rendete un analista finanziario politicamente corretto, giornalista, avvocato, già aderente in gioventù al Movimento federalista europeo, attento osservatore del Paese natale del padre: la Grecia. Aggiungeteci, a fargli le domande giuste, una storica di valore, caporedattore centrale del mensile L’Europeo. Mescolate il tutto con rigore e piacevole divulgazione. Avrete un’intervista che finalmente vi farà capire le radici della crisi greca, i tanti errori che hanno portato all’attuale sofferenza del Paese (disoccupazione al 22%, un’imponente fuga di capitali, ripetute tasse sulla casa, un sistema fiscale inefficiente, scuole pubbliche in ginocchio e insicurezza crescente), ma anche le minacce per il futuro che preoccupano l’intera Europa. Ecco l’intervista di Valeria Palumbo a Teo Dalavecuras (tratta, per gentile concessione, dal numero monografico sulla “Paura che viene da Atene. La storia della Grecia dalla guerra civile a oggi”, L’Europeo n.8/2012, attualmente in edicola e in libreria).
Teo Dalavecuras e Valeria Palumbo (foto di Carlo Rotondo)
DALAVECURAS: “Togliamo subito di mezzo il detto greco, ‘una faccia, una razza’: è approssimativo. Lo pensavo anch’io finché, risposandomi con una greca, ho ripreso a frequentare con assicuità l’Egeo. Sono realtà diverse, Italia e Grecia: sono Stati nati nell’Ottocento, ma la Grecia è uno degli staterelli promossi dalle grandi potenze, soprattutto dai britannici e dai francesi, anche per favorire la dissoluzione dell’impero ottomano. L’Italia ha avuto un processo unitario differente e complesso”.
PALUMBO: E questa nascita ha già inciso sulle differenze?
Sì. La Grecia, nei primi decenni dell’Ottocento, era sotto la tutela di una troika, Russia Gran Bretagna e Francia, tant’è che c’erano tre partiti che si riferivano esplicitamente a questi ‘protettori’. Oggi le cose sono meno esplicite… anche se forse non così differenti. Vede, la Grecia è un Paese molto aperto all’estero e con una certa tendenza al default: ce n’era già stato uno nel 1843, poi ancora uno alla fine dell’Ottocento e uno nel 1932, conseguenza della Grande Crisi.
Mentre la somiglianza con l’Italia?
L’inefficienza dell’apparato amministrativo e di quello politico. Con la differenza che l’Italia ha un sistema politico del tutto inefficiente, sviato da interessi particolari, ma nei momenti cruciali trova il modo di prendere le decisioni giuste.
Si riferisce al premier Mario Monti?
Non solo, ma anche alle decisioni più importanti del Dopoguerra. E’ stato notevole mantenere un rapporto civile con l’opposizione, apparentemente telecomandata da Mosca, e al tempo stesso saldarsi all’Alleanza Atlantica. In Grecia c’è stata invece una guerra civile. I greci si erano esposti molto nella Seconda guerra mondiale a difesa degli interessi degli Alleati. Qualche storico sostiene che l’invasione italiana della Grecia e l’inaspettata resistenza, che ha costretto Adolf Hitler a intervenire, abbiano contribuito alla sconfitta dell’Asse, perché la Germania ha ritardato la sua marcia verso Est e in particolare verso il petrolio di Baku. Paradossalmente, però, l’Italia, grazie alla sua classe dirigente, grazie ad Alcide De Gasperi, si è seduta al tavolo della pace. La Grecia,invece, non si è seduta da nessuna parte perché era impegnata in un massacro interno.
La differenza sta pure nell’industrializzazione dell’Italia.
Che era già cominciata nell’Ottocento. La Grecia era un Paese agricolo. A parte l’industria armatoriale: una realtà a sé.
Be’, fu l’arma vincente nel Risorgimento greco…una delle vostre eroine è l’armatrice Laskarina Bubulina. (un ritratto è su mondogreco.net, ndr) Ma torniamo al default. La causa è dunque la cattiva gestione politica dell’era post-colonnelli?
Non parlerei di “cattiva” gestione ma di scelta precisa, fatta dal Pasok…anche se poi la Nea Dimokratia si è sempre accodata. Negli anni Ottanta, approfittando della grande abbondanza di capitali sul mercato internazionale, il Pasok ha indebitato lo Stato per finanziare la spesa corrente e soprattutto per pagare assunzioni massicce nel settore pubblico.
