Da mesi va di moda fra quanti hanno tribune giornalistiche e televisive a iosa sostenere che gli intellettuali italiani non parlano più, non si oppongono più a una linea di governo disastrosa per la cultura e i suoi beni, insomma stanno chiusi nelle classiche torri d’avorio o sono ammutoliti. Venerdì sera, 4 dicembre, l’ultimo di questi dibattiti a Otto e mezzo da Lilli Gruber (foto in apertura) con Andrea Scanzi e Michele Serra. A me pare che a questa discussione – che rischia di risultare accademica – manchi una cosa fondamentale: quelli che democraticamente fanno opposizione al governo ci sono, e parlano, e scrivono, ma… non hanno più tribune giornalistiche e nessuno o quasi li invita a quelle televisive. Vecchi o giovani che siano.

Ho scritto per Articolo 21 un commento di questo tipo: sui grandi temi dei beni culturali e ambientali anche tanti anni fa ci esercitavamo in pochi, Antonio Cederna, sul Corriere della Sera e poi su Repubblica (con più fatica), Mario Fazio sulla Stampa, Vito Raponi sull’Avanti!, Alfonso Testa su Paese Sera, chi scrive prima sul Giorno e poi sul Messaggero (più recentemente sull’Unità di Colombo, Padellaro, Sardo e Landò). Tuttavia non soltanto scrivevamo e denunciavamo, ma quegli articoli divenivano la linea stessa del giornale. Cos’è rimasto di questo? Quasi nulla. Ma non è che i vari Settis, Montanari, Erbani (quando può), Asor Rosa e pochi altri (fra i quali mi metto pur essendo in là con gli anni) non si oppongano, non critichino, non polemizzino. Non li fanno più scrivere o li fanno scrivere sempre meno.

A me è capitato col Venerdì di Repubblica: mi viene chiesto un paio di anni fa un editoriale sui Parchi Nazionali semi-abbandonati, porto cifre, dati, ecc. Non è mai uscito e senza che mi venisse spiegato alcunché. (Quel testo, purtroppo attuale, lo trovate qui di seguito. Ndr). È di questi giorni la notizia ferale della divisione a spezzatino del Parco Nazionale dello Stelvio fra Province Autonome e Regione Lombardia. Fine della storia. Qualche giornale o telegiornale ne parla? Nemmeno per sogno.

Allora, tutti quelli che come Lilli Gruber, Andrea Scanzi, Michele Serra, ecc. hanno una, due o magari tre rubriche culturali, hanno tribune giornalistiche e televisive, perché non sollevano questo problema di fondo? Gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti di ogni età che vogliono continuare a fare opera di denuncia, di critica, di proposta ci sono, ma sono come imbavagliati, ridotti al silenzio, non hanno tribune né voce. Altro che chiacchiere da salotto.

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Vittorio Emiliani (Predappio, 1935), giornalista e scrittore, presiede il Comitato per la Bellezza. La sua ultima pubblicazione, Romagnoli & Romagnolacci, cento e più ritratti di personaggi della Romagna dell’altro ieri, di ieri e di oggi (Minerva Edizioni) segue quelle di Cronache di piombo e di passione. L’altro «Messaggero». Un giornale laico sulle rive del Tevere (1974-1987) (Donzelli, 2013) e di Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista 1959-2012 (Bononia University Press).

A PROPOSITO

Allarme! Così stanno sfregiando “il volto amato della Patria”: i Parchi Nazionali dalle Alpi in giù

Per il filosofo Benedetto Croce, nato a Pescasseroli, e per i suoi amici naturalisti era “il volto amato della Patria”. Fu lui a firmare nel 1922 la legge di tutela delle bellezze naturali e i primi due Parchi Nazionali: Gran Paradiso e Abruzzo. Il fascismo vi aggiunse Stelvio e Circeo. Nient’altro per trent’anni, sino al Parco Nazionale della Calabria (1968) peraltro mai attivato. In realtà settant’anni di immobilismo e finalmente, dal 1989 a oggi, soprattutto negli anni ’90 (grazie anche al contributo del mensile Airone da me diretto, che pubblicò regolarmente il diario del primo firmatario della legge sui parchi, Gianluigi Ceruti. Ndr) molti nuovi Parchi Nazionali sino a raggiungere quota 23, più il Parco del Gennargentu (1998) per il quale non si muove foglia. Siamo così passati dalla miseria di un 3 per cento di territorio protetto dai Parchi Nazionali al 10,5. Circa 1 milione e mezzo di ettari. Oltre 3 milioni se sommati a parchi regionali, oasi, riserve naturali.

