Leggo qualche riga sul trionfo bolognese a Sana 2013 di Vandana Shiva, l’attivista indiana impegnata sui fronti dell’alimentazione e dell’ambiente. L’essenza del messaggio è di chiarezza inequivocabile: non esiste necessità di penetrare verità oscure. Chiudo il giornale investito dall’onda di uno sconforto che, riflettendo, mi avvicina all’angoscia: un paese come l’Italia che deve tutte le conquiste che ha realizzato, in tempi apparsi prodigiosi a tutti gli osservatori del mondo, alla scienza occidentale, accoglie in tripudio la sacerdotessa dell’antica scienza braminica, che, dove è scienza ufficiale, costringe centinaia di milioni di contadini a pratiche primitive, obbligandoli, insieme, alla fame, alle malattie, alla schiavitù dell’usura.
La storia non è che l’insieme di miliardi di notizie registrate su fonti dalla natura più eterogenea conservate in milioni di archivi. Quelle notizie possono essere lette alla ricerca del significato più verosimile che risulti dalla loro lettura comparata, possono essere selezionate per bandire quelle che paiano dimostrare le tesi, o le illusioni, di una filosofia, di un culto, di un credo politico. Il primo impiego è quello dello storico autentico, il secondo, nelle molteplicità delle varianti, è quello che può arrivare al ciarlatano o al fanatico. Non è difficile dimostrare che l’utilizzo che l’ambasciatrice indiana del nuovo bramanesimo opera delle notizie con cui intesse le elucubrazioni che infiammano l’entusiasmo del devoti non può essere collocato, a mio parere, che tra le seconde modalità d’uso delle fonti storiche.
Una fame secolare. L’India è, da secoli senza fine, il paese della fame. Semplificando le scansioni della storia, mille anni sono trascorsi da quando Muhamd, signore di Ghazni, valicò i passi dell’Indu Kush levando la bandiera verde del Profeta per punire, nel suo nome, un popolo adoratore di idoli facendolo schiavo. I secoli del dominio dei Moghul musulmani furono per l’immenso paese i secoli di un’immane tragedia: pochi imperi sono stati, come quello musulmano dell’India, la perfetta combinazione di avidità, crudeltà, corruzione impersonate da Shah Jahan e Aurangzeb, i più onnipotenti di una successione ininterrotta di despoti. Per raccogliere le ricchezze necessarie alla costruzione delle moschee più grandiose che vantasse l’Oriente, e ordinare gli sterminati eserciti con cui tentare la conquista dell’intero continente, i grandi Moghul costrinsero i contadini indiani a un’inedia senza riparo e senza fine, cui i paria indiani si ribellarono con sterili rivolte represse dallle schiere degli elefanti imperiali, l’arma cui era affidato l’ordine imposto nel nome santo di Maometto, le cui zampe e le cui zanne convertivano la folla ribelle in poltiglia sanguinolenta.
L’ordine da Londra: produrre oppio. Ai secoli della fame nel nome del Profeta seguirono i secoli della fame nel segno del leone e dell’unicorno britannici. Quando i primi avventurieri inglesi si impossessarono, con le procedure caratteristiche di tutti i pirati, delle prime, ricche città dell’India costiera, la Gran Bretagna era già l’epicentro del progresso agricolo mondiale: un supporto prezioso alla pirateria, siccome assicurava agli equipaggi scorte illimitate di bovino salato della migliore qualità, una dotazione, per le conquiste piratesche, altrettanto importante di polvere e palle da cannone. Per il progresso dell’agricoltura indiana i viceré inviati dall’imperatrice Vittoria non avrebbero, invece, mai fatto e nulla. A governare l’India erano inviati i membri della più orgogliosa aristocrazia britannica, membri di famiglie che in patria possedevano le aziende agricole meglio coltivate del Pianeta, perfettamente a conoscenza, quindi, delle regole della nuova agronomia, ma l’ordine, da Londra, era produrre oppio.
L’Impero inglese aveva ereditato da quello Moghul un fiorente commercio di oppio con la Cina, ma la Cina si impegnò a contenere il fiume di argento che si convertiva nella droga che assopiva tutta la propria classe dirigente, un carico di oppio fu bruciato, a Canton, da un funzionario imperiale troppo solerte. Siccome le casse di droga portavano l’emblema di Vittoria, il visconte di Palmerston, solerte ministro degli esteri di Sua Maestà, inviò nel 1862 un ammiraglio di provata ferocia, James Bruce, conte di Elgin e di Kinkardine.
