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La copertina di WWD, la Bibbia della moda americana, dedicata allo stilista Kean Etro e illustrata con un’elaborazione digitale di Giacomo Giannella / Streamcolors

Giugno è il mese in cui nel mondo chi veste alla moda guarda alle sfilate italiane per sapere che cosa dovrà indossare. A giugno Firenze ha ospitato Pitti Immagine, seguita a pochi giorni di distanza da Milano Moda.

Ma non lasciatevi ingannare dall’incedere impettito di certe stampelle umane con le guance scavate: benché lo stile italiano continui ad attirare compratori da tutto il mondo (a Hong Kong, la brava console Alessandra Schiavo mi ha annunciato che l’Italia nel 2013 ha conquistato lì il primato delle esportazioni, grazie al tridente moda-alimentari-alta tecnologia, Ndr), sotto le passerelle le fondamenta dell’industria italiana dell’abbigliamento e degli accessori tremano.
“Nel giro di una generazione l’etichetta made in Italy rischia di sparire”, afferma lo stilista Ermanno Scervino. Pur essendo sopravvissuta relativamente indenne alla crisi economica del paese, l’industria italiana della moda rischia di estinguersi. Per un motivo molto semplice: è sempre più difficile convincere i giovani italiani a lavorare in questo settore. Dietro i raffinati capi in vendita nelle boutique Scervino di Londra, Mosca e Tokyo c’è una vasta gamma di competenze artigianali (realizzazione dei modelli, taglio, cucito, ricamo, maglieria) che trasformano le idee in capi finiti. Cucire a mano decine di rombi di chiffon nero per un abito da sera richiede pazienza, un’ottima vista e una destrezza manuale che si ottiene solo facendo molta pratica. Molti dei dipendenti dell’atelier Scervino, vicino a Firenze, sono ormai di mezza età e hanno acquisito le loro competenze in casa o presso uno dei piccoli laboratori di sartoria e camiceria che un tempo abbondavano nelle città italiane. Ora che questi dipendenti si avviano alla pensione non si sa chi prenderà il loro posto.

I timori di Scervino assillano anche le aziende che fabbricano cinture, borse e portafogli in pelle dando lavoro a circa dodicimila persone a Firenze e dintorni. Gianfranco Lotti, che produce borse con il suo nome e per un marchio del lusso, incarna una tradizione fiorentina ormai perduta. Lotti ha quasi 70 anni e ha imparato a fare borse completamente a mano a 14 anni come apprendista. Ora il lavoro puramente artigianale è stato sostituito dalla produzione meccanizzata, ma anche in questa situazione certe competenze servono ancora e il costo della loro trasmissione è fuori dalla portata di molte aziende.

Uno stipendio dignitoso. “La perdita di competenze è drammatica”, dice Franco Baccani, capo della B&G che produce borse per marchi come Gucci e Cartier. Anche se oggi alcune lavorazioni sono meccanizzate, la B&G continua ad avere bisogno di persone competenti per selezionare i pellami, tagliarli, prepararli e cucire le varie parti che compongono una borsa. Un problema che riguarda anche i produttori di calzature. Nella Marche circa il 60% dei 700 dipendenti della Tod’s possiede elevate competenze tecniche, ma anche se lo stipendio e le condizioni di lavoro sono buone e l’apprendistato dei giovani è sovvenzionato con fondi pubblici, la Tod’s ha difficoltà a sostituire i dipendenti che vanno in pensione. Visto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è del 35%, e che un giovane tagliatore di pellami appena assunto guadagna circa 18mila euro all’anno, le case di moda dovrebbero essere assediate dalle richieste di assunzione. Ma gli italiani, come succede in altri paesi ricchi, tendono a guardare dall’alto in basso il lavoro manuale, anche quello altamente qualificato, e le famiglie preferiscono indirizzare i figli verso le libere professioni o il pubblico impiego. Inoltre il sistema scolastico prepara poco alla vita lavorativa.

Dal 2006 l’industria tessile e dell’abbigliamento italiana ha perso circa 86mila posti di lavoro. Anche nel settore calzaturiero l’occupazione si è molto ridotta a vantaggio di paesi dove la manodopera costa meno.

Oggi ci sono aziende che cercano di sottrarre ai concorrenti i pochi artigiani presenti sul mercato. Quindi chi ha determinate competenze può essere assunto con un buono stipendio. Ma i sindacati non hanno saputo far passare questo messaggio. Alcune aziende cercano cucitrici e maglieriste specializzate all’estero. Altre fanno realizzare parte del lavoro di cucito all’estero e prima di finire il prodotto in Italia attaccano l’etichetta made in Italy. Così si rischia di offuscare la reputazione della qualità italiana, ma se le aziende non convinceranno i giovani a lavorare per loro, questo potrebbe essere l’unico modo per restare sul mercato. (ma)

the economist* Fonte: The Economist

Fondato nel 1843 da un modista scozzese, il settimanale londinese ha ormai acquisito in tutto il mondo l’autorevolezza e la reputazione di una Bibbia. Posseduto al 50 per cento dal Financial Times, è noto per il suo orientamento liberale, non solo in economia ma anche nelle questioni sociali, vedi il suo impegno per la proibizione della pena di morte, per il matrimonio gay e la legalizzazione delle droghe. Stampato in sei nazioni diverse, l’Economist vende l’85% delle sue copie fuori dal Regno Unito. Le varie versioni internazionali del settimanale – britannica, europea, nordamericana e asiatica – si distinguono l’uno dall’altra per le copertine e alcuni contenuti, ma non per gli editoriali. Sin dal suo lancio, gli articoli pubblicati sull’Economist non sono mai firmati. Come il magazine, anche il sito economist.com si caratterizza per la sua sobrietà. Il settimanale Internazionale pubblica i suoi articoli in esclusiva per l’Italia.