Prosegue e si conclude la pubblicazione dell’inchiesta di Vittorio Emiliani, giornalista e scrittore, sul Ministero dei beni culturali e paesaggistici da ricostruire. Nelle puntate precedenti (link) questi sono stati i titoli dei capitoli: L’irrisolto rapporto con le Regioni; Il pasticcio del Titolo V della Costituzione; Da Urbani in qua sterilizzato il Consiglio Nazionale; Ricostituire una catena di comando. Il peso delle Direzione regionali… e dei Poli museali col “Mostrificio”; Soldi solo per le mostre. I Musei? Sbarrati; Meno risorse, meno tutele anche nelle urgenze.

In questa terza puntata l’obiettivo è puntato sull’impoverimento dei quadri tecnici; Le forze in campo del Ministero; Giostra di capolavori in giro per il mondo; Il lungo sonno dei Piani paesaggistici; Un accoppiamento poco giudizioso; E ora c’è il turismo… (s.g.)

La copertina del libro di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano “No Sprawl” (Alinea 2006).

La copertina del libro di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano “No Sprawl” (Alinea 2006).

L’impoverimento dei quadri tecnici. Parallelamente a quanto già descritto nelle prime due puntate, abbiamo assistito al deciso impoverimento dei quadri tecnici rispetto alle necessità dei restauri e delle stesse manutenzioni ordinarie. Proprio mentre tali necessità crescevano col montare del turismo culturale (che ormai rappresenta oltre un terzo dell’intero movimento turistico). Proprio mentre, come ho già rimarcato, lo sviluppo edilizio si faceva intensissimo: nel periodo 2000-2008 i Comuni, privati di continuo di risorse un tempo trasferite dal centro, hanno spinto l’acceleratore sull’edilizia per lucrare, del tutto temporaneamente, oneri di urbanizzazione con i quali tamponare le falle dei loro bilanci, della loro spesa corrente (cosa che la citata legge n. 10 Bucalossi del ’77 vietava espressamente).

I nuovi permessi di costruzione sono stati ingentissimi, specie in regioni già ampiamente cementificate e dal patrimonio storico-artistico-paesaggistico formidabile: parlo di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dove il consumo di suolo e quindi di paesaggio ha raggiunto vette impressionanti. Assolutamente fuori scala rispetto a Paesi altamente sviluppati quali Germania (dove vige una legge Merkel che disciplina efficacemente la materia) e il Regno Unito (dove il governo Blair ha posto limiti severi alle Brown belts in rapporto alle Green belts). Come hanno fra i primi documentato Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano nel volume “No Sprawl” (Alinea 2006). Nel contempo le nostre Soprintendenze ai Beni architettonici, e quelle ai beni archeologici, hanno avuto sempre meno denari per missioni e controlli nei cantieri e sul campo, per l’istruzione delle pratiche, per il rilascio o la negazione di autorizzazioni. Con ingorghi di carte pazzeschi e con ritardi decisionali gravi. Per i Comuni, per le imprese e per i privati, ma anche a danno dell’interesse generale a tutelare paesaggio e territorio, siti archeologici preesistenti e nuove scoperte. A un certo punto si è vietato agli ispettori l’uso dei mezzi propri per raggiungere i cantieri o gli scavi, consentendo, in pratica, in assenza di mezzi delle Soprintendenze, la bicicletta, l’autobus o la camminata a piedi, in zone periferiche o di aperta campagna, magari impervie. Col solo risultato, esiziale, di diradare i controlli diretti.