Solo con fini politico-elettorali?
No. Il clientelismo è un fenomeno antico: c’era già nell’Ottocento. Lo praticava anche Ioannis Kolettis, uno dei premier dell’Ottocento (del partito francese, al potere tra il 1834 e 1835 e tra il 1844 e 1847, anno della sua morte, ndr). A grandi linee direi che allora aveva una finalità politica, di organizzazione del consenso, di stabilizzazione dell’attività pubblica e di controllo sociale. Con Andreas Papandreu, negli anni Ottanta, è diventata un’interpretazione del welfare state. Aveva, sì, come scopo immediato di accrescere la base elettorale del Pasok, prima, e di Nea Dimokratia, poi. Ma ha avuto come effetto di elevare il tenore medio di vita senza adeguare né le istituzioni politiche né le strutture sociali. Così ha distrutto o danneggiato i meccanismi che avevano funzionato fin agli anni Cinquanta. Lo scrittore Petros Markaris dice cose molto sagge su questo: negli anni Cinquanta la Grecia era un Paese povero in cui tutti vivevano più che dignitosamente. Adesso, dopo 30 anni di aumento del reddito, la Grecia è diventata un Paese con molti poveri. Perché il modello di sviluppo basato sul debito funziona solo per un certo tempo e nel frattempo si brucia i ponti alle spalle. Le persone, oggi, non sono più in grado di sopravvivere in modo sobrio e onesto. Una statistica internazionale degli anni Sessanta mostrava che i tre Paesi più sicuri al mondo erano Giappone, Svizzera e Grecia. C’era una pubblica amministrazione ridotta, che dava pochi servizi ma funzionava bene. Adesso la perdita di efficienza è conseguenza diretta e indiretta di quella politica degli anni Ottanta.
Questo fenomeno ha coinciso anche con una perdita di “competenze”? La Grecia appariva un tempo come un Paese di pastori, ma immagino fossero anche coltivatori…
Credo che non ci sia mai stata una grande agricoltura, anche perché il governo ha spesso promosso colture non adatte al Paese. Come il cotone, che richiede acqua e quindi non va bene. La scarsa valorizzazione dell’agricoltura greca dipende anche dalla scarsa capacità, curiosa per un popolo di commercianti, di controllare le fasi di distribuzione e vendita. Sono sempre stati eterodiretti dalle organizzazioni europee, italiane e spagnole in particolare. I greci cambiavano le colture secondo le esigenze di questi intermediari, anche in anni recenti.
Molti greci tornano oggi alla terra: è soltanto folclore?
Sì, ormai non ci sono più i margini. Anche iniziative recenti come quella di vendere direttamente le patate ai consumatori in città non hanno alcuna consistenza. Ci sono però altre forme di solidarietà sociale che hanno senso. Se ne parla poco…
Leggevo che lo sviluppo ha avuto una base familiare, per cui la solidarietà non è più sociale, ma familistica…
Si sta rimettendo in moto anche quella sociale. Una delle conseguenze distorte dello sviluppo recente è stato rompere le solidarietà locali, che erano molto forti. E’ la caratteristica che mi ha sempre affascinato della Grecia questo sostegno locale accoppiato all’apertura verso l’esterno, una grande curiosità. Ospitalità in greco si dice filoxenia: amicizia con lo straniero.
Torniamo agli armatori. Quelli greci sono famosi, ma ora il Pireo è in mano ai cinesi, della società statale Cosco.
Gli armatori, che io sappia, non si sono mai occupati della gestione dei porti: è sempre stata una realtà abbastanza multinazionale. Viceversa, le storiche famiglie armatoriali, come i Gulandris, che sono anche mecenati, sono sempre state di base all’estero, a Parigi, a Londra. Valeva per Aristoteles Onassis, ma anche per armatori molto più piccoli.
Ma esistono ancora quelle famiglie?
Le famiglie tradizionali ci sono ancora, anche se non si fanno sentire. E soprattutto stanno alla larga dalla politica greca. Il sistema politico è legato più ai grandi importatori, appaltatori e costruttori…le cose che vediamo anche un po’ in Italia.
Anche la Grecia ha subìto una devastazione delle coste.
Sì, soprattutto in questi trent’anni. Negli anni Sessanta era magnifica. Per fortuna ancora adesso ci sono zone integre.
Dunque: questa industria armatoriale non ha avuto la forza di trainare il Paese. Non ha creato indotto.
