Nel giorno dell’ultimo saluto al cardinale arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini mi affiora alla mente un convegno che, nei primi anni Novanta, quando dirigevo l’allora primo mensile di natura e civiltà Airone, mi vide relatore, dopo la sua arricchente “lezione”, in una giornata organizzata dal Centro Studi Impresa di Valmadrera (sul lago di Como, ramo di Lecco), in collaborazione con lo Studio Corno di Lissone, una squadra internazionale per la formazione e la consulenza alle imprese.
Quella giornata, dedicata all’informazione e all’ecologia, fu l’inizio di un’accentuata attenzione personale nei confronti di quel gigante della Chiesa e dell’umanità. In particolare mi colpiva la sua attenzione ai temi del giornalismo e della comunicazione, temi che suscitarono sempre stimolanti riflessioni. Mi piace ricordarlo con i brani centrali di un suo intervento di grande attualità che ritrovo in archivio, tratto da Tabloid, periodico edito dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia (n.6/1996). L’incontro era promosso dalla Rai di Roma. Eloquente il titolo dell’intervento di Martini: “Troppa violenza in televisione”.
Nella lettera di invito mi è stato chiesto di parlare sull’informazione e il ruolo del servizio pubblico, e cito un passaggio: “Mantenere ferma la natura di servizio pubblico che persegue e soddisfa esigenze e interessi di carattere generale e, nello stesso tempo, rispettare i vincoli di economicità, competitività e modernità, che garantiscono la sopravvivenza di un’impresa che agisce in un sistema di mercato, è una sfida che richiede, assieme ad adeguate strutture politiche e amministrative e a elevati livelli e motivazioni professionali, anche una costante percezione e sintonia con le aspettative dei cittadini e della società“.
Mi sono fermato a lungo su questa frase, colpito in particolare dalle parole “sfida“ e “aspettative dei cittadini e della società“. Penso che il mio ruolo consista nel chiarire quali possono essere alcune aspettative rispetto a tale servizio pubblico, soprattutto in questo momento sociale e culturale, e userò il linguaggio simbolico a me più consono del linguaggio tecnico dei media.
(…) Impiegherò semplicemente immagini e simboli che traggo dalla Sacra Scrittura e che fanno parte del tesoro della letteratura mondiale, del patrimonio comune dei popoli europei e dunque dei nostri valori più cari. Ho pensato a una serie di immagini che inizia con la parabola dei talenti e riprende poi altre icone da me evocate in precedenti occasioni a proposito dei media: i mercanti cacciati dal tempio, la tunica insanguinata di Giuseppe e il lembo del mantello.
1La parabola dei talenti. Un servitore riceve cinque monete di grande valore e le fa fruttare in modo da ricavarne altre cinque. Riflettendo sulla corrispondenza dei cinque talenti che ne rendono cinque, né più né meno, ci viene suggerito che ciascuno dei talenti ha reso la sua parte, che nessuno di essi è stato impiegato male e che il servitore ha tenuto conto di un insieme, di una totalità da salvare e da far fruttare.
Notiamo che la parabola dice lo stesso dei due talenti che fruttano il doppio, non però dell’unico talento; l’unico non entra nel ciclo fecondo che moltiplica i beni e possiamo intuire una certa diffidenza verso il talento lasciato a se stesso, alle sue dinamiche interne, e sottratto, per così dire, a un insieme. Come applicare la parabola? Prendo il servitore dei cinque talenti a simbolo di una società, o meglio dell’insieme delle forze sociali, pubbliche, private e miste (o comunque le si definiscano) che devono servire al bene comune.
Questa società dispone di talenti singoli e in essi leggiamo i nomi specifici dei beni di interesse pubblico, che il servitore è chiamato a utilizzare. Sono beni come la sanità, l’istruzione, l’ordine pubblico, l’ordine internazionale (cioè la promozione della pace e la rimozione della guerra) ecc. In ogni caso uno di questi talenti è indubbiamente quello della comunicazione pubblica che non può essere considerato soltanto come un bene in sé, con i suoi fini, le sue dinamiche, le sue leggi proprie. Fa parte di un insieme di talenti e va fatto fruttare in relazione e in armonia con tutti gli altri. Fuor di metafora, la comunicazione pubblica é parte di un insieme che comprende sanità, cultura, ordine pubblico, giustizia, pace e così via. Non serve considerare ogni talento per conto suo; ciò che importa è ottenere una somma di beni e di servizi che si aiutino reciprocamente per un risultato complessivo.
