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E se provassimo davvero a investire sulla cultura? Senza chiacchiere, senza la melassa retorica della cultura che è il nostro petrolio e che Paese straordinario è l’Italia e bla-bla-bla. Ripartendo dai fondamentali, musei archivi biblioteche e teatri funzionanti da quei basici servizi pubblici che sono, ma mettendo sul piatto un po’ di risorse, e magari usandole bene. Perché il problema italiano non è che mancano solo i soldi: mancano soprattutto le idee.

Cosa vedeva Ariosto, chiudendo gli occhi, quando si accingeva a raccontare una battaglia, un duello di cavalieri o il compimento di un prodigioso incantesimo? Quali libri e quali opere d’arte furono le muse del suo immaginario?
Dall’universo delle battaglie all’evocazione di un’elegante vita cortese, dalla fascinazione per i viaggi alle immagini di condottieri reali e leggendari, oltre ottanta opere, tra cui diversi capolavori del Rinascimento, sono riunite a Palazzo dei Diamanti, fino al 29 gennaio 2017, per dare vita ad un appuntamento irripetibile che rievoca il fantastico mondo cavalleresco di Orlando e dei paladini.

Due vicende di questi giorni nella Pianura Padana profonda danno ampia materia di riflessione. Uno è il gran successo della mostra, a Ferrara, per i cinquecento anni dell’Orlando furioso, questo capolavoro dei capolavori che ha portato davvero la fantasia al potere e l’uomo sulla Luna molto prima dei sessantottini e dell’Apollo 11. La mostra su quello che vedeva Ludovico Ariosto quando scriveva il gran poema, i quadri gli arazzi e le armi e le carte geografiche del Rinascimento più chic, risulta affascinante, non troppi pezzi ma tutti di gusto squisito almeno quanto il locale pasticcio di maccheroni (piatto del resto rinascimentale, quindi del tutto compatibile). Successo clamoroso, con code per entrare anche adesso, più di 80 mila visite già prima di Natale e la chiusura prorogata a furor di botteghino di tre settimane, dall’8 al 29 gennaio.

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Lugo di Romagna (Ravenna): Davide Ranalli, classe 1985, sindaco dal giugno 2014, nella cornice dello storico teatro Rossini: “Il Rossini di Lugo è il mio teatro alla Scala”.

Poi uno fa un po’ di strada (ferrata, e qui magari c’è ancora del lavoro da fare) e si sposta dall’altra parte del trattino, dall’Emilia alla Romagna, a Lugo, provincia di Ravenna, 32 mila abitanti. Dove un sindaco giovane, Davide Ranalli, ha fatto quello che sarebbe logico fare fosse fatto in tutta Italia e invece non si fa: ha raddoppiato il bilancio per la cultura. E, fra le altre cose, si è inventato un festival di musica barocca, Purtimiro (non è un rebus, è l’incipit del duetto finale dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, o di chi per lui, tuttora dopo 374 anni il brano musicale più erotico mai scritto), partendo dal presupposto che se attualmente il barocco strapiace in tutto il mondo non si capisce perché non debba piacere in Italia. Non è che abbia spostato delle folle da concerto rock, ma un po’ di gente sì, e probabilmente con disponibilità di spesa maggiore. E forse chi prima non sapeva neanche che Lugo esistesse o non l’avrebbe saputa collocare su una carta geografica adesso l’ha scoperta (è anche una cittadina carica, per inciso).

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Il sindaco di Lugo di Romagna, Davide Ranalli, figlio di operai, con alle sue spalle il maestro Rinaldo Alessandrini, direttore musicale di Purtimiro 2016. Il teatro Rossini è stato riaperto al pubblico il 3 dicembre 1986, dopo il restauro affidato all’architetto bolognese Pier Luigi Cervellati. Ranalli è stato eletto sindaco nel giugno 2014 con il 59,72% dei voti. (credit: lugonotizie.it)

Sono due esempi, non a caso entrambi di provincia. Ma proprio la provincia italiana dovrebbe essere la prima a scommettere sulla sua storia, le sue bellezze, l’incredibile varietà e ricchezza della sua architettura, della sua musica, della sua arte, del suo artigianato, del suo cibo, dei suoi musei. L’Italia è un paese di piccole capitali una più incredibile dell’altra, un paradosso vivente fatta di città da niente dove si è fatta la storia culturale del mondo. Pensate a Ferrara, appunto, oppure Urbino o Mantova o Siena o a quel che vi pare, l’elenco è lunghissimo. Non si tratta di spendere o di spandere, ma di investire. Con ritorni garantiti: nel presente, di un maggior indotto turistico; nel futuro, di un maggior indotto di civiltà. Gli Este di certo non ci avranno mai pensato, ma se oggi la gente si mette in fila fiori da Palazzo dei Diamanti è perché loro compravano i quadri giusti e passavano uno stipendio a messer Ludovico. Non ci vuole Einstein per capirlo. Da sempre, la cultura è l’affare migliore che esista.

* Fonte: La Stampa, 29.12.2016. Il quotidiano di Torino nasce come Gazzetta Piemontese, con il sottotitolo “frangar non flectar” (mi spezzo, non mi piego), il 9 febbraio 1867. Ne è direttore il commediografo Vittorio Bersezio, comproprietario e condirettore Casimiro Favale che, nel 1880, cede direzione e proprietà al deputato torinese Luigi Roux al quale si affianca, nel 1895, come condirettore e comproprietario Alfredo Frassati, uno dei padri del giornalismo italiano. Le sue azioni, quando sarà costretto dal fascismo a farsi da parte, saranno riscattate nel 1926 dalla Fiat di Giovanni Agnelli. Dopo la seconda guerra mondiale, La Stampa torna a occupare il ruolo di giornale liberal, con direzioni prestigiose. Dopo Filippo Burzio e Giulio De Benedetti è la volta di Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Giorgio Fattori e Gaetano Scardocchia. Seguiranno Paolo Mieli, Ezio Mauro, Carlo Rossella, Marcello Sorgi, Giulio Anselmi. Nel 2009, con l’inizio della direzione di Mario Calabresi, prende il via un profondo processo digitale che sfocia, nel 2012, nel trasloco in una redazione innovativa pensata per le esigenze del giornalismo multipiattaforma. Dal 1° gennaio 2016 Maurizio Molinari subentra nella direzione a Calabresi, passato a dirigere la Repubblica.