Solo in modo episodico. Ma prima non serviva. lo squilibrio economico risale agli anni Ottanta: allora e dopo non c’è mai stata una politica industriale e di investimenti.
Ma queste famose Olimpiadi del 2004, che molti indicano come la causa prima del default?
Hanno dato un bel contributo. Si era parlato di un conto di dieci miliardi…in fin fine, però, poca cosa rispetto alle cifre di cui parliamo ora. Ma la crisi, come le ho detto, nasce prima. Una spesa enorme per creare posti pubblici, senza nessun investimento nei servizi e nelle infrastrutture e quindi una lottizzazione della pubblica amministrazione. E’ stato un fenomeno nuovo, a livello di massa, e ha inciso sulla produttività.
Parliamo di produttività ed etica del lavoro. L’anno scorso abbiamo visto in piazza gruppi anarchici molto radicali.
Anche su questo ci sono diverse scuole di pensiero…Circolano pure diversi video in cui questi sedicenti anarchici si rifugiano dov’è la polizia durante i disordini. In ogni caso credo che siano un altro regalo alla globalizzazione.
Anarchici a parte, non mi sembra che gli impiegati pubblici fervessero di voglia di lavorare.
D’altra parte era gente spesso arruolata perché faceva riferimento a qualche famiglia politica. Ricordo una battuta di Romano Prodi di un paio di decenni fa: diceva che gli italiani erano veramente dei lavoratori indefessi perché in fondo la legge non chiedeva loro di lavorare per prendere lo stipendio. Del resto la produttività è un problema di organizzazione: è bassa là dove non c’è capacità o volontà organizzativa. Questo manca a livello globale. Poi ci sono tante piccole realtà private che non sono produttive. Ma il ceto imprenditoriale greco è molto spesso cresciuto sulle sovvenzioni o su posizioni di rendita.
E così arrivano gli stranieri, gli indiani per esempio, che sono molto intraprendenti…
O gli albanesi, che hanno in mano il settore delle ristrutturazioni edilizie. Sono piccole imprese che funzionano bene. C’è da dire che la Grecia è molto invecchiata in questi anni: tra gli altri problemi c’è una scarsissima natalità.
Ma i greci come gli italiani sono sempre emigrati. Immagino che si sia a lungo contato sulle rimesse.
Sì, ma, come in Italia, le rimesse sono state una voce importante della bilancia dei pagamenti negli anni Cinquanta e Sessanta. Ora, di nuovo, i giovani greci si guardano attorno. Comunque le famiglie greche hanno sempre speso quello che avevano, e anche quello che non avevano, per l’eduzione dei figli. Vendevano il terreno, si indebitavano e li mandavano a studiare all’estero, non solo in Italia…dove non c’era, fra l’altro, il numero chiuso nelle università…andavano in Francia, in America…e questo è stato sempre un punto di forza.
Eppure a George Papandreu non è bastato chiamarsi “George” anziché “Georgios”…studiare all’estero non sembra essere servito a costituire una classe dirigente moderna.
Lei ha toccato uno dei punti più deboli della Grecia: l’assenza di una classe dirigente. Questa è la differenza con la Turchia, che ha sempre avuto una classe dirigente solida e compatta.
Questo dunque è un altro motivo della crisi?
Sì, ma quello che l’ha scatenata davvero è stato l’ingresso della Grecia nell’euro. Non era un’economia in grado di reggere l’impatto di quell’indebitamento facile. Con l’euro è cambiato il passo. Le Olimpiadi sono un episodio esemplare dello sfascio: in quegli anni le imprese straniere, soprattutto tedesche, ma anche francesi, hanno realizzato affari notevoli. Hanno costruito le autostrade intorno ad Atene, l’aeroporto, la metropolitana, le ferrovie suburbane e il ponte Rion-Antirion sul Golfo di Patrasso, che non avrebbe nulla da invidiare a quello di Messina…se l’avessero fatto.
Insomma si sono arricchiti altri Paesi.
Ne hanno tratto qualche beneficio…
Oggi il debito greco è molto in mano francese. Torniamo così all’ingresso nell’euro: la Grecia ha bluffato. Gli altri?
