In un solare sabato d’ottobre incontro e saluto Peter Aufreiter, austriaco, classe 1974, direttore del Palazzo Ducale di Urbino e del Polo Museale delle Marche, purtroppo per noi a fine mandato in quanto il 1° gennaio 2020 se ne tornerà a Vienna dove gli hanno affidato la guida del Museo della Tecnica. Le Marche, il Montefeltro e il Premio Rotondi perdono un amico e una professionista di grande competenza e umanità. In quattro anni Peter ha organizzato venti mostre, tra le quali quella dedicata a Raffaello e agli amici di Urbino appena inaugurata e da non perdere (chiuderà il 19 gennaio). Malgrado il terremoto del 2016, i visitatori nel Palazzo Ducale sono aumentati del 40 per cento e gli incassi raddoppiati.
Come coordinatore del Premio Rotondi ai salvatori dell’arte, insieme alla presidente Giovanna Rotondi Terminiello, stringo la mano a un giurato attento, propositivo ed equilibrato, prezioso regista e collaboratore nell’iniziativa di ritorno simbolico nella Rocca di Sassocorvaro di opere salvate da Rotondi dalle insidie della guerra.
A conclusione del suo incarico, Peter Aufreiter ha tracciato il bilancio della sua esperienza quadriennale. (s.g.)
In vista della celebrazione dell’anniversario della morte di Raffaello, Palazzo Ducale a Urbino omaggia uno dei più importanti pittori della storia dell’arte italiana e internazionale con la mostra Raffaello e gli amici di Urbino – a cura di Silvia Ginzburg e Barbara Agosti –, che illustra il rapporto intrattenuto dall’artista con l’ambiente culturale della città. In particolare, la mostra descrive il legame di Raffaello con altri due artisti urbinati a lui contemporanei, Timoteo Viti e Girolamo Genga, seguendo una trama di destini incrociati tra Bologna, Roma, Firenze e Siena. Oltre a una ventina di capolavori di Raffaello e ai dipinti dei due coprotagonisti Viti e Genga, sono esposte opere di Luca Signorelli, Francesco Francia, Pietro Perugino, Domenico Alfani e altri. Abbiamo avuto l’occasione non solo di assistere ai lavori di “backstage” e alla preview della mostra, ma anche di parlare con il direttore di Palazzo Ducale, Peter Aufreiter, dando vita a una discussione che, partendo dalla mostra, allarga il proprio orizzonte verso considerazioni personali del direttore, presto assorbito da un nuovo impegno alla direzione del Technisches Museum (Museo della Tecnica) di Vienna.
La mostra è una delle più interessanti per la selezione delle opere, per i prestiti concessi e per l’allestimento – che è un vero gioiello e riesce a enfatizzare la bellezza dei capolavori esposti. Come ti fa sentire essere arrivato al culmine del tuo incarico con una mostra così ambiziosa?
“Dal momento in cui ho iniziato il mio incarico a Urbino, tutti mi hanno chiesto: ‘Cosa si farà per celebrare l’anno di Raffaello in maniera adeguata nella sua città?’. Questa domanda è diventata una spada di Damocle; la coincidenza del 500esimo anniversario della morte di Raffaello con il mio incarico da direttore dell’autonoma Galleria Nazionale delle Marche mi ha fatto sentire il peso ingente della responsabilità. La responsabilità di organizzare un importantissimo e imperdibile evento dedicato a uno degli artisti più noti di tutti i tempi: infatti, credo sinceramente che chi non verrà a visitare questa mostra non capirà mai nulla di Raffaello! Forse sembrerà strano, ma, se si vive a Urbino (e nel mio caso in un appartamento proprio dentro Palazzo Ducale), si sente perennemente la presenza di due figure: Federico di Montefeltro e Raffaello. Ancora più strana sembrerà la commozione che ho provato quando sono arrivati i primi dipinti in prestito per la mostra: avevo la sensazione che da tutto il mondo le opere di Raffaello tornassero a casa; o meglio, che lui venisse a visitare la sua città natale, viaggiando e guardando l’Urbino di oggi attraverso i suoi capolavori.
Quanto è stato complesso curare un progetto del genere, in occasione di un anniversario così importante?
