I novant’anni di un ammirato padre del giornalismo, Eugenio Scalfari, mi trovano lontano dall’Italia, in Oriente, ma non lontano dal mio computer nel quale ritrovo l’intervista che feci nel 2004 a un altro gigante del nostro mestiere, Enzo Biagi, in occasione dell’ottantesimo anniversario proprio del creatore di Repubblica (e per un anno, 1984, mio diretto interlocutore quando diressi il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso, Genius) Un’intervista confluita tra le tante a Biagi che compongono un libro da me curato per Rizzoli: Consigli per un Paese normale (2010), di sorprendente attualità. (s. gian.)

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Roma, 6 aprile: Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica, consegna a Eugenio Scalfari la maglia giallorossa della Roma in occasione del suo 90° compleanno. (CREDIT: AS ROMA)

Caro Enzo, Eugenio Scalfari festeggia un anniversario importante della sua vita. È un padre del giornalismo al quale noi tutti, cronisti e società civile d’Italia, dobbiamo molto. Gli auguri sono d’obbligo…
“Certo, e volentieri glieli facciamo pubblicamente. Auguri, Eugenio, per i tuoi tanti anni e grazie per quanto hai dato e continui a dare al giornalismo. Sei stato (con Montanelli) uno dei pochi a creare giornali e, da direttore, a farne successi editoriali e imprese economicamente in utile. Ti auguriamo di conservare la salute, la curiosità, la tua abilità nel raccontare le storie dell’economia e della politica. E anche la tua capacità di indignarti, di polemizzare, insomma di continuare a fare Scalfari”.

Scalfari, Montanelli… Due nomi, una professione: quella di direttore di quotidiani nazionali. E proprio questa professione, in un’indagine promossa dal Corriere Lavoro e Adecco, è risultata la più amata dagli italiani: 72 su 100 a un ideale “genio della lampada” disposto a esaudire un desiderio in merito al futuro professionale, farebbero la richiesta di diventare direttore di giornale. (Per tua curiosità, nella classifica alta seguono il giudice con il 69% delle preferenze, l’attore del cinema con 37% e il medico di pronto soccorso al 36%).

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La copertina del libro di Biagi e Scalfari, “Come andremo a incominciare” (Rizzoli, 1981)

Il motivo di questo primato è comprensibile. Scalfari, con Ezio Mauro e colleghi ottengono un vantaggio incolmabile per la combinazione di tre fattori: il reddito, la soddisfazione professionale e l’utilità sociale. E poi è indubbio che in tempi di comunicazione globale, in cui guerre e terrorismi creano un crescente “desiderio di informazione”, il ruolo di un direttore di giornale diventa centrale e invidiabile, incarna fascino e potere. Però, ai giovani dico: attenzione, il compito di un direttore è molto pesante, sia sotto l’aspetto della creatività che di quello della responsabilità. Scalfari ci insegna che, intanto, ogni mattina un bravo direttore deve arrivare al giornale con un’idea che stupisca i suoi redattori (questo imperativo lo aveva ereditato da un altro grande direttore, Giulio De Benedetti: che poi era suo suocero, avendone sposato la figlia Simonetta, che l’ha reso padre di Enrica e Donata). E ci insegna anche che un giornalista deve essere una persona perbene, con la schiena dritta, non avere soggezioni, e non avere paura della solitudine. Che deve essere al servizio del lettore, il suo vero padrone, verso il quale comportarsi con lealtà. Io temo la malafede, non temo l’errore, siamo esseri umani e tutti possiamo sbagliare: la verità la possedeva uno solo e non credo che tra i giornalisti la più grande aspirazione sia di finire in croce”.

Che cos’erano i giornali quando avete cominciato voi?
“Erano giornali in cui i fatti non c’erano, le inchieste nemmeno, l’autorità era sacra e il clero era santo. La famiglia, avvolta da un velo di ipocrisia: ricordo quando una ricca signora di Verona scappò con l’amante, il suo autista, e il grande Egisto Corradi stava stendendo l’articolo per il Corriere. Gli si avvicinò il direttore Missiroli e gli chiese: “Il particolare dell’autista non lo si può annacquare?”. Mi diceva Fellini: “Enzo, se non siamo cresciuti completamente imbecilli è un miracolo”. Oggi i fatti ci sono, magari nascosti in una pagina interna, ma il peccato di omissione non si pratica più. È troppa la concorrenza e un’omissione incrinerebbe il più grande patrimonio di cui disponga un giornalista: la credibilità. Le inchieste pure ci sono, anche se vedo con preoccupazione che diminuiscono: ecco, se io potessi dare un consiglio ai direttori di oggi e ai loro redattori, direi: ‘Tornate a innamorarvi delle inchieste, andare a vedere, perché non si possono raccontare storie vere stando alla scrivania’. Il mondo si sta complicando, si sta muovendo e noi, come hanno fatto le brave inviate televisive nella guerra in Iraq, dobbiamo essere sul campo”.