RISCOPRIAMO MONTANELLI, AMBIENTALISTA DIMENTICATO.
L’INVITO ALLA LETTURA DI GIAN ANTONIO STELLA, STORICO INVIATO DEL CORSERA, OGGI DIVERSAMENTE SETTANTENNE

I NOSTRI COMPLEANNI, LIBRI DA NON PERDERE | REPRINT

introduzione di Salvatore Giannella
testo di Gian Antonio Stella*

Quel nastro giallo e nero, messo sabato 22 luglio 2023 sulla statua di Indro Montanelli nei Giardini pubblici di Milano dagli attivisti di Extinction Rebellion, è frutto di ignoranza. Su Indro ambientalista ripubblichiamo quanto avevamo messo online quattro mesi fa presentando un libro dell’inviato del “Corriere della Sera” Gian Antonio Stella. Meno vernice e più libri, ragazzi.

Oggi, 15 marzo 2023, un grande inviato ed editorialista del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, taglia il traguardo dei suoi primi 70 anni. Stella è il giornalista che ha cercato di raccontare le derive del potere e le ruberie della politica delle clientele, cercando di valorizzare le persone perbene che si battono dalla parte del cittadino, della dignità e del rispetto dei più deboli. E’ un giornalista da scoop intelligenti e mai perfidi o cinici. Il suo più recente libro illumina il lato ignoto (o quasi) di Indro Montanelli (Fucecchio 1909 – Milano 2001: nella foto in alto), eppure celeberrimo per le sue polemiche politiche e le sfuriate sui difetti degli italiani. BATTAGLIE PERSE. MONTANELLI, AMBIENTALISTA RIMOSSO (Solferino 2021, con la Fondazione Montanelli Bassi). A me piace, dopo averlo premiato nel settembre scorso con il CerviAmbiente per il documentario Po (sulla tragedia del Polesine nel 1951, realizzato con il regista Andrea Segre), stringergli idealmente la mano per la ricostruzione delle battaglie ambientaliste di Indro. Quelle battaglie delle quali leader dei Verdi come Luigi Manconi ed Edo Ronchi confermano che, “a parte Venezia”, non sapevano nulla. A seguire le prime 70 righe dell’incipit (S.G.).

La copertina del libro di Gian Antonio Stella, edito da Solferino/Rcs MediaGroup, 17 euro. Ha scritto Salvatore Settis: “Questo Montanelli ambientalista merita di essere riscoperto, letto e riletto. Se mai un largo ambientalismo italiano dovesse formarsi, il suo suo cuore non potrà che essere il paesaggio con la convinzione che a difenderlo devono essere, insieme, i sostenitori della proprietà privata e i partigiani dei beni comuni”.

Un liberale dalla parte del patrimonio pubblico. «Strade ridotte a crepacci fra strapiombi di cemento». Nessuno, probabilmente, ha mai avuto la chiarezza e la potenza immaginifica di Indro Montanelli. Lo sapeva. Una frase e fotografava tutto. E per decenni usò questa sua arma straordinaria per combattere battaglie in cui credeva perfino a dispetto, talora, dei suoi stessi lettori, sedotti e dominati dal suo carisma fino a seguirlo quasi come adepti nella trincea anticomunista. Ma poi indifferenti, annoiati e restii a spendere un po’ di fiato in difesa dei nostri tesori culturali, artistici, paesaggistici.

Dice tutto l’incipit di un articolo sull’Appia Antica uscito il 24 marzo 1966, di spalla sulla Terza Pagina del «Corriere della Sera», che allora era dedicata alla cultura e veniva considerata la pagina più nobile della stampa italiana: «Non c’è mai stato nulla che sia riuscito a farmi dubitare della necessità di salvaguardare la proprietà e l’iniziativa private. Nulla, meno l’urbanistica delle nostre città. La loro espansione a ondate concentriche, che accumula a casaccio quartieri su quartieri, con strade ridotte a crepacci fra strapiombi di cemento, testimonia la cecità degl’interessi privati di proprietari e costruttori, il loro sadico rifiuto di ogni criterio di decenza edilizia, e scuote la nostra fede».