“Abbiamo cominciato a programmare la mostra più di due anni fa. Dovevamo essere noi a Urbino a inaugurare le celebrazioni raffaellesche di tutto il mondo. Abbiamo deciso di realizzare, come Galleria Nazionale delle Marche, tre eventi espositivi durante l’anno di Raffaello: Raffaello e gli amici di Urbino, che è strettamente legata al territorio; la più grande e bella mostra sulla maiolica del Cinquecento che le Marche abbiano mai visto, I colori del Rinascimento (Pasqua 2020), che sottolinea il rapporto tra l’artista e i modelli impiegati per i soggetti delle celeberrime maioliche marchigiane, e infine una mostra dedicata al mito di Raffaello nel Settecento e nell’Ottocento, basata sugli arrazzi: Sul filo di Raffaello (estate 2020)”.
E per quanto riguarda le fasi di realizzazione? Com’è andata con i prestiti?
“La preparazione di una mostra ad alti livelli è sempre un processo che dura tanto tempo. Il primo concetto scientifico e la ‘lista dei desideri’ si scontrano con la realtà: diverse opere non possono essere prestate a causa della loro fragilità, oppure necessitano di un restauro. Lo sviluppo di una mostra è sempre un processo dinamico e vivace: serve molta diplomazia nelle trattative con i prestatori! ‘Sì, prestiamo, ma vogliamo in cambio…’, ‘Sì, prestiamo, ma dovete pagare…’; il lavoro dell’exhibition manager è un po’ come quello di un negoziatore. Pensando a situazioni del genere, a maggior ragione racconto cosa mi è successo al British Museum di Londra quando mi sono presentato per chiedere il cartone della Madonna Mackintosh. Naturalmente, abbiamo prima inviato una lettera ufficiale con il progetto (come da prassi). Ammetto di esser partito con poche speranze, perché le opere su carta difficilmente vengono prestate a causa della loro fragilità, che consente un tempo limitato di esposizione – dopo ogni mostra, normalmente, tornano nel buio per diversi anni.
E poi?
“I responsabili del British Museum mi hanno convocato per discuterne e hanno subito compreso quanto fosse importante la mostra per Palazzo Ducale e per la città di Urbino. Dopo il mio discorso, hanno scoperto un cavalletto che era rimasto tutto il tempo foderato in un angolo della sala: sotto vi era appoggiato il favoloso cartone di Raffaello con la sua cornice! Hanno concluso dicendo: ‘Noi come British Museum siamo contenti e onorati che Raffaello torni nella sua città. Non vogliamo niente in cambio; nessuna fee, niente! È un regalo che facciamo a Raffaello’.
Deduciamo che la Madonna Mackintosh sia un vero e proprio dono per i visitatori! Cosa si può aggiungere riguardo alla tua idea di Raffaello?
“La Madonna Mackintosh è personalmente la mia opera preferita tra quelle in mostra. Si può vedere a ogni tratto la competente maestosità di Raffaello. È così tridimensionale e curata nei suoi chiaroscuri e nella prospettiva da sembrare quasi una scultura. Si capisce che Raffaello l’ha realizzata in rapidità, ma nonostante questo – anzi, forse proprio grazie a questo moto appassionato – è perfetta. Raffaello per me non è solamente l’unico artista marchigiano conosciuto in tutto il pianeta (se all’estero si chiede a un passante chi sia Leopardi, non si riceve risposta!); ma è anche l’artista principale del Rinascimento. Il giorno dell’inaugurazione, diverse persone mi hanno chiesto perché si percepisca un’armonia così celestiale quando si guardano le opere di Raffaello: ciò si può certamente spiegare scientificamente, grazie alla perfezione formale con la quale il pittore ricava l’equilibrio compositivo. Ma c’è qualcos’altro: sembra che le sue opere possiedano un’anima. Sono creature naturali; non sono semplicemente “dipinte”, ma sono “nate”. La vita scorre attraverso gli occhi e la mano dell’artista sul supporto, rivelando il tocco dello spirito di Raffaello: come se Bellezza e Intelletto coincidessero pienamente ed eternamente”.
Insomma, sei soddisfatto di questo “finale” di direzione?