L’aiuto dalla scienza e da un Nobel. A esorcizzare quello spettro fu una donna, Indira Gandhi, che mentre il Parlamento continuava a dissertare sulle ragioni etiche, religiose, filosofiche che vietavano di importare la tecnologia agraria occidentale (che gli inglesi, che ne erano gli artefici, si erano accuratamente guardati dal diffondere), invitò un agronomo americano, il futuro premio Nobel, Norman Borlaug, che le spiegò che i frumenti che aveva selezionato per la fame del Messico erano in grado di produzioni 3-4 volte maggiori di quelli della tradizione indù, e, contro tutte le resistenze parlamentari, ordinò al ministro Subramaniam l’acquisto delle sementi occidentali (seppure create in Messico). Dopo che la catastrofe produttiva del monsone senza piogge del 1965 fu riparata dal dono delle ultime scorte di guerra statunitensi, nei due anni successivi, egualmente avari, le sementi di Borlaug avrebbero prodotto il prodigio: al terzo raccolto dall’adozione l’anno scolastico sarebbe stato interrotto in anticipo perché i contadini non disponevano di granai adeguati, e l’immensa produzione dovette essere ricoverata nelle scuole di villaggio.
Se l’India ha, da allora, quasi quadruplicato la popolazione, evitando la morte per fame di centinaia di milioni di persone, la ragione, l’unica ragione, contro tutte le amenità che si possano immaginare contro la spiegazione, sono stati i frumenti di Norman Borlaug, e i risi selezionati, secondo le sue procedure, a Los Baños, nelle Filippine, che hanno conquistato l’Asia triplicando o quadruplicando le produzioni, dove abbiano trovato condizioni favorevoli.
Rilevati gli straordinari progressi delle produzioni agricole del Continente, e il prodigioso incremento delle disponibilità caloriche giornaliere, non è, purtroppo, privo di significato rilevare che notizie di fonte diversa suggeriscono che il progresso agronomico sia gravemente rallentato in India, dove, dopo l’uccisione di Indira Gandhi, le correnti neo-braminiche hanno riconquistato il peso antico e si oppongono con virulenza crescente all’impiego della scienza occidentale in agricoltura. E’ certamente paradossale che un paese che dalla scienza occidentale ha acquisito, senza esitazione, la bomba atomica, i missili balistici e la tecnologia informatica, della scienza occidentale rigetti l’insieme delle conoscenze che gli hanno evitato bibliche carestie e ne hanno consentito l’immenso aumento della popolazione.
E non può non suscitare incredulità verificare che se è stata una donna, col coraggio della leonessa, ad accettare (con l’atomica e l’elettronica) la scienza dell’Occidente per sfamare il paese, un’altra donna indiana, banditrice dell’odio per la scienza occidentale del neo-bramanesimo, venga osannata, in Italia, come profetessa di nuovi rapporti tra l’uomo e la terra, “nuovi” rapporti che corrispondono esattamente alla tradizione indù accantonata da Indira Gandhi, i rapporti tra l’uomo e la terra che hanno costretto alla fame, per mille anni, centinaia di milioni di rayat indiani.
A commento delle opzioni ideali e politiche delle due signore si può rilevare, peraltro, che nella proporia storia millenaria l’umanità, nelle sue famiglie diverse, ha concepito una pluralità di filosofie, o ”scienze”, ma che nessuna, pensiamo alla più augusta dell’antichità, quella di Aristotele, ha mai prodotto applicazioni tecnologiche comparabili a quelle che solo il “metodo sperimentale” di Galileo e Bacone ha saputo creare in una successione che perdura, incessante, da quattro secoli. E se è innegabile che la tecnologia occidentale è stata lo strumento che ha consentito agli europei di dominare, per oltre tre secoli, con prepotenza, l’intero Pianeta, è altrettanto innegabile che essa abbia prodotto la metodologia agricola che ha triplicato, tra il 1950 e il 2000, le produzioni della Terra, consentendole di alimentare una popolazione raddoppiata in soli 45 anni, evento unico nei 70.000 anni di storia dell’Homo sapiens, e di allungare la vita, con i propri medicinali, anche nelle popolazioni più povere. Né la scienza egiziana, né quella indiana o cinese hanno mai realizzato mete comparabili: in India e in Cina i rapporti tra l’uomo e le risorse agrarie sono stati ristabiliti, per millenni, dopo ogni periodo di temporanea abbondanza, dalle carestie. Come aveva lucidamente compreso una grande governante, Indira Gandhi, come cerca di nascondere, con elucubrazioni indegne di una che dovrebbe essere cultrice della verità scientifica, l’ambasciatrice internazionale delle fame indiana passata e futura.