Un complesso di situazioni negative che: a) allunga tempi e aumenta costi ; b) penalizza privati e imprese serie; c) avvantaggia furbi e furbastri. E’ sempre meno possibile ormai realizzare una efficace conservazione e gestione, una tutela attiva in modo capillare e anche un rapporto trasparente coi privati. Nonché la repressione di abusi al contrario sempre più diffusi e massicci, collegabili alla potente rete della malavita organizzata. Un altro problema aperto, apertissimo è quello dei rapporti con i privati, del quale si parla ormai come della panacea di tutti i mali endemici dell’amministrazione dei beni culturali (ora si arriva a proporre interi Musei, come Brera, gestiti da Fondazioni a maggioranza privatistica, o la stessa città di Pompei). Qui bisogna distinguere con grande chiarezza fra:

  1. David Packard, figlio del cofondatore del colosso dell’informatica e presidente del Packard Humanities Institute, mecenate di Ercolano

    David Packard, figlio del cofondatore del colosso dell’informatica e presidente del Packard Humanities Institute, mecenate di Ercolano

     

     

    veri mecenati (rarissimi) alla maniera di Ercolano dove il grande informatico americano David Packard, figlio del cofondatore del colosso dell’informatica e presidente del Packard Humanities Institute, finanzia progetti utilissimi senza chiedere alcun ritorno d’immagine, senza voler nemmeno essere citato o dei giapponesi (praticamente ignoti) che hanno fornito i fondi per il restauro della Piramide Cestia a Roma;

  2. sponsor con ampio ritorno d’immagine come Diego Della Valle per il Colosseo, ad esempio, sul quale anni fa la Banca di Roma investì una cifra non molto inferiore a quella proposta dall’industriale marchigiano (43 miliardi di lire contro i 25 milioni di euro attuali) senza chiedere praticamente che un cartello che indicasse la fonte di quei grandi lavori;
  3. proprietari di dimore e di giardini storici per i quali il solo momento felice è stato quello della legge n. 510/1982, con detrazione secca al 27%, purtroppo sterilizzata, in modo miope, dalle manovre Ciampi e Amato. Una legge che, a mio sommesso avviso, andrebbe rivitalizzata anche perché mobilitò in pochi anni 350 miliardi di lire di investimenti privati restituendo al fisco 147 lire ogni 100 lire di mancato incasso temporaneo.

 

Un'immagine di Diego Della Valle al Colosseo, da lui adottato

Un’immagine di Diego Della Valle al Colosseo, da lui adottato

Sbagliatissima mi sembra l’idea di creare Fondazioni coi privati in maggioranza per gestire i musei. Mi ha detto a proposito il direttore di un grande museo americano: “Da noi i privati entrano per metterci soldi loro. Se da voi invece entrano credendo di poter prendere soldi dalla gestione del museo, è come infilare una volpe nel pollaio…”

Non a caso a un appello contro tale ipotesi, molto “milanese”, per la sostanziale privatizzazione della Grande Brera (che certamente abbisogna di interventi radicali) hanno aderito senza neppure venire sollecitati il conservatore in capo del Grand Louvre Catherine Loisel, il direttore per la parte antica della National Gallery di Washington, Jonathan Bober e l’importante storica dell’arte inglese Jennifer Montagu che ha definito il progetto “vergognoso e rovinoso”.
Le forze in campo del Ministero. Il MiBAC attualmente può contare su:

  • 368 archeologi per circa 2.100 fra aree e siti archeologici, di cui 734 statali (quindi mezzo archeologo per ognuna delle sole aree statali), escluse le Regioni a statuto speciale, sulla Sicilia ho già detto;
  • 445 storici dell’arte (i soli Musei statali sono oltre 460), poi c’è l’attività di tutela da esercitare sul patrimonio, pubblico, privato, ecclesiastico, ecc.
  • 562 architetti a fronte di milioni di pratiche edilizie e ambientali le più diverse, delicate e complesse da inquadrare negli strumenti urbanistici e paesaggistici vigenti. L’ex segretario generale del MiBAC, Roberto Cecchi, ha reso pubblico il dato-limite per la Soprintendenza ai Beni architettonici di Milano di 79 pratiche al giorno per ogni tecnico di quell’organismo. Anni fa avevamo calcolato, ed erano già insostenibili, una media di 5-10 pratiche al giorno a testa nei duecento giorni lavorativi. Una evidente situazione di impotenza o di autentica follia. Bisogna dunque intervenire, al più presto e molto incisivamente, sulla struttura di un Ministero “di patrimonio” (come più volte la definì un direttore generale come Mario Serio, mai abbastanza rimpianto) che è stata assurdamente gonfiata al centro e disastrosamente impoverita nelle articolazioni territoriali.
  • 676 archivisti e 978 bibliotecari per un patrimonio immenso. Abbiamo infatti 100 archivi di Stato, un Archivio centrale dello Stato con 34 sezioni, 8.250 archivi di enti pubblici e territoriali (la gran parte comunali), 50.000 archivi di Università, Camere di Commercio, istituzioni culturali, ecc., 4.261 archivi privati “vigilati” (famiglie patrizie, imprese, partiti, ecc.). Più la marea di archivi parrocchiali, vescovili, diocesani, ecc. I soli Archivi dello Stato allineano 1.604 chilometri di scaffalature, con 1 milione di pezzi consultati all’anno da parte di 291.245 utenti dei quali 11.200 stranieri. Potrebbero essere ovviamente molti di più se questa branca dei Beni culturali (inquadrata nel Ministero dell’Interno fino al 1975, quando fu creato da Giovanni Spadolini il Ministero per i beni culturali e ambientali) non versasse in una situazione di indigenza desolante.

Alla fine del 2012 l’Amministrazione degli archivi poteva contare, in tutto, su 2.761 addetti di cui 365 archivisti di Stato-direttori coordinatori. Il solo Royal National Archive di Londra vanta 530 unità di personale di cui 90 archivisti. Fra l’altro, l’80 per cento del nostro personale archivistico è ormai prossimo alla pensione. Senza concorsi, nei preziosi archivi italiani si farà presto il deserto: già oggi – denunciano i suoi dirigenti – vi sono 13 Archivi di Stato (fra i quali Belluno, Brescia, Forlì, Treviso, Caltanissetta) che “non hanno neppure un Archivista di Stato in servizio”. Clamoroso. Non basta: l’Archivio di Stato di Bologna, sede del più antico Ateneo d’Europa, entro tre anni perderà 5 dei suoi 10 preziosi archivisti.

Il patrimonio documentario dell'Archivio di Stato di Bologna è costituito da oltre 5.000 fondi archivistici, per un totale di circa 250.000 pezzi, che testimoniano un millennio di storia della città e del suo territorio, dal X al XX secolo.

Il patrimonio documentario dell’Archivio di Stato di Bologna è costituito da oltre 5.000 fondi archivistici, per un totale di circa 250.000 pezzi, che testimoniano un millennio di storia della città e del suo territorio, dal X al XX secolo.

Per questi nostri formidabili archivi (quelli musicali sono anche messi peggio) non si possono invocare né la “messa a reddito”, né la privatizzazione. Non c’è che l’intervento pubblico. Analogamente per le biblioteche: quelle statali sono 46, le nazionali centrali risultano due (Firenze e Roma). Con 197.554 volumi manoscritti e oltre 24 milioni di volumi stampati (dei quali più di 30.000 incunaboli e quasi 332.000 “cinquecentine”). Il Servizio bibliotecario nazionale ricomprende 4.595 biblioteche, con quasi 12 milioni di titoli, 59 milioni di “indicazioni di reperibilità presso biblioteche” e oltre 51 milioni di ricerche bibliografiche on line. In totale, fra pubbliche e private, le biblioteche censite risultano 12.609 di cui 2.142 in Lombardia, 1.202 nel Lazio e oltre mille in Piemonte ed Emilia-Romagna. Gli amministrativi del MiBAC risultano 4.407; custodi e ausiliari meno di 9.000. Tutti in costante calo, ovviamente. L’età media dei dipendenti (21.242 nel 2010) è decisamente elevata: 52 anni. Quella dei tecnici è anche più alta, sui 55 anni.