Ma come, avranno pensato tanti lettori del «mitico Indro» come già lo chiamavano negli anni Sessanta, dopo tanta fatica a ripartire nel dopoguerra, tanta fame e tanta emigrazione l’Italia finalmente è tutta un cantiere e il «nostro» lancia allarmi che sembrano roba da comunistoidi? Mugugni che, potremmo scommetterci, dovevano irritarlo ancora di più: ma se sono temi liberali! Ne scriveva Antonio Cederna su «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Ne scriveva sul «Corriere della Sera» il futuro compagno di viaggio a «il Giornale nuovo» Egisto Corradi, che nel giugno 1956 sparava a zero sulla rapallizzazione: «Rapallo, dal 1948 in poi, ha costruito la bellezza di 10mila vani all’anno e in cer- te sue parti è divenuta una periferia di grande città. Parecchi di coloro che qualche anno fa compraro- no un appartamento con […] vista sul mare hanno veduto sorgersi dinanzi alle finestre enormi alveari di cemento». Ne scriveva su «La Stampa» Guido Piovene: «Uno stesso destino accomuna i palazzi barocchi di Palermo e le ville del circondario; queste, salvo poche eccezioni, in uno stato di rovina, quasi di dissolvenza. Si disfanno nella solitudine o sono diventate abitazioni popolari di grado basso, nobili bidonvilles. Il barocco palermitano, coi suoi tesori di fantasia architettonica, già oggi fantasmatico, sparirà interamente se qualcuno non vi porrà riparo».

Solo lui, però, aveva quella capacità di saper parlare alla pancia di chi lo leggeva. Tirando fuori tutte le contraddizioni. Anche dentro il «suo» mondo, da sempre ostile alla sinistra: «Prendiamo Roma. Se c’era una città che doveva badare bene a ciò che faceva e crescere, sì, ma con giudizio, era proprio questa. Oggi non è più nemmeno una città, ma un enorme agglomerato senza struttura, fatto di una zona centrale illustre, ma degradata e impraticabile, e di una immensa periferia squallida e congestionata. Monte Mario, i colli di Tor di Quinto, l’ex quartiere residenziale della Nomentana con le sue ville e i suoi parchi, l’ex città-giardino di Monte Sacro: tutto è stato sommerso. Non c’è più un’area libera. Non c’è più verde». Una corsa insensata all’arricchimento: «Il verde non è un lusso. È un servizio pubblico, come le fognature e l’acqua, di primaria importanza per la salute e l’igiene dei cittadini. Così lo concepiscono le città del Nord Europa, che lo difendono con le leggi e i carabinieri. A Stoccolma ogni abitante ha a disposizione ottanta metri quadrati di verde; a Londra, venti; ad Amsterdam, quindici; a Parigi otto. A Roma ogni abitante ne ha un metro e mezzo, e solo perché può ancora attingere a qualche riserva d’anteguerra come i trenta ettari di Villa Savoia ora aperti al pubblico. È stato l’unico incremento dell’ultimo ventennio. In compenso la popolazione è aumentata nello stesso periodo di circa un milione di unità. Sicché questi ultimi inquilini di Roma hanno avuto in appannaggio mq. 0,03 di verde. La sola città satellite di Vällingby in Svezia mette a disposizione dei suoi 70mila abitanti lo stesso verde di cui fruiscono i quattro milioni di romani e di milanesi sommati insieme».

Per non dire degli assalti cementizi all’Appia Antica: «Andiamo a darci ora un’occhiata in un giorno festivo. Un’occhiata di sfuggita perché non c’è un buco in cui parcare l’automobile. La Regina Viarum è diventata un garage. Una ininterrotta fila di automobili in sosta sommerge il bordo della strada una volta erboso. Appartengono a dei poveracci rifugiatisi qui con mogli e figli nell’illusione di fare una merendina “in campagna”. Hanno disposto sgabelli e tavolini nella polvere tra un radiatore e un paraurti. Ma più che al panino e alla “fojetta”, devono badare che i bambini nel fare il chiasso e ruzzando non finiscano sotto le ruote delle auto

che ininterrottamente sopravvengono. Al di là della strada non ci si può internare. Lo proibiscono i fili spinati che delimitano le proprietà private e i muriccioli che proteggono le ville dei divi e delle dive del cinema, impastati di sarcofaghi, di frammenti di statue rubacchiati ai monumenti dei dintorni, e che formano delle specie d’insaccati archeologici. Chi cerca scampo nella via della Caffarella viene respinto da un fetore di putredine. Promana da un immondezzaio con le carte in regola perché autorizzato con tutti i bolli dal Comune, in mezzo a cui grufola un branco di maiali anch’essi, credo, autorizzati»….