Si può concludere questa breve storia della fame indiana redatta a commento dei trionfi bolognesi dell’alfiere del neo bramanesimo ricordando due primati che l’India può proclamare come vanti mondiali: la completa soggezione dei rayat agli zimadar, una soggezione di origini protostoriche, consacrata dagli imperatori devoti a Maometto, sancita, con regole inderogabili, dai viceré di Vittoria, una schiavitù che induce al suicidio, ogni anno, decine di migliaia di contadini, quando l’usuraio faccia valere i propri diritti e sequestri casupola e bufalo, convertendo un povero contadino in mendicante, e la pervasiva presenza, nelle campagne indiane, della tubercolosi, che nessuna misura pubblica ha mai provveduto a contenere.
Ho premesso che l’essenza delle elucubrazioni bolognesi dell’alfiere del neo-induismo agreste mi impone uno sconforto prossimo all’angoscia. In un paese in cui decine di milioni di rayat (si chiamino ancora così o la vanità politica ne abbia mutato la denominazione) vivono la medesima abietta soggezione del tempo dei Moghul e dei viceré di Vittoria, nel perenne terrore che lo zimandar, signore dei loro debiti, espropri la casupola (un’onta che solo il suicidio può riparare) e che anche nella casupola si confrontano con una malattia endemica che tutti i paesi di mediocre ricchezza si preoccupano di controllare, che l’India non reputa necessario prevenire tra i propri paria; ecco, il fatto che questa signora non impieghi il proprio ascendente per rifiutare la tecnologia occidentale impiegata per fare dell’India una potenza atomica di prima grandezza, ma per realizzare almeno “sanatori” anti-tbc e che si impegni a ripristinare le pratiche agrarie della fame imperiale (musulmana o britannica) che una grande governante era riuscita a relegare in un passato di orrore, assicurando al proprio popolo il pane (o il riso) quotidiano, impone allo storico delle scienze agrarie di cercare un vocabolo che qualifichi l’allocuzione bolognese e le ovazioni che l’hanno accolta. Personalmente vedo il tutto come un ennesimo segno della dilagante pseudo scienza quotidiana.
Antonio Saltini (Brioni, 1943) è uno storico delle scienze agrarie, divulgatore e docente universitario a Milano. Come scrittore ha prodotto diverse pubblicazioni fra le quali una monumentale Storia delle scienze agrarie sull’agronomia degli ultimi due millenni. Come giornalista ha collaborato a diversi periodici, tra i quali Airone; ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio rurale ed è stato vicedirettore del settimanale Terra e vita. Qui i link degli altri testi pubblicati su Giannella Channel. Per saperne di più sui temi trattati e sul pensiero di Saltini, ecco i titoli dei suoi ultimi libri: La fame del Pianeta. Crescita della popolazione e risorse agrarie (2009); Storia delle scienze agrarie, vol. VII, Il Novecento: la sfida tra le conoscenze agronomiche e la crescita della popolazione del Globo (Museo Galileo, 2013); I semi della civiltà. Frumento, riso e mais nella storia delle società umane (2014). I libri sono stampati da Nuova TerraAntica. Per info e acquisti scrivere alla segretaria editoriale: chiarazini.nta@libero.it
molto interessante e ben scritto
Condividiamo in toto quanto espresso nell’articolo dal prof. Saltini.
Un bell’articolo e non poteva essere diversamente se ha scriverlo è uno dei massimi studiosi italiano e non solo….
Proviamo lo stesso sconforto:
quando notiamo come l’attivismo ecologista di Vandana Shiva ha un costo; dalle 7500 alle 12000 euro
http://www.celebrityspeakers.it/en/dettaglio.aspx?ID=170
quando le sue battaglie sono abbracciate dai politici, ancor di più se ex assessori all’agricoltura
http://www.susannacenni.it/chi-sono/
Quanta ipocrisia (o affari economici…) per riconciliare il genere umano con la terra!!!
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=C8XeApI57Qw
http://www.fondazionedirittigenetici.org/news/748/capanna-offre-a-berlusconi-una-terza-via-tra-i-domicliari-e-i-servizi-sociali-venga-a-lavorare-alla-fdg
PS: a proposito della didascalia della prima foto per fare chiarezza Vandana Shiva non è economista, tanto meno un fisico, come spesso viene scritto, ha conseguito la laurea in filosofia e cosa più importante non ha alcuna competenza in agraria.
