Il 20 aprile del 2013 dalle urne delle due Camere, riunite per la votazione, venne fuori un risultato inedito nella storia della nostra Repubblica, nata nel 1948: Giorgio Napolitano fu eletto capo dello Stato, per la seconda volta consecutiva, con 738 voti. Dopo sette anni al Quirinale, e a 87 anni, lui aveva espresso più volte il desiderio di lasciarsi alle spalle una presidenza difficile. Ma il suo orizzonte venne disegnato in maniera diversa la mattina di quel 20 aprile quando i leader delle maggiori forze politiche raggiunsero il Colle per chiedere a Napolitano di restare. E lui accettò, con una precisazione: il suo è un mandato “a termine”, come ha ribadito in una lettera al direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, in occasione del primo anniversario del nuovo mandato.
Mi associo ai tanti che ringraziano il presidente per essere un solido e condiviso punto di riferimento e ripristino, per l’occasione, un ricordo particolare: quello della giornata in cui, nel maggio 2010, il mio maestro Tonino Guerra, salì al Colle per ritirare il premio David di Donatello per la sue grandi sceneggiature di una vita conclusa il 21 marzo 2012. Ne parlai con Sergio Zavoli, curatore di una felice rubrica sul Quotidiano nazionale (Il Giorno – il Resto del Carlino – La Nazione) che così raccontò quell’incontro, con parole e idee che aprono la mente. (s.g.)
Dell’incontro del poeta e sceneggiatore Tonino Guerra con il presidente Napolitano in occasione del ricevimento al Quirinale dei vincitori del David di Donatello si è avuta un`eco sommaria, distratta, addirittura il silenzio. Ed è un peccato avere perduto, faccio un esempio, ciò che Guerra ha detto pronunciando il suo «grazie» al capo dello Stato: parole con il sapore, la leggerezza, ma anche la sottesa profondità delle sue invenzioni. Mi è parso che da parte nostra, di noi giornalisti specie radiotelevisivi – ci si sia privati di un`occasione per rendere un buon servizio alla qualità di un`informazione sempre più dedita all'”odore sventurato del sangue” e sempre meno alla normalità, un valore quasi espulso dalla nostra rappresentazione dell`esistenza. Devo ai racconti di un testimone, Salvatore Giannella, se sono in grado di ripetere qui, tratti dall’estemporaneità di Tonino, alcuni passaggi del discorso indirizzato a Napolitano, fatto di tante schegge della sua particolarissima immaginazione. A cominciare proprio dall’incipit:
QUALCHE BIGOTTO delle forme, privo di ironia, e dal pensiero breve, penserà a una sorta di intemperanza l`aver richiamato la figura alta, affilata del Presidente riconducendola a un obelisco dall’ombra lunga, ignorando la metafora civile di quell’accostamento, la garanzia implicita in quell’immagine, la sua qualità rassicurante.
In occasione della consegna dei David Tonino Guerra ha parlato dell`indifferenza, pressoché generale, verso la cultura. Non solo oggi: «Fellini, negli ultimi quattro anni della sua vita, non è riuscito a trovare il denaro per realizzare un film, chissà se non il suo più grande! Io ho fatto la fame, a Roma, per dieci anni… Certo, bisogna protestare, ma secondo me non urlando. Qualche giorno fa sono venuti a parlarmi degli operai, persone che stanno vivendo un periodo di sofferenza. Mi hanno chiesto un consiglio e ho detto loro: “Sarebbe bello se tutti gli operai riempissero una enorme piazza e rimanessero in silenzio; perché il silenzio è il più grande urlo di protesta che si possa alzare”.
PIÙ TARDI confiderà: «Io faccio la mia piccola parte parlando con i sindaci della mia vallata. Dico loro: Per favore, togliete dai paesi le finestre anodizzate, l`illuminazione al neon, le insegne una più vistosa dell`altra, le sedie di plastica, andate a vedere come sono le trattorie sottratte alla stupidità, guardate come sono i muri, i tetti, quelli bruni e un po` sghembi di una volta, senza inserirvi il rosso squillante della tegola nuova, che distrugge l`immagine calma e preziosa della loro età, usino le tegole e i coppi delle case abbandonate». Possono sembrare nostalgie crepuscolari, ma la dignità di un paese passa anche per la salvezza dei valori comuni, e poi del paesaggio, delle buone abitudini rinnegate, mentre si imbrattano le facciate e si lasciano andare persino i segni di una realtà semplice e utile come le panchine… «Io faccio lezioni in una scuola di Mosca. Mia moglie Lora è russa. Nell’ultima lezione ho parlato della differenza tra guardare e vedere: e per spiegare con semplicità ho raccontato che, dieci giorni prima di arrivare a Mosca, in automobile attraversavamo la campagna. A un certo punto mi ha colpito un particolare, se volete, da niente. Ho chiesto all’autista di fermarsi e sono andato proprio verso una panchina, una panchina di metallo, tutta coperta di muschio. Quella coltre verde diceva che la panchina non serviva più a nessuno, in un certo senso era senza vita perché non interessava né ai vecchi né ai giovani. Allora mi sono seduto sulla panchina perché si sentisse ancora utile, per farla lavorare, per tirarla fuori dalla solitudine e dalla rassegnazione. In quel momento io non stavo guardando, ma vedendo e capendo in profondità quella panchina… E adesso basta con queste cose che forse, potreste dirmi, vanno lasciate morire in pace…».
TONINO aveva raccontato altre cose, e tutti erano molto emozionati. L`informazione occupatasi di quella giornata, tranne alcune eccezioni (compreso anche questo giornale) ha riferito che Tonino Guerra aveva raccontato «qualche episodio divertente della sua vita». Una giornata ricca di idee, riflessioni, giudizi, e di semplici, nutrienti visioni dell`esistenza, ridotta a qualche spiritosaggine. In un tempo che ci vede comunicare, senza tregua, motivi di sconcerto, disamore e paura, la schiarita portata da un poeta che, di metafora in metafora, dice più cose di tanta cultura dei «quartieri alti» con immagini che non evocano solo disgrazie, poteva essere l`occasione per soffermarci su quel po` di normalità che ancora ci passa davanti agli occhi. ()