E’ impossibile credere che gli altri Paesi europei avessero preso per buoni i dati del bilancio. Un po’ tutti gli Stati hanno fatto cosmetica dei conti al momento della nascita dell’euro. Per la Grecia l’operazione è stata organizzata dalla Goldman Sachs ed è difficile che ci fossero segreti. In ogni caso era la storia recente della Grecia a dimostrare che il Paese non aveva i requisiti. E’ stata una scelta politica: gli inglesi premevano per l’allargamento dell’Unione europea, i tedeschi hanno concesso l’euro come contropartita dell’accordo sulla loro riunificazione… sono state scelte politiche su una base di do ut des.
Solo una scelta politica o c’era un coté romantico?
Non si può escludere.
In fondo, un’Europa senza la Grecia…
In più c’è stato un grande entusiasmo da parte dei greci, che hanno sempre guardato a Occidente nella loro storia recente. Entrare in Europa era risolvere i loro secolari problemi…
A cominciare da quelli con la Turchia…
Era l’accesso a un club. Il territorio greco diventava territorio dell’Unione europea. Lì hanno peccato di ingenuità: se c’è una caratteristica dell’Unione europea è di non avere territorio. Come si vede quando c’è una violazione dello spazio aereo greco: la commissaria agli esteri e alla difesa della Ue, la baronessa Catherine Ashton, ha altro da fare e non se ne accorge.
La Turchia sembra aver capito ora che, più che entrare in Europa, le conviene diventare leader in Medio Oriente.
Ha anche i mezzi per farlo.
Già, ma allora, al di là della questione di Cipro, ha ancora senso un contenzioso aperto con la Turchia?
E’ una storia terribile: quest’anno si compiono 90 anni dalla distruzione di Smirne, nel 1922. In fondo è una storia recente: non sono i 400 anni di dominazione ottomana che contano. Sono le vicende del Novecento. Smirne è stata bruciata da Moustafa Kemal Ataturk mentre le navi dell’Intesa stavano nel porto a guardare (ma poi raccolsero i profughi, ndr). Era un disegno politico lucidissimo.
Mi sembrano però storie lontane…
In effetti c’era pure stato un riavvicinamento. Nel 1934 il premier greco Eleftherios Ventzelos propose Ataturk per il Nobel per la Pace, dopo aver firmato un trattato per porre fine ai conflitti, nel 1930. Il problema di fondo è che la Turchia ha una politica coerente e compatta e la possibilità d’imporla. La Grecia è invece condizionata dai Paesi ai quali fa riferimento.
Ma ora qual è il vero motivo del contendere?
Sono due. Primo, le risorse petrolifere e di gas dell’Egeo che sembra siano molto importanti e che si trovano nelle acque territoriali greche e nella zona Zee (Zona economica esclusiva): i turchi impediscono alla Grecia di sfruttarle. E lo fanno anche attraverso la testa di ponte che si sono creati a Cipro Nord, grazie alle iniziative infelici della Grecia, che intraprese una caricaturale invasione dell’isola nel 1974.
L’altro motivo?
L’astio nei confronti dei greci, che erano la classe benestate delle coste dell’Asia minore, è stato coltivato dal regime di Ataturk nel momento in cui doveva rafforzare la “coscienza nazionale” del nuovo Stato. I greci da parte loro hanno rivestito la questione con nostalgie “imperiali” bizantine e hanno ripescato il dramma dell’occupazione ottomana. Sono elementi culturali superabilissimi: è la politica che li strumentalizza.
Ma non ci sono contrasti anche nell’area balcanica?
Il premier Recep Tayyip Erdogan tende a considerarsi il leader dei musulmani dei Balcani… fino in Albania. D’altra parte nelle guerre degli anni Novanta, piccoli Stati di grande prestigio militavano più a fianco dei musulmani che dei cristiani… Mi riferisco al Vaticano. Che sosteneva i croati perché sono cattolici, ma preferiva i musulmani agli ortodossi serbi.
Anche la nascita della Macedonia ha dato fastidio alla Grecia. Vero è che, come il Montenegro, più che Stati sembrano empori del contrabbando e del traffico d’armi…
Sono Stati artificiali. Il Montenegro è sotto la sfera d’influenza tedesca, mentre la Macedonia è un pied-à-terre statunitense. C’è un bel libro di Francesco Strazzari, Notte balcanica, che spiega come i Balcani siano una periferia dell’Europa e come tale siano trattati. La Grecia ha sempre cercato di distinguersi e questo spiega la sua politica filoeuropea, un po’ ingenua. Pensava che l’Europa fosse qualcosa di diverso…e glielo dice uno che ha fatto una sola volta attività politica in vita sua: nel Movimento federalista europeo, da ragazzo.