Un bel balzo, certo. Spesso teorico purtroppo. Molto avari restano i fondi destinati a questi straordinari polmoni verdi, essenziali al paesaggio, all’ambiente, alla biodiversità, al benessere psico-fisico, alla stessa economia montana. Nel 2012 hanno ricevuto, secondo Federparchi, 63 milioni, cioè 42 euro per ettaro, 20 per cento in meno delle medie europee. Poca cosa a fronte delle sole tasse che lo Stato ricava dai Parchi: oltre 300 milioni di euro, cioè 5 volte quanto restituisce per il loro mantenimento (o sopravvivenza). Infatti, stando anche alle cifre più prudenti, i visitatori sono 34 milioni l’anno, gli occupati diretti 4.000 più 76.000 nell’indotto fra servizi, centri visita, prodotti agro-silvo-pastorali freschi e trasformati, coop di servizio (750). Per un giro d’affari complessivo che, secondo Federparchi, supera il miliardo.

Un patrimonio formidabile, da tanti punti di vista, che però è minacciato nella sua integrità dal business della neve (impianti di risalita, nuove piste di discesa, funivie, cabinovie, ecc.), da speculatori edilizi, legali e abusivi (a Pescasseroli i primi residence abusivi erano di alcuni avvocati dello Stato), da bracconieri e cacciatori e, diciamolo, dalla stessa pochezza dei fondi e, a volte, degli amministratori nominati in base alle indicazioni dei partiti, delle clientele locali. Rari nella storia delle aree protette i presidenti competenti e autorevoli: Arturo Osio (Stelvio) e Fulco Pratesi (Abruzzo) che l’allora ministro Altero Matteoli riluttava a nominare malgrado il sì unanime di Camera e Senato, oggi Gaetano Benedetto (Circeo) e Cesare Lasen (Dolomiti Bellunesi). Eccezioni. Per lo più sono sindaci o ex sindaci che poco sanno opporre agli appetiti di quanti vogliono trasformarli (come sognava il ministro Stefania Prestigiacomo) in parchi-divertimento. L’area protetta del Vesuvio è assediata dalle discariche. Quella del Gargano dall’edilizia abusiva. I commissariamenti imperversano, durano mesi e fanno danni, come la mala amministrazione. C’è un grandioso riscatto da promuovere. Gli sfregi al “volto amato della Patria” si possono, si devono restaurare. E invece nuovi pericoli si addensano su di esso con la legge di stabilità e con altri strumenti. E però la manovra parte da più lontano.

Un istante prima che il precedente governo cadesse, con una inspiegabile e sospetta urgenza, la commissione ambiente del senato stava per varare una modifica alla Legge Quadro Parchi Nazionali di cui non si sentiva la necessità. La ragione di questa spinta, attivata dai senatori Ferrante e Della Seta, ex Legambiente, era di introdurre nel testo varato nel 1991 e che ha dato finora buona prova di sé, dei cambiamenti secondo noi inaccettabili.

Cambiamento della composizione dei Consigli direttivi, con metà dei membri delle Comunità locali e metà esponenti delle associazioni ambientaliste. In più inserimento nei Consigli direttivi di rappresentanti del mondo agricolo (in sostanza Coldiretti con cui Legambiente ha stretti rapporti). Questo stravolgerebbe gli equilibri fin qui mantenuti, con l’esclusione dei rappresentanti del ministero Ambiente e ministero Politiche Agricole, cioè dello Stato, in strutture definite “Nazionali”! In più l’inserimento di una categoria, come quella agricola che ha interessi che nulla hanno a che fare (e spesso configgono) con quelli della tutela della biodiversità. E non si vede perché non debbano essere rappresentate altre categorie economiche come gli albergatori, i boscaioli, i cavatori, ecc.

