Prosegue la pubblicazione dell’inchiesta di Vittorio Emiliani, giornalista e scrittore, sul Ministero dei beni culturali e paesaggistici da ricostruire. Nella puntata precedente (link) questi sono stati i titoli dei capitoli: L’irrisolto rapporto con le Regioni; Il pasticcio del Titolo V della Costituzione; Da Urbani in qua sterilizzato il Consiglio Nazionale; Ricostituire una catena di comando.

In questa puntata l’obiettivo è puntato sulla diminuzione rovinosa delle risorse pubbliche per la cultura. “Oggi è pari allo 0,19 del bilancio dello Stato”, fa i conti Emiliani. “Quindi nell’ultimo decennio il calo, o meglio il crollo, è stato pari al 60 per cento. Una follia”. (s.g.)

Il peso delle Direzioni generali regionali… Le Soprintendenze regionali erano state previste inizialmente quali semplici organismi di coordinamento e interfaccia delle Regioni. Potevano risultare anche utili quale sostegno delle Soprintendenze territoriali e di settore, per esempio nella complessa, a volte accidentata, materia degli appalti. In seguito sono state improvvidamente trasformate e potenziate in Direzioni Generali Regionali col parallelo depotenziamento e indebolimento però degli organismi territoriali e settoriali della tutela, quelli realmente operativi laddove c’è patrimonio da salvaguardare, di tutti i tipi. Basti pensare alle centinaia di Musei statali da gestire in modo diretto, ai 1.500 Musei Civici sui quali vigilare e ai Musei ecclesiastici saliti di recente al numero di 734 per tentare di difendersi da furti, rapine e autentici saccheggi. Ma ci sono poi oltre 2.000 aree e siti archeologici, 95.000 fra chiese e cappelle di cui occuparsi (e nel Sud sono veri e propri musei d’arte), ai 40.000 fra rocche, torri e castelli, migliaia di archivi e di biblioteche spesso antiche, 12.000 organi musicali antichi e artistici, e così via.

E’ chiaro che questa abnorme struttura è inadeguata alla ricchissima pluralità dei patrimoni regionali e locali (in realtà di qualità e di pregio nazionali) e produce sovrastrutture, anche burocratiche, sempre più costose e pesanti che hanno ulteriormente inceppato i processi decisionali, anzitutto moltiplicando le carte. Quest’ultima moltiplicazione serve sovente a giustificare nei piani alti la propria esistenza e gli elevati stipendi rispetto a quelli dei responsabili della tutela diffusa, concreta, quotidiana. Che senso pratico, funzionale ha, ad esempio, che l’emanazione di una dichiarazione di “interesse culturale” per un bene archivistico la faccia la Direzione generale regionale? In passato la Direzione Centrale delegava a ciò la Soprintendenza archivistica regionale, con un solo soggetto operativo e con tanti passaggi, tempi morti e carte in meno.

Così come sono cresciute, o gonfiate, le Direzioni generali regionali creano difficoltà alle Soprintendenze, ma pure alle Direzioni centrali anche perché il regolamento del MiBAC emanato col dpr 233 nel 2007 (modificato col dpr 91 due anni dopo) non ha fatto chiarezza sulle rispettive competenze. Quindi difficoltà e inceppamenti verso il basso ma pure verso l’alto. Un bel risultato.

Palazzo Barberini fu costruito nel periodo 1625-1633 ampliando nelle forme del primo Barocco il precedente edificio della famiglia Sforza creando una struttura ad acca, caratterizzata da uno spettacolare atrio a ninfeo, diaframma fra il loggiato d'ingresso e il giardino sviluppato sul retro. Autore del progetto è l'anziano Carlo Maderno, coadiuvato da Francesco Borromini.

Palazzo Barberini fu costruito nel periodo 1625-1633 ampliando nelle forme del primo Barocco il precedente edificio della famiglia Sforza creando una struttura ad acca, caratterizzata da uno spettacolare atrio a ninfeo, diaframma fra il loggiato d’ingresso e il giardino sviluppato sul retro. Autore del progetto è l’anziano Carlo Maderno, coadiuvato da Francesco Borromini.

…E dei Poli museali col “mostrificio”. Fenomeno in parte ripetutosi, a mio sommesso avviso, coi Poli museali, a cominciare da una città stratificata e diversificata come Roma, dove si è preteso di unificare storie e situazioni museali diversissime (collegata alle grandi famiglie patrizie, papali o cardinalizie), promuovendo alla loro guida, oltre tutto, anche personaggi che non avevano vinto un concorso o che si erano piazzate agli ultimi posti. Come è avvenuto a Roma dove – rimosso e promosso (in un ufficio, a far niente) Claudio Strinati – è stata messa capo del Polo Museale Rossella Vodret. Ora in pensione e però rimasta nell’area ministeriale con l’incarico di occuparsi delle mostre d’arte all’estero sempre più incoraggiate a fini “economici”.

