Il bravo inviato ed editorialista del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, riporta nella sua rubrica odierna, mercoledì 20 giugno 2012, la brutta storia della biblioteca napoletana di Giovanni Battista Vico, la Girolamini, svuotata di almeno 2.202 libri antichi ritrovati dalla magistratura in tre differenti garage di Verona e dintorni legati a una figura che ben rappresenta le dinamiche dell’Italia odierna: Marino Massimo De Caro, scrive Stella, “uomo che si spacciava per laureato e non lo era, si spacciava per professore e non lo era, si spacciava per il principe di Lampedusa e non lo era”. Uomo che era arrivato alla carica di direttore della storica biblioteca napoletana saccheggiata dei suoi tesori librari. Un’eccezione? Macché, era accaduto lo stesso per l’elettricista Claudio Regis, detto El Valvola, “sedicente ingegnere (poi processato e condannato per questo), nominato per meriti leghisti ai vertici dell’Enea” o al sedicente dottor Francesco Belsito, con un diploma e due lauree taroccate, piazzato ancora per meriti leghisti (sia chiaro: molti altri partiti non possono scagliare la prima pietra) alla vicepresidenza di Fincantieri”.
Nell’ordinanza di costudia cautelare contro il direttore della biblioteca De Caro e i suoi complici, il giudice per le indagini preliminari Francesca Ferri svela il meccanismo che fa avanzare certi personaggi pittoreschi a cariche dirigenziali a onta della tanto pubblicizzata meritocrazia. Il giudice scrive infatti che il direttore De Caro era stato nominato “a onta di ogni regola e grazie all’influenza politica: era consigliere del ministro per i Beni e le attività culturali Gian Carlo Galan, il quale si è scusato dicendo:’Me lo aveva presentato un uomo al quale devo tutto nella vitas: Marcello Dell’Utri”.
Nel condividere l’augurio di Stella che servono nuove regole (e soprattutto più efficaci controlli) perché non accada mai più una situazione del genere, mi piace aggiungere, quasi a controbilanciare l’amarezza per questa lettura, una pagina del mio diario che porta alla luce un bibliotecario diverso, un esempio positivo che poi è il filo conduttore del mio blog. Ecco il brano risalente a sabato 4 dicembre 2010: “Scendo a Ravenna: nella Casa Matha, luogo di incontri nel segno della memoria e dell’attualità, viene ricordato Luigi Malkowski, dal 1983 vice direttore e responsabile dell’importante sezione “Acquisizioni” della storica Biblioteca Classense, prematuramente scomparso nel dicembre 2003 all’età di 50 anni. Dopo la sorella Ludovica, Paola Novara e altri storici locali, tocca a me parlare di lui, di quest’uomo profondamente studioso e austero, colto e disponibile, rispettoso e rispettato. Ne parlo citando un numero appreso in un recente incontro con l’attuale direttore di quella istituzione culturale romagnola, Donatino Domini: 3.500. Sono stati tanti, infatti, i prestiti alle biblioteche di tutt’Italia da parte della Classense nel solo anno 2009. Un dato importante che fa della Classense la primatista dei prestiti in questa particolare graduatoria e che avrebbe inorgoglito Luigi Malkowski, a conferma della bontà della sua linea di acquisizioni portata avanti negli anni.
Un primato che può inorgoglire la città candidata a prossima capitale europea della cultura (per la candidatura sta lavorando un comitato guidato dal giornalista-scrittore e senatore romagnolo Sergio Zavoli): questa leadership affianca all’ala della straordinaria storia antica di Ravenna anche quella di una presenza moderna nel firmamento, per molti versi in penombra, delle istituzioni culturali italiane. Ed è questo primato che, fossi un amministratore pubblico di Ravenna (peccato che non se ne siano visti in sala) incollerei come una tessera del mosaico sapiente della “candidata” Ravenna.
La incollerei facendo di Ravenna il palcoscenico che ogni anno, il 4 dicembre, si illumina per accogliere uomini e storie come quelle di Luigi Malkowski. Uomini che custodiscono l’infanzia delle parole nelle biblioteche più antiche e più ricche d’Italia e d’Europa, ma anche nelle biblioteche della provincia e dei quartieri italiani, facendone quelle che Luigi auspicava per la Classense e che abbiamo raccolto in un Foglio sospeso che potrete portare a casa: “Facciamo della Biblioteca un’officina culturale, attiva, che susciti nuovi stimoli e nuovi interessi”.