Torniamo a Cipro: perché la componente greca ha votato no al referendum sull’unificazione?
Pare che pure la componente turca ritenesse che il piano di riunificazione proposto dal segretario generale dell’Onu Kofi Annan non funzionasse. Cipro è un problema di politica internazionale: può risolverlo soltanto l’Europa con la Turchia… e forse nemmeno l’Europa.
Di fatto siamo tornati ai tempi della contesa cinquecentesca tra Venezia e la Sublime porta: Cipro è una portaerei nel Mediterraneo e, se nel mare ci sono gas e petrolio, la Turchia non cederà tanto facilmente…
Certo, fa parte della politica di potenza della Turchia, nel contesto più ampio del Medio Oriente.
E siamo all’oggi: che succederà?
Credo che il risultato delle elezioni greche di giugno non potesse essere diverso. Ora, quello che succederà in Grecia dipende da quello che succederà in Europa. Da quattro anni l’unica priorità della politica è tenere in piedi il sistema bancario internazionale…che è come tenere in piedi un grande castello di carte. Però occorre che le banche smettano di fare speculazioni insensate, di allargare la montagna dei derivati. E magari pagarsi stipendi da milioni di dollari. Ma forse questo castello per stare in piedi ha bisogno della montagna di derivati: stanno tutti in ostaggio di questo circolo vizioso.
Concretamente?
La Grecia non potrà soddisfare gli impegni del secondo memorandum imposto dall’Unione europea: una situazione che si è creata in trent’anni non puoi correggerla in due. E nemmeno in quattro anni. In fondo di anni ne sono già passati tre e in Grecia è stato fatto pochissimo per raddrizzare la storture organizzative e istituzionali. Per esempio: per aumentare gli introiti fiscali hanno creato una nuova tassa sugli immobili, già tassati. La fanno riuscuotere attraverso le bollette della luce e questo la dice lunga sulla totale inefficienza del fisco.
Ma le priorità?
Le tre questioni cruciali della Grecia sono: l’evasione fiscale, la polizia, la scuola. Il Paese ha gravi problemi di sicurezza…
Ha frontiere che sono un colabrodo per i clandestini…
Già, ma questa è una delle conseguenze dell’adesione ingenua all’Europa. Subito dopo la caduta del Muro di Berlino, la Grecia aveva presidiato i confini in modo molto efficace. Sono stati gli alleati europei a invitarla ad aprirli. Oggi siamo a più di un milione e mezzo di stranieri su una popolazione di circa 11 milioni. Tutto questo in pochi anni. Già nel 1922 la Grecia aveva 4 milioni di abitanti e in pochi mesi ha dovuto accogliere 1,2 milioni di profughi dall’Asia minore. Fu uno choc, e non se n’è mai parlato. Anche se, secondo me, ha pesato sul futuro politico del Paese: provi a immaginare se in Italia, oggi, arrivassero da giugno a novembre, 15 milioni di persone, meglio di italiani, da sistemare dignitosamente.
E la scuola?
L’istruzione pubblica è in condizioni pietose. L’università è stata messa in ginocchio da una legge degli anni Ottanta: una riforma demagogica che non ha colpito i baroni. La gente si arrangia come può con le scuole private e manda i figli all’estero. Un buon sistema fiscale, una polizia efficiente e una scuola pubblica che funzioni richiedono più di nuovi capitali.
Come giudica il fenomeno Alba dorata, la destra neo-nazista entrata in Parlamento: è un cascame dei colonnelli?
Solo alla lontana. Piuttosto resta ancora quella frattura creata ai tempi di Ventzelos, il Dikhasmos, tra progressisti e conservatori. E questo nonostante i tentativi di Papandreu di tirare a sé il centro… esiste un anticomunismo viscerale che si unisce al senso di insicurezza, e questa insicurezza genera reazioni estreme nella classe media… Atene accoglie sempre più disperati. Si percepisce un clima di abbandono.
E la Syriza, la Coalizione della sinistra radicale?
Al di là delle parole d’ordine che esasperano la componente di sinistra, ha una base elettorale proprio nella classe media. Non poteva vincere le elezioni. Non erano pronti. Ma è stato l’unico partito che si è posto consapevolmente il vero problema sociale: che cosa diventa un popolo di ex pastori, trasformati in impiegati e ora ributtati indietro, senza più identità?