La Madonna di Senigallia [1] è un dipinto, olio su carta riportata su tavola di noce[2] (61x53,5 cm), realizzato dal pittore Piero della Francesca e conservato nella Galleria Nazionale delle Marche. La datazione è molto incerta, oscillante tra il 1470 e il 1485, e il nome dell'opera deriva dalla collocazione più antica conosciuta, la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Senigallia.

La Madonna di Senigallia, realizzato dal pittore Piero della Francesca e conservato nella Galleria Nazionale delle Marche. La datazione è molto incerta, oscillante tra il 1470 e il 1485, e il nome dell’opera deriva dalla collocazione più antica conosciuta, la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Senigallia.

Giostra di capolavori in giro per il mondo. Ho parlato prima del “mostrificio”. A esso si accompagna una sempre maggiore rilassatezza nei comportamenti che chiamerei “accattonaggio di Stato”. Negli ultimi anni inoltre ci sono tele e tavole del ‘400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone, dopo la famosa mostra sui capolavori del Rinascimento, è andata, con altri fragili Raffaello (oltre una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, per restaurarlo. Forniti per l’appunto dai giapponesi. Del resto si è ripreso ad affermare con iattanza che “i Beni culturali sono il nostro petrolio” e che bisogna sfruttarlo questo benedetto petrolio, tutto italiano. Affermazione accompagnata dalla vecchia balla secondo la quale possederemmo il 50 o addirittura il 70-75 % del patrimonio mondiale di beni culturali. Sciocchezza attribuita lungamente all’Unesco e dall’Unesco più volte seccamente smentita. Ma che continua a girare e a venire ripetuta a pappagallo.

Una commissione di esperti creata pochi anni or sono da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti di tavole, tele, sculture, ecc. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri “petrolieri” dell’arte. Gli stessi che reclamano la chiusura di un museo di provincia se fa pochi ingressi. O l’affidamento ai privati, FAI in testa, dell’intera area di Pompei, se la struttura pubblica non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra. Ora il ministro Bray ha cominciato a dire assennatamente dei “no” molto chiari: per esempio alla trasferta in Israele di un affresco staccato di Botticelli. Ma il sindaco di Roma, Ignazio Marino, peraltro agli esordi, ha pericolosamente ripreso l’idea consunta e insensata dell’ex soprintendente capitolino Umberto Broccoli di affittare all’estero opere confinate nei depositi.

La Città ideale è un dipinto tempera su tavola (67,5x239,5 cm) di autore ignoto, databile tra il 1480 e il 1490 e conservato nella Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. L'opera, una delle immagini simbolo del Rinascimento italiano, vide la luce alla raffinata corte urbinate di Federico da Montefeltro ed è stata alternamente attribuita a molti degli artisti che vi gravitarono attorno: tra i nomi proposti ci sono Piero della Francesca, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini. Altri studiosi sono propensi ad attribuire l'opera all'ambiente della Firenze laurenziana ed alla riflessione in corso intorno all’opera di Vitruvio, individuando l'autore in Giuliano da Sangallo[1] e nella sua scuola[2], arrivando a ipotizzare una collaborazione di Botticelli[3]. Non mancano attribuzioni anche a Leon Battista Alberti, del quale sarebbe l'unica prova pittorica[4].

La Città ideale è un dipinto tempera su tavola di autore ignoto, databile tra il 1480 e il 1490 e conservato nella Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. L’opera, una delle immagini simbolo del Rinascimento italiano, vide la luce alla raffinata corte urbinate di Federico da Montefeltro ed è stata alternamente attribuita a molti degli artisti che vi gravitarono attorno: tra i nomi proposti ci sono Piero della Francesca, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini. Altri studiosi sono propensi ad attribuire l’opera all’ambiente della Firenze laurenziana ed alla riflessione in corso intorno all’opera di Vitruvio, individuando l’autore in Giuliano da Sangallo e nella sua scuola, arrivando a ipotizzare una collaborazione di Botticelli. Non mancano attribuzioni anche a Leon Battista Alberti, del quale sarebbe l’unica prova pittorica.