Anzitutto un allentamento dei vincoli sulla caccia nei parchi, fortemente voluta dalle lobby dei cacciatori, fortissime in Parlamento. E si teme che gli eventuali (e paventati) rappresentanti degli agricoltori siano dei cavalli di Troia per l’ingresso degli stessi cacciatori. Un’altra inaccettabile modifica riguarderebbe le cosiddette royalty per accogliere nelle aree protette iniziative produttive (cave e miniere, attraversamenti di elettrodotti, centrali energetiche, ecc). Altri particolari attengono alla nomina di Direttori senza concorsi e altre pericolose innovazioni burocratiche.

Naturalmente tra tutte le associazioni ambientaliste che hanno sottoscritto la protesta manca Legambiente che, nella sua sottile e ambigua politica di infiltrazione, si è assicurata la presidenza di molti parchi e quella di Federparchi, dato che i principi fondatori della Legge 394, per la quale ci siamo battuti con Cederna, Pinelli, Osio, Stringher, Pasolini e tanti altri a iniziare dal Gruppo Verde di Italia Nostra nel 1965, che erano tesi alla tutela della natura, non sono al centro degli interessi di chi vede nelle aree protette solo delle possibilità di posti di potere e di guadagni.

Vittorio Emiliani (gennaio 2013)


E questo è il poker di contestazioni delle Associazioni ambientaliste.

Le maggiori Associazioni ambientaliste non condividono le proposte di riforma della Legge 394/1991 presenti nel disegno di legge n.119 del Senatore D’Alì per almeno 4 motivi:

  1. perché verrebbero rivisti gli equilibri, in modo evidente e comprensibile anche per i non addetti ai lavori, tra coloro che rappresentano negli enti di gestione interessi nazionali generali e chi rappresenta interessi particolari e privati. Nessuno intende contrapporre i legittimi interessi delle comunità locali alle esigenze di tutela della natura ma è quanto mai opportuno nel nostro Paese assicurare il rispetto di quella gerarchia di valori ribadita in più occasioni dalla Corte Costituzionale per la quale la tutela dell’ambiente dovrebbe prevalere sempre su qualunque interesse economico privato.
  2. è piena d’insidie la distinzione artificiosa che si vorrebbe introdurre tra attività venatoria e controllo della fauna selvatica, pur con la supervisione dell’ISPRA, l’istituto di ricerca del ministero dell’Ambiente. Si prevede di fatto un diretto coinvolgimento dei cacciatori nella gestione della fauna all’interno delle aree naturali protette. La normativa attuale già consente interventi da parte degli Enti Parco per la gestione dei problemi che alcune specie, essenzialmente il cinghiale, possono determinare se presenti in sovrannumero. La riforma prevista rischia di aprire le porte alla caccia nei parchi per interessi lontani dalla conservazione della biodiversità nel nostro paese.
  3. manca inoltre, come indispensabile premessa a ogni ipotesi di riforma della Legge attuale, una seria analisi dei problemi nella gestione dei parchi in relazione al ruolo centrale che dovrebbero svolgere per la tutela della natura. Risale infatti al 2002, cioè alla seconda Conferenza nazionale sulle aree naturali protette di Torino, l’ultima occasione di ampio confronto e dibattito sul nostro sistema nazionale di parchi e riserve naturali.
  4. c’è infine da rilevare che in assenza di una seria valutazione sullo stato delle nostre aree naturali protette le proposte di riforma della Legge entrano esclusivamente nel merito delle rappresentanze negli Enti di gestione, delle procedure di nomina di presidenti e direttori, di possibili meccanismi di finanziamento attraverso royalty che rischiano di determinare pesanti condizionamenti nella gestione delle risorse naturali dei territori protetti e nella gestione della fauna attraverso un discutibile quanto inopportuno coinvolgimento del mondo venatorio.

Per questi motivi le otto Associazioni ambientaliste rilanciano l’allarme sul destino dei parchi italiani ed auspicano una opportuna ampia riflessione prima di riavviare il processo di riforma della Legge quadro 394/91, nei tempi e modi opportuni, con l’avvio di un serio e approfondito confronto sul futuro dei parchi con il solo obiettivo di assicurare una loro gestione più efficace per la conservazione del nostro patrimonio naturale.

Aspettando un giornalone che accolga i testi di Emiliani & C., offro loro il mio barchino di Giannella Channel: un motivo in più per riflettere su questa anomala situazione. (s.g.)