E via così, fino alle denunce contro le responsabilità della Chiesa: «I pionieri del “disgelo” dell’Appia e dei divieti che la proteggevano furono i preti, che nel ’50, in barba a tutto e a tutti, costruirono la Pia Casa Santa Rosa per bambini minorati. Non ci furono proteste: in Italia, si sa, qualunque delitto è lecito, se lo si perpetra in nome dei bambini e sotto il patronato di un santo. Ma, una volta che l’ospizio ebbe infranto il divieto, fu l’arrembaggio e il saccheggio. Accorsero i produttori e gli attori cinematografici. Accorsero i diplomatici. Accorsero le suore. Accorse perfino il ministero dei Lavori pubblici che costruì un intero quartiere di palazzine di cooperativa all’altezza di “Domine, quo vadis?”».

E giù orrori, orrori, orrori. Compresi «la revoca della revoca» delle concessioni edilizie più scandalose. La retromarcia sull’impegno ad abbattere almeno le peggiori schifezze abusive. Lo svuotamento del progetto di Italia Nostra per tutelare almeno alcune aree più a rischio…

Insomma, spiega Salvatore Settis, già direttore della Normale di Pisa, presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali, presidente del Consiglio scientifico del Louvre, quanto scrive il giornalista fucecchiese «non è meno radicale e severo di ciò che altri scrivevano in quello stesso torno d’anni, anzi forse lo è di più: perché il richiamo a un orizzonte liberale di economia e di pensiero non agiva in lui come freno, ma come molla per sostanziare e accrescere la sua indignazione. Come dire: se mi sdegno anch’io, che pure sarei liberale, “la gente” d’ogni parte politica dovrebbe sdegnarsi quanto me».

Ma come: Montanelli ambientalista? Difensore dei beni culturali? Nemico della speculazione cavalcata da tanti imprenditori? Lui, un destrorso anticomunista fino al midollo capace di lanciare lo slogan «turatevi il naso ma votate Dc»? Questo è il nodo: al di là del fatto che quella famosa frase non fu mai scritta, come dimostra il libro Chi (non) l’ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate di Stefano Lorenzetto (fu solo la fortunata sintesi di più editoriali in occasione delle «politiche» del 1976), il giornalista fiorentino non si trincerò mai nel fortino di quello slogan.

Tanto che in decine e decine di elzeviri, reportage, inchieste, rubriche di dialoghi coi lettori, come vedremo, non si turò affatto il naso su questo o quello scempio ai danni del patrimonio, del paesaggio o dell’ecologia. Andando qua e là allo scontro, infischiandosene degli effetti, con poteri e partiti che stavano al di qua della sua linea di demarcazione”. 

La memoria attuale. Fin qui l’incipit del libro di Stella che prosegue elencando tutte le altre battaglie (quasi tutte perse) combattute a difesa del nostro patrimonio e dell’articolo 9 della Costituzione. Dall’assalto edilizio all’avvelenamento delle acque, dalla decimazione degli alberi al saccheggio dei siti archeologici, dal devastato Sud alle coste sarde e alle Dolomiti: non c’è tema sul quale Indro non abbia lanciato l’allarme. Spesso ignorato. Anche da coloro con i quali avrebbe forse potuto dialogare. Offrendo all’Italia nostra prospettive diverse. Peccato. E grazie, Gian Antonio, per aver riportato alla luce testi formidabili, sepolti negli archivi ma quanto mai attuali. Testi che spiegano ciò che l’Italia è oggi e ciò che avrebbe potuto essere. O magari tornare a essere.

*Gian Antonio Stella (Asolo, Treviso, 15 marzo 1953) è storico inviato ed editorialista del Corriere della Sera. Tra i suoi libri: Schei (1996), L’Orda (2003), Negri, froci, giudei & co. (2009), Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli (2014) e i romanzi Il maestro magro (2011), La bambina, il pugile e il canguro (2007), I misteri di via dell’Amorino (2012). Insieme a Sergio Rizzo ha scritto La Casta (2007), La Deriva (2008), Vandali (2011), Licenziare i padreterni (2011) e Se muore il Sud (2013). Con Solferino ha pubblicato Diversi (2019). Nella primavera del 2022 ha realizzato con il regista Andrea Segre il pluripremiato Po, documentario sulla tragedia del Polesine nel 1951, con una riflessione sulla vitalità della memoria.

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