Negli ultimi anni si è infatti dovuto registrare il prevalere, per ragioni di affermazione personale e clientelare, della “mostromania” rispetto agli investimenti strutturali in manutenzioni, ordinarie e straordinarie, e restauri e pure al reale coordinamento dell’offerta museale, al lancio internazionale delle nuove offerte. Esempi eclatanti: il colossale Palazzo Barberini restaurato e recuperato integralmente e in modo splendido dopo decenni di “occupazione militare” del Circolo Ufficiali, oppure l’ex Collegio Massimo dove è stata benissimo riallestita la Farnesina romana, ecc.

Dal “mostrificio” è dipeso in più di un caso il prosciugamento di risorse essenziali per le strutture museali, magari appena finite di recuperare. E’ il caso della mostra a palazzo Venezia su “Roma al tempo di Caravaggio”, un vero flop, giudicata una delle peggiori dell’anno, costata, di solo allestimento, una fortuna. Mentre nel contempo i grandi musei statali della capitale lottavano per un custode in più al fine di tenere aperto per l’intero orario durante il week-end.

Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre – veduta della mostra presso i Musei di San Domenico, Forlì 2013 (fonte: Artribune)

Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre – veduta della mostra
presso i Musei di San Domenico, Forlì 2013 (fonte: Artribune)

Soldi solo per le mostre. I Musei? Sbarrati. Un caso “di scuola” sta diventando quello di Forlì: con coraggiose battaglie, si è salvata anni fa da una sostanziale distruzione, dopo ripetuti crolli, la chiesa di San Domenico, (scoprendo poi nel refettorio due pregevoli affreschi cinquecenteschi). Nel restaurato complesso conventuale è stata collocata, solo parzialmente, la vasta Pinacoteca civica e i restanti, amplissimi spazi sono stati utilizzati per mostre finanziate dalla locale Cassa dei Risparmi, in attesa di completare il museo. Le mostre temporanee hanno però stravinto sul riordino e sulla ristrutturazione del restante, e cospicuo, patrimonio museale forlivese. Valga per tutti, come esempio, il ricchissimo e particolare patrimonio etnografico romagnolo, fra i primi d’Italia col Pitrè di Palermo, e invece disperso in più sedi, anche precarie e a rischio. La locale Fondazione Cassa dei Risparmi ha finanziato, con campagne pubblicitarie che cominciano anche sette mesi prima, mostre che ormai risultano – e non potrebbe essere diversamente – o ripetitive di esposizioni recenti (Melozzo appena quindici anni dopo una grande mostra sullo stesso maestro) oppure sempre più lontane dall’arte e dalla cultura forlivese e romagnola. La prossima riguarderà il Liberty che non ha certo avuto Forlì fra le città protagoniste in Italia. Per contro il Palazzo del Merenda – sede della Biblioteca comunale col sontuoso Fondo Piancastelli, dove sono tuttora collocati i “quadroni” del geniale Cagnacci, di Guercino e del Cignani nonché la parte più cospicua del patrimonio storico-artistico e archeologico di Forlì (Forum Livi) – è stato chiuso di recente a tempo indeterminato, salvo il prestito librario e, per poco ancora, la pinacoteca al primo piano. Secondo quanto ha dichiarato il nuovo project manager comunale, esso, in sostanza, “rimarrà come deposito organizzato delle opere, aperto agli studiosi su richiesta”. Da trasecolare: il Comune ha appena indetto ed espletato un pubblico concorso per il piano di ristrutturazione dell’intera rete museale civica dedicando un volume con numerose illustrazioni al progetto vincitore.

Meno risorse, meno tutela, anche nelle urgenze. La diminuzione delle risorse pubbliche per la cultura (quelle private sono sempre state modeste) è stata a dir poco rovinosa: il bilancio dei Beni Culturali nel 2001 era pari allo 0,48 per cento del bilancio dello Stato, mentre nella proiezione sull’anno 2007 (lo affermò il ministro Francesco Rutelli), a legislazione vigente e quindi prima della Legge Finanziaria, era sceso allo 0,26 per cento. Oggi è pari allo 0,19 del bilancio dello Stato. Quindi nell’ultimo decennio il calo, o meglio il crollo, è stato pari al 60 per cento. Una follia. La macchina della tutela è stata quindi, di necessità, rallentata, impoverita di personale tecnico-scientifico giovane (a lungo non si sono tenuti concorsi di sorta, così l’età media è sui 55 anni, con pensionamento a 67 anni o anche prima se si sono raggiunti i 40 anni di contribuzione), di strumenti di progettazione, manutenzione, ecc. e quindi di risorse, umane, tecniche e finanziarie.

Si obietta che la macchina della tutela produce ingenti residui passivi, ed è vero: nel 2007 il ministro Rutelli affermava che negli ultimi cinque anni, i fondi che si erano tradotti in residui passivi nel bilancio dei Beni Culturali erano stati pari a 2.288.000.000 euro. Nel solo 2005 non erano stati impegnati 763.000.000 euro. Ma i residui passivi si sono accumulati anche nelle cosiddette “contabilità speciali”: delle direzioni regionali, delle Soprintendenze speciali (Roma e Pompei), dei Poli museali, le quali avrebbero invece dovuto snellire i processi di spesa. Essi soli ammontavano al 55 per cento delle somme disponibili. Una enormità. Nonostante i “magici” commissariamenti che per la verità hanno spesso prodotto danni devastanti, come nel caso di Pompei dove si è stravolto l’anfiteatro romano con materiali del tutto impropri, dove sono create piste ciclabili, musei virtuali, eccetera, nonostante contratti di tipo privatistico ad alta remunerazione.