“La realizzazione della mostra mi ha dato grandi soddisfazioni. Siamo riusciti non solo a esporre delle grandi opere, ma soprattutto abbiamo raccontato una storia. La quantità di mostre che vengono presentate al pubblico è diventata assurda, esagerata: la maggior parte di esse non riescono a essere fedeli a un concetto e non narrano una storia comprensibile. Le curatrici Silvia Ginzburg e Barbara Agosti sono invece riuscite a tessere delle biografie, seguendo Raffaello, Genga e Viti attraverso i punti salienti della loro vita, partendo dalla formazione fino all’influsso sui loro successori. Sono molto orgoglioso di aver realizzato questa mostra interamente con le sole forze della Galleria Nazionale delle Marche, senza coinvolgere le solite grandi agenzie”.
Anche lo spazio dato ai giovani è stato rilevante.
“Negli ultimi anni sono approdati qui, grazie ai concorsi del Ministero, giovani storici dell’arte, architetti e restauratori: vederli lavorare con competenza ed entusiasmo è stato appagante. Anche nel catalogo della mostra di Raffaello abbiamo dato la possibilità agli studiosi in erba di presentare i risultati delle loro ricerche. Bisogna sempre ricordarsi del contributo dei più giovani, che migliorano e portano avanti il lavoro dei predecessori: la stessa opera di Raffaello, ai suoi tempi, era innovativa e rappresentava la modernità, un nuovo punto di partenza pur poggiando sulle basi dei precursori. Non penso che oggi sia facilmente immaginabile un comportamento del genere in Italia; eppure, è stato il vero spirito del Rinascimento.
Il prossimo anno sarai direttore del Museo della Tecnica di Vienna. È tempo di bilanci. Come è stata l’esperienza in Italia?
“Ovviamente sono felicissimo di terminare il mio incarico a Palazzo Ducale con una mostra così prestigiosa. Il mio successore erediterà un ufficio che funziona molto bene e che è riuscito a realizzare la trasformazione di una Soprintendenza in un museo autonomo e moderno. Mi chiedono spesso quale sia stato il progetto più importante di questi quattro anni: non penso sia nessuna delle venti mostre e nemmeno la progettazione del nuovo allestimento, bensì credo consista nel cambiamento radicale dello spirito del personale e dell’équipe e nella maniera con cui ci presentiamo ai visitatori (infatti siamo riusciti ad aumentare il numero dei visitatori del 40 per cento e a raddoppiare gli introiti).
Cosa lasci a Urbino e cosa troverai (o pensi di trovare) a Vienna?
“Per me questi quattro anni sono stati un’esperienza importantissima, nonostante tutte le difficoltà con la burocrazia italiana, che trovo assurda e contraddittoria. Nel Museo della Tecnica mi aspetta un’istituzione gestita in completa autonomia: non ci sono problemi amministrativi da risolvere; c’è già abbastanza personale qualificato e ci sono i fondi necessari per realizzare i progetti che vogliamo. Le sfide a Vienna saranno diverse: come si riuscirà ad appassionare i visitatori alle questioni della tecnica di oggi e come si potranno trasmettere le problematiche complesse riguardanti l’enorme sviluppo tecnologico a un pubblico “da museo?”.
Fotogallery
Urbino chiama, Raffaello accoglie
(foto di Camilla Ferrero/Artribune)
A PROPOSITO
Premio Rotondi ai salvatori dell’arte: da Cuba ad Atene e Pompei, tutti i riconoscimenti del 2019
SASSOCORVARO AUDITORE – Sabato 5 ottobre Sassocorvaro è tornata a essere una piccola capitale della cultura italiana nella settimana dal 30 settembre a sabato 5 ottobre. Nella cornice di numerosi eventi, alle ore 16 nel Teatro della Rocca Ubaldinesca, sono stati consegnati tutti i riconoscimenti del prestigioso Premio Rotondi ai salvatori dell’arte (come da legge dello Stato n. 111/2009), XXII edizione. Ecco i riconoscimenti, assegnati dalla giuria presieduta da Giovanna Rotondi e coordinata dallo scrittore Salvatore Giannella, con le sintetiche motivazioni. Com’è noto, il premio prende il nome dall’ex Soprintendente di Urbino Pasquale Rotondi (Arpino 1909 – Roma 1991), che coordinò l’Operazione Salvataggio dei principali capolavori dell’arte italiana (da Milano, Venezia, Roma, Tarquinia, dalle Marche tutte e dalla Dalmazia) nel Montefeltro marchigiano: a Sassocorvaro, Carpegna e Urbino.
