L’altra sera ho rivisto con piacere il film “Tutti gli uomini del presidente” su Sky Cinema Cult, con la storia dei due giovani cronisti del quotidiano Washington Post (Carl Bernstein e Bob Woodward, due cognomi che sono rimasti nella storia del giornalismo e nella storia degli Stati Uniti, interpretati magistralmente da Dustin Hoffman e Robert Redford) scoprirono il collegamento tra la Casa Bianca e il caso Watergate, provocando nel 1974 le dimissioni del presidente Nixon. Illuminando lo scrupolo quasi maniacale della ricostruzione dei fatti senza invenzioni romanzesche né indugi psicologici, quel film del 1976 vincitore di 4 Oscar, racconta un’altra volta la vecchia storia di Davide che sconfigge Golia ed è un eccellente rapporto sul giornalismo americano e, forse, l’omaggio più esplicito che il cinema abbia mai reso al “quarto potere”. Per questo motivo ha avuto su di me un effetto dirompente la lettura, la mattina dopo martedì 20 novembre, di un editoriale su La Stampa di Torino (“Quando la crisi dei giornali diventa una notizia”) che ha al centro la sofferenza in cui annaspa proprio quel glorioso quotidiano di Washington e delinea un modello cui rifarsi perché quel quotidiano (ma il discorso riguarda, purtroppo, tutta l’editoria del mondo occidentale, Italia compresa) possa uscire da una crisi micidiale. Ve ne offro un condensato. (s.gian)

David Carr (© Zuma Press Newscom)

Una delle firme di punta del New York Times, David Carr, si dedica con passione e rigore a quella che in America è considerata una grande storia dei nostri tempi: la crisi dei giornali. E ieri si è esercitato in un’analisi impietosa dei guai del Washington Post, lo storico rivale alla prese con problemi economici che ne minacciano la stessa sopravvivenza.

Il giornale dello scandalo Watergate ha vissuto nei giorni scorsi l’improvvisa cacciata del direttore, Marcus Brauchli, sostituito con Marty Baron del Boston Globe. Un episodio che si inserisce nello scenario delle drammatiche perdite di soldi, copie e lettori che il Washington Post registra da tempo. Carr ha duramente criticato la mossa dell’editrice Katharine Weymouth, erede della dinastia Graham che controlla il quotidiano. Il capo d’imputazione principale non è la scelta di Baron, ma l’accusa alla Weymouth di non aver ancora individuato una chiara strategia per una testata con 600 giornalisti, che fatica a decidere se restare nazionale o rassegnarsi alla dimensione regionale. Cambi di direttori e incapacità di generare profitti, per Carr, hanno portato il giornale a un passo da una raffica di tagli di posti di lavoro, senza indicazioni su come uscire dal baratro e senza un chiaro modello di business per l’era digitale. Fino a qualche tempo fa a tenere in piedi la redazione era «Kaplan», una società controllata che prosperava nel mondo dei test scolastici e universitari, che ora però è entrata a sua volta in crisi.

Crisi dei giornali, non del giornalismo

La storia è tutta americana, ma suggerisce un paio di lezioni anche dalle nostre parti. La prima è che la crisi dei giornali (non del giornalismo, che non è mai stato meglio) è un passaggio epocale, che «fa notizia» e quindi va raccontato con lo stesso metodo con cui si raccontano le crisi nella politica, nell’economia o nello sport. In ballo non ci sono solo i giornali come aziende, ma ciò che rappresentano nelle democrazie. Un tema complesso, che meriterebbe più attenzione anche in Italia, dove invece resta per ora confinato a convegni e dibattiti per addetti ai lavori.

Ci sono due grandi modelli che ormai si confrontano su scala mondiale. Da una parte la scelta di giornali come il Washington Post di offrire contenuti di qualità gratis su tutte le piattaforme digitali (web, smartphone, tablet). Il miglior interprete di questa filosofia è il britannico The Guardian, che in pochi anni ha visto esplodere il traffico sul web, fino a diventare il terzo sito di news più popolare al mondo dietro a Daily Mail e New York Times. Ma il Guardian ha appena chiuso un bilancio con 76 milioni di sterline di perdite. Una ricca fondazione per ora permette al giornale di stare in piedi e continuare a fare grande giornalismo, ma l’interrogativo è: «Per quanto tempo ancora?».

L’altro modello è proprio quello del New York Times, basato su un meccanismo che permette di consultare gratuitamente un certo numero di notizie digitali, superato il quale viene chiesto il pagamento. Un «muro» che sembra funzionare, visto che ha prodotto 532.000 abbonamenti digitali in poco più di un anno.

I giornalisti fanno la differenza

Gratis o a pagamento, i due modelli si reggono entrambi sull’informazione di qualità. Non a caso, lo slogan con cui il giornale di New York vende abbonamenti è: «I nostri giornalisti fanno la differenza». E qui c’è la seconda lezione che arriva dal caso americano: David Carr è la conferma che vale la pena pagare qualcosa perché il New York Times possa continuare a permettersi un David Carr.

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