L’analisi più recente della Corte dei conti registra però, per i residui passivi, una netta inversione di tendenza dal 2007 al 2012, in corrispondenza anche alla riduzione delle risorse: da 1.284.580.000 a 215.130.000 euro concentrati, anche nel 2012, nell’ambito delle risorse assegnata alla Direzione generale per lo Spettacolo dal vivo (70,8 milioni a fronte di risorse attribuite al relativo programma per oltre 273 milioni) e alla Direzione generale per l’organizzazione, gli affari generali, l’innovazione e il bilancio (63,6 milioni a fronte di risorse stanziate sul programma “Tutela del patrimonio culturale” pari a 272 milioni).

Dunque Spettacolo dal vivo e Direzione generale per l’organizzazione, ecc. hanno registrato 134,4 milioni di residui passivi pari al 62,5 % del totale. L’accorpamento dello Spettacolo ha dunque appesantito anche la già scarsa capacità di spesa del MiBAC. Da solo, nel 2012, il dipartimento dello Spettacolo ha infatti accumulato il 32,1% di tutti i residui passivi del Ministero avendo ricevuto poco più del 15% delle risorse totali del MiBAC.

In generale è arduo non accumulare residui passivi se i fondi stanziati per l’inizio dell’esercizio arrivano agli organismi di tutela che li deve impiegare soltanto in ottobre. Ma v’è un altro dato gravissimo sottolineato dalla Corte dei conti secondo la quale il Ministero “ha spesso fatto fronte ai soli interventi di emergenza con le risorse stanziate per l’esercizio delle attività di tutela”.

“Significativa”, prosegue la Corte, “appare infatti la riduzione delle risorse destinate nel 2012 a interventi urgenti al verificarsi di emergenze (37 milioni, a fronte dei 46 milioni del 2011 e dei 65,8 del 2008) e dei Fondi destinati al Programma ordinario di lavori pubblici finalizzato all’attività di tutela del patrimonio culturale (70,5 milioni, a fronte dei 110,8 milioni del 2011 e degli oltre 201 milioni stanziati per le medesime finalità dieci anni prima)”. In parole povere gli stessi fondi per interventi urgenti nelle emergenze sono stati tagliati del 43-44% fra 2008 e 2012. E quelli per i lavori pubblici finalizzati alla tutela addirittura del 65% nell’ultimo decennio. Con danni giganteschi alla tutela di base.

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Palazzo Olivieri, sede del Conservatorio di Pesaro, fu edificato nel 1749 su progetto dell’architetto pesarese Giannandrea Lazzarini (1710-1801) su commissione dell’erudito pesarese Annibale Olivieri, che lo destinò a sede della Biblioteca e dei Musei da lui costituiti e donati alla città.
Nel primo cortile si trova la statua in bronzo di Rossini, opera di Carlo Marochetti, qui trasferita dai giardini della stazione ferroviaria nel 1887 (ph Panoramio)

Un problema grave è costituito, per lo snellimento dei lavori e quindi per la traduzione in opere delle risorse finanziarie, dalla legislazione sugli appalti, che così com’è non ha funzionato. Il massimo ribasso ha prodotto più guai che vantaggi favorendo ditte improvvisate e quindi lavori sbagliati. Ci vogliono nuove regole che riconoscano diversità e specificità agli interventi sui beni culturali. Ci vogliono imprese qualificate e seriamente “certificate”. Senza per questo abbassare il sistema dei controlli. Probabilmente occorre ridurre e qualificare meglio il sistema delle stazioni appaltanti, troppe e troppo poco attrezzate alla bisogna.

Un caso esemplare capitò a me quando presiedevo a Pesaro la Fondazione Rossini proprietaria di un grande palazzo settecentesco dove è costretta da una legge del 1941 a ospitare gratis il Conservatorio: avevamo 400 milioni di lire per restaurare per servizi archivistici un vasto seminterrato. Dovemmo indire, attorno al ’94, credo, una gara d’appalto al massimo ribasso in base alla Merloni, era un momento critico in cui imprese edili generiche si gettavano su ogni possibile appalto. Vinse per un 0,50 % in meno una di queste imprese che, a restauro molto avanzato, si trovò di fronte a problemi più complessi, e lì s’impantanò. Fummo costretti, per finire i lavori, a studiare un modo legale per rimettere in gioco una delle cooperative della zona specializzate in restauri di edifici antichi.

In conclusione, appare indispensabile ridurre i controlli meramente formali, burocratici, la sovrapposizione di carte su carte. Ci vogliono pochi controlli e però veramente seri, penetranti, trasparenti, tecnicamente “competenti”.

2. Continua. Link alla terza parte