Ha lavorato per decenni al fianco di Brera a Il Giorno: è mancato a 91 anni
Lui ci metteva umanità, stile e soprattutto competenza tecnica, senza emotività e ricerca dell’epica: quella veniva da sé, sulle strade (e le piste) del ciclismo di Coppi e Bartali nel Dopoguerra, fino ai trionfi di Varenne. Pagine indimenticabili dello sport raccontate da Mario Fossati, morto a 91 anni domenica sera, 1° dicembre, a Milano nella sua casa del Sempione per un ictus. Fossati, legato da una lunga amicizia con Gianni Brera di cui caratterialmente era forse l’opposto, ha lavorato alla Gazzetta dello Sport dal 1945 al 1956. Al Giorno dal 1956 all’82 e poi a Repubblica fino al 2008. Nato a Monza il 29 settembre del 1922, Mario era cresciuto in una famiglia con pochi mezzi, anche a causa della militanza antifascista del padre. Ed era sopravvissuto alla campagna di Russia, finendo per occuparsi di ciclismo in Gazzetta quasi per caso: era vicino di casa di Fiorenzo Magni, il «terzo uomo» che lottava contro Fausto e Gino sulle strade del Giro e del Tour. Poi fu Brera, direttore della rosea, a mandare Fossati al seguito di Coppi: documentato e asciutto nella sua prosa, nacque in quegli anni lo stile di uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani di sempre. Grande amico anche di Ottavio Missoni, che aveva avuto il privilegio di vedere gareggiare all’Arena di Milano già prima della guerra, Fossati era rimasto molto provato dalla morte della moglie Cornelia lo scorso anno e in primavera da quella dell’amico stilista.
La notizia mi arriva dallo psicoterapeuta Fulvio Scaparro e suscita in me l’amarezza di aver solo sfiorato questo maestro di vita e di giornalismo a lungo componente del Cenacolo Missoni:
Cari amici, Mario Fossati, una delle migliori firme italiane dello sport, se ne è andato ieri. Fino a qualche anno fa, quando la salute ancora glielo consentiva, faceva spesso parte del tavolo Missoni al ristorante Boeucc.
Tai amava molto quest’uomo per le sue doti di onestà, semplicità, schiettezza e sincerità, per la mancanza di ogni forma di autocompiacimento malgrado la sua grandezza di giornalista e la forza d’animo dimostrata nel corso di una vita non priva di esperienze durissime e dolorose.
Io ricordo con grande affetto questo uomo del popolo fiero delle sue origini e ancora capace di esprimere con coraggio la sua indignazione di fronte all’arroganza di chi, senza alcun merito, deteneva il potere per mero tornaconto personale. La presenza di Mario Fossati è un vanto del tavolo Missoni e considero un onore averlo conosciuto.
L’amico Fulvio conclude con un articolo che Gianni Clerici ha scritto, con la sua consueta bravura, su Repubblica undici anni fa in occasione dell’80° compleanno di Mario.
Mario Fossati ha scritto ieri su questo giornale un articolo dedicato a Varenne. Un articolo di ippica?, chiederà il lettore occasionale. Nient’affatto. Un ritratto immortale che verrà letto tra cent’anni, quando un erede del nostro ipercavallo vincerà una gara su Marte, e un giovane scriba verrà inviato tra terrestri detriti a cercarne le origini. Che scriva di campioni issati sopra quattro fatati zoccoli, o di umani dannati a spingere pedivelle, o di Pelle e Oss brianzoli appesi su una voragine, Mario riesce regolarmente ad andare oltre la cronaca, pur mantenendo una precisione di dettaglio da orafo. Per festeggiare i suoi ottant’anni, il giornale mi ha chiesto un pezzo che io vorrei al suo livello, ma, con tutta la buona volontà, starà qualche spanna sotto. Anche perché sono privo del suo aiuto. Sapesse che sto scrivendo di lui Mario ancor più torcerebbe il suo nasuccio un po’ storto e un filo aquilino, incresperebbe le labbruzza ironiche: «Bravo, scriviamoci addosso, così facciamo ridere», commenterebbe. «E poi, chi si ricorda, di noi?».
Cinquemila articoli. Si ricordano, Mario. Magari ci confondono, come fa Bettiza, che sapendomi vagamente sportivo e del team Repubblica, mi fa l’altissimo onore di scambiarmi con te. Ma si ricordano in tanti, anche se tu non hai mai voluto ricucire i tuoi cinquemila – o più – articoli sul Giro e il Tour. Realizzando così quella sintesi di giornalismo rilegato che, forse, sarà riconosciuto in futuro come un genere letterario: chissà, i gusti e la miopia di certi critici e certi docenti universitari potrebbero cambiare. Come ti ho conosciuto, vecchio Mario, tu stavi alla “Gazza” che ancora faticava a tornare rosa, per la penuria di carta, subito dopo la guerra. C’eri andato, in Russia, con l’ottavo Fanteria, per uno spintone inflitto a un professore della seconda liceo. Perso lo status di studente, ti avevano subito arruolato. «Ben ti sta», ti aveva detto un padre esemplare, sindacalista cattolico dei popolari di Sturzo.