A proposito di questi “granai pubblici dove ammassare riserve contro l’avanzare dell’inverno dello spirito” (Marguerite Yourcenar), la scrittrice Gianna Manzini, l’autrice di “Ritratto in piedi” (1971) e di tanti altri volumi la cui opera, ahimé, è arduo trovare in una biblioteca pubblica italiana, ricorda quando saliva di corsa le scale della Biblioteca Nazionale di Firenze, fino ad arrivare agli scaffali gremiti di libri: “Era la scala del Paradiso!”. Ecco, una scala del Paradiso mi piacerebbe veder assegnata idealmente ogni anno, come premio Malkowski, a coloro che custodiscono i preziosi scrigni con i primi passi delle civiltà; a coloro che valorizzano e restaurano papiri e pergamene e da alcuni anni si ingegnano anche a intrecciare autostrade elettroniche. Gente come chi vedo in prima fila in questa sala, il friulano Alessandro Giacomello, passato dalle xilografie della Classense ravennate, sulle quali si è laureato, al restauro delle biblioteche del deserto del Sahara, che custodiscono l’infanzia delle parole della civiltà islamica.
Per la scienza la scrittura è poco più di un lampo in una giornata ricca di vicende e di sconvolgimenti. Se si pensa ai 4 miliardi di anni di vita sulla Terra cosa sono, infatti, i 35.000 dell’Homo sapiens? E, rispetto a questi, i 6.000 anni della scrittura, i 3.000 dell’alfabeto fenicio, i 500 della stampa? Ma senza quel lampo, che pure è costato all’uomo un lungo e complesso cammino evolutivo e biologico, la giornata resterebbe avvolta dall’oscurità.
Ecco, il Memorial Malkowski, con il premio Malkowski, vuole essere un affettuoso lampo di luce che, almeno una volta l’anno, rompa a Ravenna quella ingiusta oscurità in cui operano, spesso in solitudine, i tanti Malkowski ingiustamente sconosciuti“.
Caro Salvatore,
ricordo bene Luigi Malkowski, nel breve periodo che ho passato alla Biblioteca Classense, grande biblioteca che porta con sé una grande storia di cultura e di bibliotecari; ricordo la sua gentilezza e la sua competenza, che insieme a quelle degli altri colleghi mi accolsero nei primi anni di lavoro da bibliotecario.
Vorrei aggiungere alle tue riflessioni un’altra, che mi capita sempre più spesso di fare con colleghi e amici: sapete che i direttori delle biblioteche storiche sono una specie in via di estinzione? È così, ed è una tendenza che vediamo operante un po’ ovunque: la generazione dei direttori “storici”, quelli che hanno retto le biblioteche iniziando la loro carriera professionale tra anni ’60 e ’70, è andata in pensione, e non si è provveduto a sostituirli; si è preferito invece affidare le loro funzioni accorpandole a quelle di altri dirigenti. Ciò viene motivato da una volontà di risparmio, ma temo che riveli invece nei fatti una convinzione molto più grave: quella cioè che considera in realtà inutile la figura di direttore di una biblioteca. Il direttore di una biblioteca storica – solo qui in Romagna ce ne sono diverse, tutte con almeno qualche secolo di storia – ha sempre fatto molto di più che curare compiti amministrativi e gestionali: è stato in realtà l’interprete e la connessione nel rapporto tra i libri e le collezioni della biblioteca, gli scrittori e gli intellettuali locali e non solo, la gente della sua comunità e gli amministratori, esercitando anche il ruolo scomodo di rompiscatole e di sentinella rispetto all’azione culturale che si svolge sul territorio. Forse capisco meglio: più che inutile (come diceva un mio dirigente di qualche tempo fa, per molti ancora in biblioteca “basta uno che apra la porta”) un direttore di biblioteca in questi tempi di Notti Rosa e di attività culturali subappaltate oggi è forse più che altro dannoso, rispetto ad una idea dominante di consumo di eventi e inaugurazioni che – sia chiaro – prescinde da ogni ideologia e che non vuole pietre di inciampo che invece provino a ricordare che quella cosa che chiamiamo ancora cultura, è fatta di incontro, sapore, sale, studio, fatica, curiosità, bellezza.