sollevata al cielo di Amsterdam nella finale di ritorno contro l’Ajax, Coppa Uefa del ’92, per protestare contro un rigore negato a Cravero. “Un atto rivoluzionario”, scrive Francesco Saverio Intorcia su Repubblica). “La sedia, simbolo del potere, improvvisamente rovesciata e puntata in alto, brandita come arma popolare, trasformata in strumento di lotta”.
Ho ripescato dal mio archivio l’intervista che mi concesse per Sette, lo storico magazine del Corriere della Sera, in un solare pomeriggio di settembre del 2016 allorché, insieme alla sua eroina, illuminò il suo tenace aggressore.
Sulla targa posta all’ingresso della Cascina Brusada, nella campagna di Rivolta d’Adda, si legge “via Emiliano Mondonico” ma invano metterete questa via sul navigatore perché è solo il dono che tifosi della Fiorentina, rimasta sua squadra del cuore, gli regalarono alla fine della sua avventura di ‘mister’ dei viola. Il Mondo mi viene incontro nell’aia con la moglie Carla, la presenza dominante nella sua vita ieri e soprattutto oggi che le sue giornate sono senza pallone.
“Per la verità, Carla mi dà la ragione di vivere e governa me e la nostra casa e cascina anche da prima che mi allontanassi dagli stadi da professionista, nel 2011, per via del tumore all’addome che ha richiesto due interventi chirurgici e continui controlli. Ora che la ‘bestia’ sembra ricacciata dal ‘medico-cannoniere’ Alessandro Gronchi, nipote dell’ex capo dello Stato, ho immesso un po’ di pallone nella mia vita come opinionista televisivo e come allenatore no profit: sto allenando con soddisfazione una trentina di ragazzi problematici. Ho accettato la proposta di uno psichiatra, Giorgio Cerizza, convinto che, oltre ai farmaci, i ragazzi reagissero anche a livello corporeo: mi dice che l’allenamento calcistico fa effetto come dieci sedute di psicoterapia. E loro, gli atleti-pazienti, aspettano fiduciosi l’appuntamento con me”.
Come hai conosciuto Carla?
“Da quando eravamo ragazzini, lei faceva la quinta elementare e io la seconda media. Suo padre qui in paese vendeva zoccoli (siamo nel paesaggio agreste dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi) e io passavo qualche volta nel negozio per ammirarla. Poi sono andato in collegio, non l’ho rivista più fino a quando una sera alle giostre e poi in una cantina ristrutturata per feste, con la colonna sonora di Mogol e Battisti e dei Beatles e Rolling Stones, è scattata la scintilla dell’amore. Ci siamo sposati nel ’73, festa nell’osteria dello zio in riva all’Adda, e io che comincio a fare il pendolare come allenatore tra diverse squadre lombarde e di tutt’Italia, incluse Torino e Fiorentina. Lei, Carla, è stata così brava a rendermi presente nell’educazione delle nostre figlie e dello svolgersi della nostra vita nonostante io fossi spesso lontano e cercassi, portando tanti giocattoli, di compensare la mia assenza. Carla per me è stata una bitta, intorno alla quale in tutte le fasi della nostra vita ho attraccato la mia barca”.
Bella questa immagine di donna-porto…
“Sì, lei è una donna realista e coraggiosa, non si fa condizionare dalle emozioni, mi ha fatto sentire meno fragile durante la malattia. Mi creda, averla a fianco mi dà un motivo in più per pensare, per credere, per reagire, per vivere. Insomma, per essere felici”.