Accerchiato sul Don. Ho passato infinite sere, tra una tappa e l’altra del Giro, a sentirti raccontare storie che parevano nuovi capitoli de Il Sergente nella Neve, di Rigoni Stern. Accerchiati nella sacca sul Don per tre mesi, liberati dai tedeschi, ritirati sparandovi addosso con gli alleati rumeni. Ricordo che mi avevi detto come, di 14 amici dell’osteria Robbiati di Monza, tu fossi l’unico a ritornare. Non è solo fortuna. Ci vogliono anche qualità, per cavarsela. E immaginazione. Una volta che ti chiedevo se ti fossi rifugiato in montagna, nel ‘44, mi avevi risposto che il luogo più sicuro, per sfuggire alle retate, ti era parso San Siro. Ma certo, l’ippodromo, avevi confermato. Federico Tesio, il protoallenatore, aveva avuto garanzie che, almeno lì, i tedeschi non avrebbero messo naso, se non per scommettere. In quella zona franca, si incontravano gappisti, partigiani, ricercati. Né mancava il giovane Luchino Visconti, geniale nel dirigere cavalli, non meno di quanto sarebbe stato in seguito con gli attori. Finita la guerra, si erano dischiuse a metà le porte della Gazzetta. Collaborazioni, partite di Serie C. Fino all’arrivo di un tuo coetaneo, che già avevi sfiorato, cercando di intrufolarti tra i paracadutisti: Gianni Brera, giovanissimo direttore. In un mondo di tecnici che non sapevano scrivere, e di retori che ignoravano la tecnica, era penetrato un lampo di intelligenza, e di cultura.
La squadra di Brera. Retour de Paris, dove aveva studiato atletica, Brera aveva raccolto attorno a sé gente quale Gigi Gianoli, Giorgio Fattori, Gian Maria Dossena. Ti aveva mandato a studiare ciclismo, e avevi fatto in fretta. Ne avevi conosciuti tanti, e amati tanti. Gente coraggiosa, quei ciclisti, gente capace dell’umanità dei poveri. Tu, che ricco non eri, né mai saresti diventato, ti ci eri felicemente imbrancato. Ti stimavano. Vivevi con loro, rischiavi spesso la pelle con loro, giù dalle discese. Ricordo le mie prime esperienze, con l’autista Pep che piombava sulle curve sterrate in controsterzo, a cento l’ora: «Ti abituerai», mi avevi sorriso. «Certo, a Wimbledon è più tranquillo».
Un pungolo per Coppi. Tra tutti gli eroi della bicicletta, il prediletto non poteva essere che Coppi. Ormai che tutto è consegnato alla storia, si può addirittura dire che, in un Giro ormai destinato a Koblet, dopo un gentlemen agreement, Coppi sarebbe rimasto nel gruppo, se tu non l’avessi provocato, non l’avessi pungolato ad attaccare nuovamente, contro ogni patto, quello svizzero che, sopra i 1.500, diveniva simile a un cicloturista asmatico. Un pezzetto del Giro 1953 è anche tuo, vecchio Mario, anche se, con la tua fanatica onestà calvinista, non cessi di rimproverartelo. «Non è ancora nato il prete dal quale Fossati accetterà di confessarsi», mi disse una volta Gino Bartali. Di Coppi, potresti parlare sere e sere. Del magico cortile del massaggiatore cieco e benevolo stregone Cavanna, un luogo che attirò da pellegrino Anquetil, e lo spinse a esclamare, lui cinefilo: «Ma questo è il neorealismo!». Quando il grande Gioan raccolse i materiali per il libro su Coppi, le riunioni si svolgevano in tua compagnia, di fronte a una muta testimone, una stenografa pavese. Gianni amava dire che quel libro era anche tuo.
Il tappo spezzato. Era una bella squadra, la nostra del “Giorno”, nata non troppo a caso nel 1956: naufraghi di un folle settimanale, Sport Giallo, e transfughi, come te, della Gazza. C’erano, con Brera, il nostro dolcissimo capo Pilade Del Buono, e Pico della Mirandola ambulante, Giulio Signori. A loro raccontai una volta che, in una pausa di riposo del Giro, ti avevo acquistato il copione di Ricorda con rabbia, di John Osborne, il capocorrente dei Giovani Arrabbiati. Passa un giorno, passa l’altro: non accennavi minimamente al testo. Mi chiedevo se l’avessi letto, finché mi decisi a domandartelo. «Dilettanti», fu l’ironica risposta. Nel riferire l’aneddoto a Giulio Signori, ne ricevetti in cambio uno non meno indicativo del tuo carattere di Burbero Benefico. Arrivati alle Olimpiadi di Città del Messico eravate stati accolti, alla mensa, da uno studente travestito da cameriere, che aveva invano armeggiato intorno a una bottiglia di vino, sino a spezzarne il tappo. «Vogliono le Olimpiadi, e non sanno aprire una bottiglia», avevi digrignato. Il mattino seguente, come per miracolo, la prima colazione era stata servita in perfetta regola, con mirabile rapidità. «Vedi che migliorano», aveva osservato Signori. «È per mandarci via prima», avevi commentato. Ma ci vorrebbe una biografia, anche perché l’autobiografia non la scriveresti, nemmeno te la chiedessero. «A chi può interessare la vita di un vecchio cronista di sport, uno che avrebbe già dovuto piantarla lì da tempo, uno che presto la pianta davvero», mi hai detto una sera. Ti prego, vecchio Mario. Continua. Chi leggiamo, sennò? E tanti auguri. (Testo di Gianni Clerici per “Repubblica”, 29.9.2002)