Leggo qui una prima richiesta e attesa fondamentale che sale dalla società verso il servizio pubblico nel campo dei mass media e della comunicazione sociale: che il servizio pubblico si ponga come elemento che assicuri garanzia ed esemplarità al processo di sviluppo globale della società, vivendo le proprie dinamiche (mass mediali e anche economiche) non in isolamento, non facendo riferimento soltanto al proprio ambito, bensì nell’insieme di cui è parte. Questo vuol dire che c’è una responsabilità condivisa e un’interazione tra sanità, cultura, istruzione, ordine pubblico, pubblica moralità, grado di educazione di una società, promozione della pace e dell’intesa tra i popoli e la comunicazione sociale. Essa è parte di un insieme di tale importanza da avere la priorità su tutte le pur legittime esigenze e i condizionamenti particolari del mercato e dell’audience.
Si ha spesso timore che la concezione dei cinque talenti presi globalmente conduca a vincoli o a censure che limitino la libertà dei media o li rendano fragili nella competitività del mercato. Ciò può essere vero se libertà e mercato vengono visti come sganciati da tutti gli altri valori sociali, civili e morali che fanno una società giusta. Non è però così se si considera che libertà ed efficienza economica sono funzioni non di una realtà isolata (dei media e basta), ma di un corpo sociale complessivo a cui va assicurato quell’insieme di valori e di beni che fanno di una società una realtà libera, efficiente, vivibile, educata, colta, amante della pace e del dialogo. L’uso spericolato e slegato di un talento, senza tener conto degli altri, può produrre vantaggi immediati e tuttavia alla fine danneggia l’insieme e logora la libertà e il profitto che sembrava volesse perseguire.
Un talento che va per conto suo è dunque sprecato. In una società democratica, il modo migliore per convincere ciascuno a usare bene dei propri talenti non sta nella repressione o nella censura, bensì nello stabilire esempi e modelli che mostrino cosa vuol dire promuovere l’interesse di tutti e rispondere ai bisogni di libertà, sincerità, buon vicinato e serietà che ciascuno ha a cuore.
Mi pare si collochi in tale contesto la prima responsabilità di un servizio pubblico nel campo dei media, responsabilità che risponde a una grande attesa sociale. Si tratta di una responsabilità talmente grande, talmente importante, che definisce anche alcune prerogative del servizio pubblico e alcune libertà specifiche che pure sono parte dell’attesa della gente: la libertà dalla schiavitù dell’audience e dalla dipendenza dal solo criterio del maggior guadagno. Queste libertà devono, di per sé, essere in qualche misura proprie di tutto il mondo dei media, e una società dovrebbe poterle esigere, quindi promuovere presso tutti coloro che entrano in questo campo.
Una società può però affidare in maniera specifica a un servizio pubblico di essere garante di tali beni e di tale globalità, e di mostrare come una realtà mass mediale è capace di promuovere non soltanto se stessa, ma l’insieme di beni e di valori che sono essenziali per la convivenza civile.
Se a tutta la comunicazione pubblica si chiedono livelli adeguati di qualità, intelligenza, eleganza, questi livelli sono tanto più attesi da un servizio pubblico che é anche chiamato a fare da contrappeso a tendenze degradanti. Non c’è infatti solo la banalità del male; c’è pure il male della banalità che è un venire meno alle aspettative proprie di ogni cultura tesa a un di più di umanità, di civiltà, di bellezza, di correttezza, di eleganza.