Il lungo sonno dei Piani paesaggistici. Ministero e Regioni, in base al Codice Urbani/Rutelli, dovrebbero co-pianificare e in tal modo difendere il paesaggio, ridurre drasticamente il consumo (pazzesco) di suolo e altro. Ma pochissime Regioni di adeguano, molte Regioni riluttano, come già fecero con la legge Galasso del 1985. E il fresco disegno di legge governativo sul consumo di suolo, che ricalca le linee del precedente disegno di legge del ministro Catania, prevede che questa materia venga sottratta al MiBAC e trasferita al Ministero per le Politiche Agricole, anzi a un suo Comitato agro-alimentare. “La Valle d’Itria insieme alle orecchiette”, ha commentato sarcasticamente l’urbanista Vezio De Lucia. A proposito di Beni culturali e paesaggistici si parla quasi sempre, in modo ossessivo, di risorse da reperire, di privati da sollecitare quali sponsor e mecenati. Non si parla mai o quasi mai di questa co-pianificazione che non ha costi di rilievo e che consentirebbe, in tempi rapidi, economie di suolo, di territorio, di paesaggio, ridurrebbe l’area vasta della illegalità, insomma concorrerebbe alla salvezza vera del Belpaese e del suo immenso patrimonio contenuto nel “palinsesto millenario” dei paesaggi italiani.

Il complesso di situazioni negative sopradescritto:

  1. allunga in modo palese i tempi e aumenta i costi;
  2. penalizza i privati onesti e le imprese serie;
  3. avvantaggia i furbi e i furbastri.

E’ sempre meno possibile ormai realizzare una efficace conservazione e gestione, una tutela attiva in modo capillare e anche un rapporto trasparente coi privati reprimendo abusi divenuti ovviamente sempre più diffusi e massicci, riconducibili spesso, specie nel Sud, alla potente rete della malavita organizzata. Secondo l’accertamento condotto su dati ufficiali da Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, alla data del 19 giugno 2012, la sola Regione Sardegna (Giunta Soru) aveva redatto e approvato, sia pure di propria iniziativa, piani paesaggistici prima per le coste e poi per l’interno (ora in fase di smantellamento peraltro da parte della Giunta Cappellacci). La Regione Abruzzo aveva firmato protocollo col Ministero nel 2009 senza però convocare riunioni. La Regione Basilicata risultava aver firmato protocollo soltanto nel 2011 per iniziare l’attività di co-pianificazione. La Regione Calabria dava “avvio formale alle attività di co-pianificazione con la seduta del 25 giugno 2012”. Alla Regione Campania, firmato il 6 dicembre 2010 protocollo e disciplinare per i soli beni paesaggistici, risultava “in atto la co-pianificazione”. Alla Regione Emilia-Romagna si stava elaborando una bozza aggiornata di protocollo e di disciplinare. Alla Regione Friuli-Venezia Giulia l’attività di co-pianificazione era stata svolta fino al maggio 2008, ma “con le elezioni regionali tale attività è stata interrotta”, la materia va aggiornata. Alla Regione Lazio – che aveva approvato un piano casa criticatissimo – era “in atto il tavolo di co-pianificazione”. Alla Regione Liguria si era ancora alla fase di un nuovo protocollo e disciplinare. La Lombardia risultava aver approvato un proprio piano “senza attivare co-pianificazione”. Si era in attesa di una richiesta in tal senso dalla Regione. Nelle Marche vi è stata collaborazione Regione-MiBAC per la ricognizione dei beni paesaggistici ed “è iniziato il lavoro del Comitato tecnico”. In Molise invece “non risulta alcuna iniziativa della Regione per attivare la co-pianificazione”. In Piemonte, al contrario, è in atto una collaborazione fra Regione, Direzione regionale e Soprintendenze che stanno ufficializzando “osservazioni e proposte”. In Puglia la co-pianificazione risulta in atto con osservazioni e proposte. Della Sardegna si è detto all’inizio. In Toscana, dopo l’approvazione nel 2007 di un discusso e vago Piano di Indirizzo Territoriale (PIT), il tavolo di co-pianificazione è in atto dal 30 marzo 2011 con una nuova Giunta e un nuovo assessore all’Urbanistica. In Umbria il protocollo è stato firmato il 7 dicembre 2010 e risulta in atto la co-pianificazione. Analogamente nel Veneto. Nulla dice il resoconto ministeriale della Regione Sicilia che gode di una speciale autonomia e che si era già mostrata ampiamente inadempiente agli obblighi di legge nel 1985 ai tempi della Galasso.
Un accoppiamento poco giudizioso. Ci sarebbe un altro grande discorso da aprire. Lo faccio brevemente. Il discorso cioè sulla utilità reale, sulla funzionalità dell’accorpamento del cinema, della musica, dello spettacolo dal vivo ai Beni Culturali. Personalmente continuo a pensare che fosse giusta la definizione varata da Spadolini di Beni Culturali e Ambientali e che l’accorpamento con cinema e spettacolo dal vivo – che aveva un tempo una cospicua dotazione finanziaria e che ha sempre avuto una connotazione “politica” molto più forte dell’antica Direzione generale delle Antichità e delle Belle Arti – abbia immesso nel MiBAC logiche e dinamiche distorte e dissonanti. Ma è un’opinione, credo, molto personale.