- Sezione Mondo: la giuria ha scelto Eusebio Leal, “historiador” della città dell’Avana, per il suo costante impegno culturale a favore del restauro del Campidoglio e di numerosi altri progetti di recupero del centro storico della capitale di Cuba: quella Habana Vieja dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità.
- Sezione Europa: Emanuele Papi, direttore della Scuola archeologica italiana di Atene (SAIA), scuola famosa e istituzione gloriosa con 110 anni di storia, quale riconoscimento di una struttura che ha avuto un ruolo decisivo per la formazione degli archeologi italiani in quanto ha diretto e coordinato le missioni archeologiche in territorio greco promosse dalle università e istituti di ricerca italiani. Già ordinario di Archeologia classica all’Università di Siena, negli ultimi vent’anni Papi ha diretto attività di ricerca in Grecia e in vari Paesi del Mediterraneo.
- Sezione Italia: Massimo Osanna, l’archeologo che ha guidato negli ultimi quattro anni la Soprintendenza di Pompei. La riapertura della Schola Armaturarum è solo l’ultimo dei successi ottenuti da Osanna in una condizione che solo pochi anni fa faceva di Pompei il simbolo di una sconfitta storica dell’Italia. “Visitate Pompei prima che gli italiani la distruggano”, titolavano i giornali inglesi. E Jennifer Kester, su Traveller, si spinse a scrivere: “Se avete un viaggio a Pompei nella vostra agenda, fareste bene a prenotare ora il vostro biglietto per l’Italia prima che Pompei crolli”. Massimo Osanna si è dato da fare con competenza e impegno riscattando l’immagine di Pompei e dell’Italia nel mondo.
PREMI SPECIALI
- Premio speciale Marche: Andreina De Tomassi e Antonio Sorace, creatori filantropi dell’espositivo e ospitale Parco-Museo della Land Art e della Casa degli Artisti a Sant’Anna del Furlo (Fossombrone) che quest’anno festeggia il suo primo decennio di attività.
- Premio speciale protezione civile: i Vigili del Fuoco che hanno operato a Genova a seguito del crollo parziale del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018, che ha causato 43 vittime e l’inagibilità di diverse case nella zona sottostante. In tale occasione, sin dalle prime ore successive all’evento, 400 vigili del fuoco, supportate da personale esperto in tecniche USAR (Urban Search and Rescue) in tecniche SAF (Speleo Alpino Fluviali) e dai nuclei cinofili, hanno lavorato senza sosta alla ricerca dei dispersi e alla messa in sicurezza del ponte e delle costruzioni limitrofe interessate dal crollo. La loro opera si è distinta particolarmente per la professionalità, totale dedizione e spirito di sacrificio dimostrati in un’occasione drammatica per l’intera nazione.
- Premio speciale Comunicazione: Annalisa Venditti, giornalista della redazione di Chi l’ha visto? (RaiTre), che alla ricerca anche di opere d’arte rubate dedica studiosa attenzione, come inviata anche in terre lontane, in quel popolare programma televisivo condotto da Federica Sciarelli.
- Premio speciale mecenatismo: Antonio Crosa di Vergagni, imprenditore genovese, per aver recuperato lo straordinario Presepe Reale, acquistandolo e finanziandone il restauro. Commissionato dai Savoia all’inizio dell’Ottocento, conta su 85 statuette lignee di squisita fattura che misurano circa 40-50 cm ciascuna, attribuite al maestro scultore Giovanni Battista Garaventa. Le statue sono tutte intagliate e dipinte a mano e rappresentano la Sacra Famiglia, gli angeli, i magi, i popolani e i pastori, tutti abbigliati con costumi di seta, cotone, velluto e dettagli metallici.
- Premio speciale “L’arte che salva comunità e territori”: Armando Punzo, drammaturgo e regista teatrale, grande restauratore di anime. Direttore artistico del Teatro di San Pietro di Volterra e del festival VolterraTeatro, è noto soprattutto per l’attività teatrale svolta con i detenuti nel carcere di Volterra dal 1988, la Compagnia della Fortezza. La straordinaria avventura che da trent’anni Punzo svolge nel carcere di Volterra ha ispirato 170 rappresentazioni teatrali in vari penitenziari italiani. Oggi tutto il suo lavoro è raccolto al Dams di Bologna e ha meritato la prima serata nella popolare trasmissione televisiva di RaiTre “I dieci comandamenti” di Domenico Iannacone.