2L’icona dei venditori cacciati dal tempio. Da quanto ho espresso seguono delle conseguenze, che mi limito a richiamare per quanto riguarda alcuni problemi seri della comunicazione pubblica di carattere ‘negativo’. Penso, in particolare, al modo con cui i media trattano o possono trattare della violenza, della criminalità, della guerra, delle contese tra etnie e nazioni. Passo allora alla seconda immagine che ho evocato soprattutto lo scorso anno parlando a un’assemblea di giornalisti riuniti a Graz, in Austria: è l’icona dei venditori cacciati dal tempio. A Graz, infatti, gli operatori della comunicazione, provenienti da ogni parte del mondo, si interrogavano seriamente sul rapporto tra media e violenza. Alcuni di loro erano testimoni oculari di eventi drammatici accaduti in Rwanda, altri erano stati anche vittime. Molti avevano negli occhi e nel cuore episodi che comprovavano le ricerche dei sociologi sul crescere della violenza in tutti i campi: familiare, urbano, civile, politico, religioso. Del resto tali episodi sono sotto gli occhi di tutti, dalle violenze sulle donne e sui minori fino agli attentati orrendi di Israele.
Ora non possiamo ignorare che il modo della comunicazione pubblica non è estraneo a tutto questo, anche se non è la prima causa dei fenomeni di violenza e se vi è diversità tra immagini di violenza ed episodi della stessa. E’ chiaro comunque che vi è modo e modo di parlare della violenza e si può descriverla – come fa la Bibbia – senza incitare a essa.
Nell’analizzare il rapporto perverso che può instaurarsi tra violenza e mass media, mi è venuta alla mente l’icona biblica dei mercanti cacciati da Gesù dal tempio, per indicare come i comunicatori, che si fanno moltiplicatori di violenza, meritino il grido drammatico di Gesù: fuori dal tempio! Quello della comunicazione è un tempio in cui devono venire promossi rapporti autentici: chi ci sta è invitato a contribuire per rinsaldare tali rapporti, non a romperli o a renderli impossibili.
Vedo, in proposito, una grande responsabilità del servizio pubblico verso quel fermentare di modi e di rapporti violenti che sta avvelenando anche le relazioni sociali in Italia. Rispetto ad altre società, quella italiana è sempre stata una collettività caratterizzata da relazioni umane pacifiche. Le eccezioni, pur gravi, a questa regola, rimangono eccezioni e talora sono dovute persino a un eccesso di paciosità e di acquiescenza che si lascia strumentalizzare o manipolare.
In ogni caso la bontà dei rapporti è una caratteristica che viene messa a rischio quando le relazioni correnti vengono rappresentate, nei media, come contrassegnate in prevalenza da conflittualità e violenze. Anche dal punto di vista della corretta informazione si crea uno squilibrio tra il costume quotidiano e la sua rappresentazione pubblica. Voi sapete com’è grande la preoccupazione delle famiglie che vedono apparire con sorpresa nei loro figli parole, gesti e atteggiamenti non riscontrabili nell’ambiente in cui vivono, ma solo nei media e nei gruppi che li imitano. E’ dunque importante l’esistenza di un servizio che, volendo davvero essere specchio del paese, lo sia pure nella sua qualità di un paese amante della pace, della buona educazione, della correttezza sociale.
3L’icona della tunica insanguinata di Giuseppe. Quanto detto sulla violenza può dirsi per altri fenomeni negativi o devianti: la pornografia, la droga, la furberia, l’ipocrisia, la menzogna e ogni altra forma di esaltazione di costumi e abitudini che non rispondono alla realtà civile e morale della collettività. Una menzione particolare meritano le notizie cosiddette drogate.
Parlando qualche tempo fa a giornalisti, ho richiamato, dal libro della Genesi, la storia della tunica di Giuseppe figlio del patriarca Giacobbe; tunica imbrattata di sangue di animali dai fratelli, per far credere al padre che il figlio fosse stato divorato da una bestia selvaggia. In realtà, erano stati i figli di Giacobbe a tradire e vendere il fratello Giuseppe. Togliendogli però la veste e rendendola insanguinata al padre costruiscono, con spezzoni veri, una notizia falsa e, per di più, atta e suscitare ira, sdegno, commozione intensa e, alla fine, e dirottare le indagini che il padre avrebbe potuto fare sulla sorte del figlio. Mi pare si possa parlare, al riguardo, di “notizie drogate“, di notizie imbastite di particolari singoli veri ma combinati o titolati in modo da suscitare scandalo, vendetta, furore, ben al di là dei limiti dell’oggettività della notizia e, anzi, capaci di depistare ogni ricerca della verità.