E’ un dato storico comunque che il direttore generale dello Spettacolo di un tempo (ad esempio Carmelo Rocca) avesse, all’epoca, molto più potere del coevo direttore generale dei Beni Culturali (ad esempio Francesco Sisinni), perché più contiguo al potere, all’esecutivo, e perché dotato di ben più ampia discrezionalità, politica e personale, nella suddivisione dei fondi del ricco FUS, allora sugli 800 miliardi di lire. Del resto lo spettacolo ha ben altro peso e appeal politico-clientelare, diciamolo. Dai tempi del Minculpop o da quelli di Giulio Andreotti sottosegretario con Alcide De Gasperi alla presidenza del Consiglio.

Il ministro Massimo Bray ha positivamente avviato un processo di dimagramento e di riforma strutturale delle Fondazioni musicali: via gli accordi integrativi, pesantissimi, riduzione fino al 50% del personale burocratico (su quello tecnico, di scena, avrei dei dubbi), eccetera. Molte di esse sono sulla soglia di un vero e proprio fallimento economico-finanziario. La suddivisione del fondo di 75 milioni di euro previsti per le Fondazioni musicali è però condizionata ad alcune regole. Anzitutto alla statura morale e professionale del commissario straordinario. Si spera che sia davvero persona al di sopra di ogni sospetto. Meglio sarebbe stata una commissione con pochi e qualificatissimi componenti.
E ora c’è il turismo… Col governo in carica, si è tentato un altro accoppiamento, a mio avviso, non facile: quello dei Beni Culturali col Turismo. Il rischio è quello di riesumare e rendere stabili, strutturali discorsi di valorizzazione in termini di Made in Italy, di “nostro petrolio” e di altre inquinanti scemenze. Che difatti stanno riemergendo prepotentemente. Con trasmissioni televisive dal titolo “i Beni culturali, il nostro petrolio”. Affermazioni pericolosissime. Perché portano a considerare i Musei come “macchine da soldi” (lo ha sostenuto per gli Uffizi anche l’attuale sindaco di Firenze, Matteo Renzi) non sapendo che non lo è per niente il pur gigantesco e pomposo Grand Louvre col 50% di entrate proprie e un 50% di sovvenzioni statali a coprire gli annuali disavanzi di bilancio, nonostante l’imponente apparato di servizi commerciali, e nemmeno il Metropolitan Museum (che copre con le entrate proprie una metà circa del fabbisogno finanziario annuale). Mentre gli inglesi hanno scelto da anni la strada della gratuità. Che intelligentemente vuol dire anche attrarre più turisti e meno mordi-e-fuggi.