- Premi speciali alla memoria ex aequo: a Vincenzo Barucchieri, il fidatissimo custode scelto da Pasquale Rotondi nel Palazzo dei Principi di Carpegna durante l’Operazione Salvataggio; e, quale vigile e attivo custode della memoria, a Giovanni Tiberi, fondatore nel 1992 del Museo Storico della Linea Gotica a Casinina (Pesaro Urbino), che con la biblioteca, videoteca, archivio storico e parco tematico della memoria costituisce il primo e più importante museo del genere nel Centro Italia.
I premi consistono in una scultura appositamente ideata dall’artista Selim Abdullah (che vive e lavora tra Lugano, Milano e Parigi) e medaglie dell’artista genovese Ilario Cuoghi.
Info: premiorotondi.it
Qui di seguito, il Premio Rotondi 2019 raccontato in un servizio sul TGR Marche:
(via mail)
Gennaio, tempo di bilanci e di classifiche. Come la Top 30 dei musei e dei parchi archeologici statali pubblicata dal Mibact sabato 25 gennaio 2020, che regala anche quest’anno soddisfazioni e conferme, con il Colosseo saldamente al primo posto con oltre 7,5 milioni di visitatori. Seguono le Gallerie degli Uffizi, con quasi 4,4 milioni di ingressi, e Pompei, con circa 4 milioni di presenze. Da segnalare anche la Reggia di Caserta in ottava posizione e il Mann di Napoli alla decima. La classifica diffusa dall’Ufficio stampa del Ministero vede nel 2019 il boom della Galleria Nazionale delle Marche, diretta da Peter Aufreiter (che dal 1* gennaio 2020 è andato a dirigere il Museo della Tecnica a Vienna): con circa 70mila biglietti in più rispetto ai quasi 195mila visitatori del 2018 segna un +36,8%, salendo di sette posizioni e entrando al ventiseiesimo posto in TOP 30, dove mancava dal 2012.
“Aver investito sui musei italiani e sulla riforma, aver scelto i direttori giusti in base alle loro professionalità – italiani e non italiani che hanno fatto un lavoro straordinario – e aver rafforzato la promozione sta portando a una crescita diffusa su tutto il territorio nazionale”, ha commentato il ministro per i Beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini. “Non solo i grandi musei ma anche quelli meno conosciuti che vedono un numero di visitatori sempre crescente. Questo fa bene alle persone, fa bene ai cittadini e fa bene anche all’economia perché intorno ai musei cresce la ricchezza delle città e dei territori”.
(via mail)
Voglio mandarvi una mia riflessione dopo la lettura dei testi su Giannella Channel sul Premio Rotondi 2019 assegnato per la memoria al Museo della Linea Gotica, e sull’articolo riguardante don Gnocchi, che segue il ritratto del fotografo del lavoro Silvestre Loconsolo.
Mi presento: mi chiamo Nella, sono orfana e invalida di guerra. Eravamo agli albori della II guerra mondiale e mio babbo era dovuto partire perché richiamato alle armi. Il 1* settembre 1942 gli era stata comunicata la nascita del terzo figlio. I superiori gli avevano concesso una breve licenza perché potesse conoscere la sua nuova creatura. Era tanto il suo entusiasmo che, nell’attesa del treno, si sporse troppo sui binari senza accorgersi che stava arrivando un treno veloce e che, creando uno spostamento d’aria, lo risucchiò uccidendolo…
Intanto le truppe avevano occupato quasi tutto il territorio italiano e la gente cercava rifugi dove nascondersi e salvare la vita.
I miei zii, con altri vicini, si misero a scavare per ottenere rifugi ai piedi della montagna (Crepa du Re): pensate che in queste grotte avevamo paglia sottratta ai pagliai nelle aie dei contadini…
Mia nonna, intanto, ripetutamente diceva di voler andare a morire a casa. Un giorno che sembrava tutto tranquillo ci incamminammo per raggiungere la nostra casa. Dopo una salita, sentimmo rumori spaventosi che provenivano dal cielo. Ci buttammo a terra, una bomba esplose vicino a noi coprendoci di terriccio. Passata la paura, riprendemmo il cammino verso casa. Una brutta sorpresa però ci attendeva: un angolo della nostra casa era crollato. Andammo a dormire con le bestie ancora spaventate…
Finalmente quella tremenda guerra finì e si ricominciò la ricostruzione. Per me, però, e altri la guerra non era finita. Perché migliaia di bombe erano rimaste inesplose e tanti bambini li raccoglievano e ci giocavano. Volevano vedere che cosa contenessero e così rimanevano ciechi, senza braccia, senza gambe e troppe volte senza vita. Così successe a me.