So perfettamente che è difficile definire in astratto che cosa significhi l’oggettività di una notizia. Tuttavia è chiaro che esistono almeno delle graduatorie, delle approssimazioni all’oggettività che definiscono una informazione come il più possibile corretta e onesta. Mentre l’audience, intesa in senso generale, può gradire una notizia drogata perché sensazionale, il pubblico, inteso in senso qualificato e cioè come colui che esige un servizio a favore dell’interesse di tutti, ricerca una notizia oggettiva, corretta, onesta. Non sempre l’audience numerica equivale al pubblico reale, a quello che chiede il servizio e lo giudica; ed è a quest’ultimo che deve rispondere chi compie una funzione sociale di interesse comune.
C’è quindi motivo di preoccupazione e di allarme per quanto avviene nel mondo della comunicazione di massa sia rispetto al valore educativo che al valore informativo. Spesso viene usata in proposito la categoria dell’ambiguità, ossia di uno strumento neutro che può essere impiegato bene o male.
Vi ha fatto riferimento anche Giovanni Paolo II in un recente discorso del 16 gennaio. Parlando del prossimo Giubileo del 2000, il Papa lo designava come il primo “dell’era telematica“, notando che la Chiesa non può non cogliere tale novità. Ma ricordava che “attraverso essi (i mass media) hanno modo di entrare nelle case messaggi e proposte di vita talvolta lontani dal Vangelo, sconvolgendo tradizioni e consuetudini secolari“, affermando tuttavia che “è possibile usare degli stessi mezzi per alimentare l’intesa e la solidarietà tra gli individui e i popoli“.
Le parole del Papa mi spingono ora, dopo aver richiamato alcuni problemi e pericoli, a sottolineare in positivo le grandi possibilità e le occasioni favorevoli che può avere un servizio pubblico di fronte all’intera società… dando coscienza, dignità, cultura, slancio, capacità comunicativa. Se non è il caso di dare ai media un posto centrale nel grande processo di rifare umana l’umanità, non potranno essere almeno una frangia, un lembo del mantello, cioè del potere comunicativo e risanatore che è attribuito, nella grazia del Vangelo, al linguaggio umano e alla comunicazione tra gli uomini?
E’ questa la grande scommessa dei media su cui punta la Chiesa e su cui deve puntare ogni società che vuole un servizio pubblico propositivo: fare sì che gli strumenti detti di massa diventino fattori personalizzanti nella vita sociale e civile… e che la comunicazione sia forgiatrice di cultura. In essa è menzionato un aspetto fondamentale del servizio pubblico, che è corresponsabile del progresso culturale di un’intera nazione. Vi sono state in questi anni, nel campo scientifico, letterario e filosofico iniziative importanti, che vale la pena continuare e non penalizzare relegandole a ore impossibili. E’ un dono fatto a tutti. Anche in mancanza di un’audience immediata molto consistente, ce ne sarà una più ampia di tipo mediato per l’accresciuto livello di coscienza civile che suscitano tali programmi culturali.
Conclusione: (…) ben prima che le diverse onde dei processi mediatici abbracciassero il globo, il globo era già tutto pervaso dalle onde di quello Spirito che promuove comunicazione, vita, giustizia e pace. Dio infatti, dice ancora il libro della Sapienza,
“ ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale ” (1,14-15)
E’ questa la fiducia che desidero infondere in tutti i comunicatori affinché affrontino coraggiosamente le sfide da cui sono nati questi incontri tra la dirigenza e i giornalisti della Rai e i rappresentanti di diverse realtà del nostro Paese.
Salvatore Giannella