Allora, o i Beni Culturali (materia prima irriproducibile) condizionano l’indotto del Turismo culturale e lo orientano, lo controllano con saggezza e competenza, o sarà lo sbracamento definitivo, il mercato tutto al ribasso del patrimonio, il suo uso mercificato con tanto di tariffario, a ore o a serata. Bisognerebbe infatti avere e rendere chiaro, una volta per tutte, che un conto è il patrimonio (centri storici, musei, aree e siti archeologici, dimore storiche, chiese e abbazie, palazzi, paesaggi, ecc.) e un altro invece il suo indotto turistico. Concetti da tenere ben distinti. Ed è l’indotto turistico che in Italia ha ancor più bisogno di essere modernizzato, qualificato, migliorato, da ogni punto di vista (ospitalità, ristorazione, trasporti pubblici e privati, servizi, ecc.). E’ l’indotto turistico che, decentrando i flussi da quello che abbiamo chiamato nel Libro Bianco del Touring Club Italiano del 1995 sui Musei (presidente Giancarlo Lunati, direttore generale Armando Peres) il “turisdotto” Venezia (Rialto / San Marco) – Firenze (Uffizi / Accademia) – Roma (Fori / Colosseo / Musei Vaticani), facendo conoscere la ricchezza strepitosa, capillare, della “rete” (museale, archeologica e non solo), può dare molto ma molto di più all’economia del Paese. Non – come in modo incolto si pensa – i Musei direttamente.

A forza di pensare alle magiche “valorizzazioni”, alle molteplici cornucopie con monete di pregio che sgorgano a cascata dal “nostro petrolio” e a mostre di puro consumo acquistate come “pacchetti” turistici sul modello “inclusive tour”, ci si è praticamente dimenticati della storia dell’arte in generale (uscita, col ministro Mariastella Gelmini, dagli insegnamenti degli istituti frequentati dai futuri tecnici delle costruzioni) e della didattica museale. Il Centro per i servizi educativi del museo e del territorio, istituito per decreto, intelligentemente, da Walter Veltroni nel 1998 presso la Direzione generale retta da Mario Serio, che tanto aveva voluto e appoggiato il lavoro quel progetto, fu trasferito nel 2009 da Sandro Bondi alla Direzione Generale per la Valorizzazione affidata a Mario Resca, grande amico del Cavaliere. Resca ne affidò  la direzione per anni (ora è stato sostituito da una funzionaria) a un giovane pubblicitario, quel Mario Andrea Ettorre rimasto tristemente famoso per il manifesto e spot televisivo sul Colosseo “rapito”, o per la pubblicità della Velata di Raffaello con volto barbuto diffuso per la Festa della donna dell’8 marzo. Come se la didattica museale e non solo, come se educare (divertendo) all’arte e al paesaggio i più giovani non fosse infinitamente più importante e strutturale per la cultura nazionale del portare carovane di visitatori all’ennesima mostra di Caravaggio (uno solo magari) e seguaci (dubbi), di qualche Van Gogh o di Impressionisti a spruzzo con modesto contorno.

Insomma, per il MiBAC c’è tanto, tantissimo, da fare e soprattutto da rifare, da “ricostruire”, ma con grande impegno e rigore ci si può pure riuscire, tenendo conto – cosa rara in Italia, paese di pochi studi e di pochissima memoria – che la storia dell’amministrazione (tanto più nel campo vasto e accidentato della tutela) non si improvvisa mai. E quando si improvvisa, son dolori seri.

3. Fine