Un uomo, che raccoglieva il ferro per poi rivenderlo, aveva acceso un fuoco all’aperto per poter disinnescare questi ordigni e ricavarne il ferro. Noi bambini incuriositi ci avvicinammo: pensavamo fosse un falò che a quei tempi si usava fare per la festa di San Giuseppe e cominciammo anche noi a gettare sul fuoco paglia e sterpi. I nostri genitori erano tutti in campagna a lavorare la terra per ricavare qualcosa da mangiare. Improvvisamente si sentì un cattivo odore: io, la mia sorellina con fratellino cercammo di allontanarci ma gli ordigni scoppiarono e riempirono l’aria di schegge. Rimanemmo in sette feriti e un morto: mia madre raccolse il mio fratellino, lo scosse, lo baciò e poi lo depose sul letto. Per lui non c’era più niente da fare. Porto quell’immagine dentro di me come fosse sempre presente.
Arrivarono gli aiuti e portarono noi feriti, su un carretto trainato da un asino, all’ospedale vicino di Morciano. Il medico disse a mia madre perché non mi aveva lasciata morire a casa, sul letto accanto a mia fratello: secondo lui non c’era niente da fare. Io avevo un trauma cranico, con tre schegge in testa, respiravo ma non davo segno di vita. Rimasi in coma per tre giorni. I fedeli della mia parrocchia fecero un triduo al SS. Crocefisso nella chiesa di Sabadone. Alla fine del terzo giorno arrivò la medicina del miracolo: la penicillina. Me la iniettarono e cominciai a migliorare. Però rimasi con il braccio e la gamba paralizzati.
Due anni dopo mia madre, non riuscendo a curarmi come avrebbe voluto, fece domanda all’ONIG perché mi accogliessero nel collegio di Pozzolatico (Firenze) che si occupava dei disastri che la guerra aveva lasciato e così dopo pochi mesi fui accolta lì. Il collegio fu poi inserito nell’Opera di Don Carlo che continuò a curare ed educare con grande amore.
Lì, pur essendo triste per la lontananza di mia madre, fui medicata bene. Vi rimasi.
Mi chiederete: chi era Don Carlo? Era un sacerdote, educatore e amico che ha vissuto la carità tra il dolore, la guerra, la morte, la sofferenza di tanti innocenti e nella sofferenza sono sbocciati frutti incredibili.
Mi chiederete se io l’ho conosciuto: sì, e lo ricordo in tante occasioni. Ero a Pozzolatico quando mi fu comunicato che dovevo andare nel collegio di Pessano (Milano). A me dispiaceva, perché mi ero abituata, ma le suore mi fecero la valigia e partii in treno con il nostro don Carlo. A un certo punto lui mi disse: “Figliola, ti vedo stanca, non pensare alle amiche che hai lasciato, ne troverai altre altrettanto buone, ora appoggiati a me e fai un riposino”.
Don Carlo ci amava, ci abbracciava, era sempre pronto ad ascoltarci, ci ha insegnato e fatto capire il valore della sofferenza. Eravamo tante bimbe, ognuna di noi portava sul proprio corpo i segni della sofferenza causata dalla guerra, dalla violenza e dall’odio degli uomini.
Don Carlo ci voleva attorno a sé. Quando veniva in collegio era una festa, lui si sedeva al pianoforte nel grande salone e intonava: “Sul cappello che noi portiamo… vecchio scarpone … c’è una chiesetta alpina, ecc”, mentre le suore con il campanello ci sollecitavano per andare a dormire.
Don Carlo ci ha lasciati il 28.2.1956 e si preoccupava a chi dover lasciare la propria baracca. Agli amici disse in milanese: “Amì, ve raccumand la mi baracca”.
Un mutilatino, il giorno del suo funerale, disse: “Ciao Don Carlo, ora non ti chiameremo più Don Carlo ma San Carlo”.
Penso di avervi stancato. Vi abbraccio tutti e ripetete con me: MAI PIÙ LA GUERRA!