Leggendo questo puntuale articolo viene da pensare, Dio non voglia!, che l’interesse vero di alcuni non sia quello di “dare da mangiare agli affamati” ma quello di far “diminuire” la popolazione mondiale: quando non bastano le guerre, comunque scatenate, si ricorre alla fame!
Con la sua consueta chiarezza e andando come sempre al cuore del problema, Antonio Saltini ci fa comprendere il senso dello scontro sugli Ogm. Esso non ha nulla a che vedere con le preoccupazioni per la salute umana e per l’ambiente. Non attiene solo alla diffidenza nei confronti delle multinazionali. Il conflitto riguarda l’atteggiamento nei confronti della scienza complessivamente.
E la diatriba parte dall’India. Da una parte la visione aperta di Indira Gandhi verso la conoscenza occidentale per poter affrontare i drammatici problemi socio-economici del proprio paese e, dall’altra, l’odio verso la scienza e il rifiuto di utilizzare la conoscenza scientifica in agricoltura propugnati dalle tendenze neobraminiche rappresentate da Vandana Shiva, anche a costo di tornare alle condizioni di miseria del passato.
Solo chi ha senso storico può smascherare le ciarlatanerie e i fanatismi. Ma oggi viviamo un tempo in cui si ritiene che si possa fare a meno della memoria storica. E dunque prendono il sopravvento i maghi, gli astrologi e i sacerdoti di antiche credenze, i quali selezionano tra le notizie riguardanti il passato solo quelle che possano sostenere le proprie tesi.
Saltini ha il grande merito di aver scritto con rigore scientifico una monumentale “Storia delle scienze agrarie”, di cui ora si dispone anche di una versione inglese. Egli è, infatti, più letto all’estero che nel nostro paese. E il motivo di questo disinteresse risiede nel fatto che la conoscenza storica, qualora si diffondesse, demolirebbe convinzioni consolidate, luoghi comuni e illusioni, che noi per comodità e pigrizia non vogliamo mettere in discussione.
Mi auguro che Saltini continui a scrivere articoli come questi, per aiutarci a riflettere su fenomeni e problemi che solo in una visione di lunga durata si possono esaminare, cogliendo nel passato gli elementi in grado di aiutarci ad affrontare con ragionevoli speranze il futuro.
La domanda che sorge spontanea, grazie anche al bel commento di Alfonso Pascale, è ” cui prodest?”.Chi ha interesse a mentire e a tenere all’oscuro la maggior parte della popolazione sui vantaggi che un’agricoltura veramente al servizio dell’uomo porterebbe all’umanità? Non mi piace lo sport nazionale di cercare complotti e dietrologie, ma in questo caso “l’oscurantismo di ritorno”, rappresentato così bene da Vandana Shiva, osannata dai nostri politici, è sospetto!
Ringrazio l’autore (che non conoscevo) per questo punto di vista molto coinvolgente ed illuminante sulla figura di Vandana Shiva. Mi ha molto colpito il retroscena religioso di quella che ormai è una specie di icona ambientalista.
Alla quale va comunque il mio rispetto per aver sollevato con grande efficacia, soprattutto in occidente, il problema della drammatica riduzione di biodiversità cui il nostro ecosistema è affetto a ritmi esponenziali.
Non bisogna essere ambientalisti talebani quando si cerca di risolvere il problema della fame, ma non si può neanche evitare di porsi l’ovvia domanda.
Se per ridurre le carestie oggi, imponiamo a tutto il mondo le stesse 5 sementi, prima o poi un qualche patogeno riuscirà a colpirne una in modo devastante. E allora avremo una carestia che colpirà 1/5 della popolazione mondiale in blocco, finché la monsanto non troverà un nuovo patrimonio genetico resistente. Perché nel frattempo le altre specie saranno estinte.
Per risolvere una carestia oggi, potremmo generarne una immensa domani.
Scorrendo i commenti all’articolo, mi sono accorta, tardi, dell’osservazione di Paganelli, che mi sembra degna di risposta. Ritengo che sarebbe importante per l’Europa riavviare la ricerca. Il nostro continente, se così si può chiamare, ha le competenze scientifiche, le risorse in uomini e laboratori per mettersi in concorrenza con la famigerata Monsanto. Le novità, in tutti i campi, e anche i progressi nascono dalla concorrenza: chiamarci fuori non giova a nessuno. Lasciare il monopolio solo ad alcune multinazionali potrebbe davvero produrre una catastrofe come quella immaginata da Paganelli.