Illustrazione di Beppe Giacobbe

U

n’unione fiscale, a completamento della moneta unica, è l’unico modo per uscire dalla crisi, ammette lo scrittore tedesco Martin Walser. Ma occorre anche tenere presente che la vera Europa è sempre stata una comunità di apprendimento reciproco nel rispetto delle differenze culturali.

A colpi di opinioni sulla crisi, ci siamo divertiti tutte le sere. Su di me tale giochetto produce il seguente effetto: ascolto ogni esperto per vedere se vuole (ancora) l’Europa o se, al contrario, intende farci ritornare a una molteplicità di valute nazionali, senza più l’euro.

Per quanto mi riguarda, condivido a pieno soltanto le opinioni di coloro che auspicano che l’Unione europea diventi anche un’unione monetaria. L’euro esiste. Ed è più che una valuta. È soltanto uno scenario da incubo quello di un Paese europeo costretto ad abbandonare l’euro e a ritornare all’epoca delle valute nazionali, diventando lo zimbello di tutte le speculazioni.

Sono trascorsi parecchi anni da quando il conservatore svizzero Christoph Blocher dichiarò, a proposito del suo Paese, che un’unione monetaria non avrebbe potuto funzionare senza un’unione di budget. E questo l’abbiamo sperimentato tutti nel frattempo, su un piano finanziario. Per fortuna, però, abbiamo osato varare l’unione monetaria pur in assenza di un’unione di budget. Questa deve essere creata oggi, a posteriori. Se questa unione non è irrealizzabile su un piano pratico, non sarà il risultato di una visione, ma di una legislazione costruita poco alla volta.

Differenze culturali: così antiche, così immutabili. Ed ecco che un grande esperto chiede in modo enfatico se la moneta unica debba costringere gli europei ad “appianare le loro differenze culturali”! Una moneta unica, unitamente a una contabilità coordinata, non livellerà le differenze culturali e psicologiche più di quanto non abbiano fatto le lingue straniere dominanti. A differenza di qualsiasi altro continente, l’Europa ha alle spalle una lunga tradizione di apprendimento reciproco e di mutua comprensione.
Se c’è qualcosa su cui gli economisti non devono preoccuparsi, si tratta proprio delle differenze culturali, che sono a tal punto antiche, a tal punto immutabili, che l’economia può essere regolamentata in tutta serenità. Il vero obiettivo è responsabilizzare gli Stati in vista di una gestione comunitaria dell’economia! Oggi tutti auspicano a gran voce una regolamentazione dei mercati finanziari, nella quale la Bce rivesta il ruolo di istituzione centrale di riferimento, in grado di adattarsi a qualsiasi situazione. E ciò basta.

Gli economisti ignorano la solidarietà. Alle spalle abbiamo parecchi secoli nel corso dei quali si sono andati sviluppando ideali comuni. Per quanto mi riguarda, non hanno alcun effetto su di me coloro che intendono dimostrarmi che non possiamo permetterci questa Unione per questo o quel motivo. E poi c’è l’economicismo puro: quando si vede che alcuni trovano da ridire in merito al sistema di perequazione finanziaria (tra collettività territoriali tedesche), si comprende che gli economisti ignorano del tutto il significato della parola “solidarietà”. Né resto maggiormente colpito da chi esige che si facciano aggiustamenti sistemici per mutualizzare i debiti apparsi qui o lì.

L’Europa è la nostra patria letteraria. A noi spettatori non resta che approvare ciò che affermano questi esperti che pontificano oppure respingere quello che ci propongono. Confesso che confido pienamente – e non è una grande sorpresa – in Wolfgang Schäuble, ma dato che in gioco c’è il destino dell’Europa, mi permetto di appoggiare anche la posizione attuale e passata dei letterati, schiera alla quale appartengo.

In una lettera di Friedrich Hölderlin risalente al 1799 si può leggere: “Ma i tedeschi migliori continuano a pensare che tutto andrebbe per il meglio se soltanto il mondo fosse simmetrico. Oh Grecia, con tutto il tuo ingegno e la tua pietà, in che cosa sei dunque fallita?”. Se cito proprio questo brano, non è perché la Grecia oggi è bistrattata nella zona euro, ma perché esso ci mostra fino a che punto un poeta di Nürtingen [nel sud della Germania], all’età di soli 24 anni, si sentisse a quel tempo vicino ad altri paesi europei, fino a che punto questo “estero” fosse la sua patria, fino a che punto facesse parte della sua coscienza e della sua identità. In altri termini, la letteratura è sempre stata europea. L’Europa è la nostra patria letteraria.

Quanto a Nietzsche, egli conclude La nascita della tragedia dallo spirito della musica – opera arretrata e acerba, nella quale descrive la lotta senza fine tra l’apollineo e il dionisiaco (un libro sulla Grecia, né più né meno) – con queste parole: “Quanto ha dovuto soffrire questo popolo per diventare così bello!”.
Non dimentico che questa benedizione della Grecia ha lo scopo di dimostrare che i poeti sono sempre stati europei. E per piacere, ricordate che di tutti gli autori di lingua tedesca Nietzsche è stato il più europeo che sia mai esistito.

Agli occhi dei poeti tedeschi, tuttavia, Francia, Inghilterra, Italia, Spagna e tanti altri paesi non sono meno importanti. Ovunque si guardi, è proprio quando diventa europea che la letteratura tedesca è quanto mai viva. Diventa tedesca nel momento stesso in cui si rivela infedele alla Germania. Nel registro dei sentimenti, chi non avrebbe visto in Madame Bovary un incoraggiamento a osare l’emozione? Strindberg ci ha fatto vedere in che modo la sofferenza potesse essere violenta. Proust ci ha insegnato il sortilegio dell’infanzia evocata. E così via.

Stop ai guastafeste. In questa battaglia che ci vede tutti impegnati sul tema della “buona” Europa, resto sempre molto impressionato dagli esperti che reagiscono caso per caso, ma sempre in senso filo-europeo, e mai contro l’Europa. È proprio quando mi rendo conto che una proposta è dettata da un calcolo politico che sono meno recettivo. A mio parere, i guastafeste non dovrebbero imporre le loro opinioni.

Ebbene, constatiamo che tra gli esperti refrattari all’attuale “road map” (del governo tedesco), sono rari coloro che omettono di pronosticare una catastrofe nel caso in cui la loro visione non prevalesse sulle altre.

È per questo motivo che mi sono permesso qualche flash sui vantaggi di una letteratura rivolta all’Europa. È in Grecia, in Provenza, in Inghilterra e da qualche altra parte ancora che la lingua tedesca ha imparato a muoversi, a camminare a ritmo, a danzare, a piroettare.

Perché i popoli di cui si sta parlando non dovrebbero riuscire, con il nostro aiuto, a impegnarsi a raddrizzare le cose, in modo tale da uscire tutti insieme dalla crisi? Occorrerebbe semplicemente evitare che, mascherata da considerazioni di ordine pratico, l’eccessiva cautela non diventi la regola. Qualsiasi regressione spingerebbe l’Europa nei bidoni dell’immondizia della storia per svariati anni. E per qualche tempo, non sarebbe neppure più concepibile. Mentre proprio concepibile deve restare!

Perché la “buona” Europa non è un club elitario, né una federazione governata da una super-autorità europea. La “buona” Europa è una comunità di reciproco apprendimento, basata sul volontariato e sull’autodeterminazione. È proprio questo che l’Europa ha da offrire al mondo. (da “PressEurop”, 28.8.2012, traduzione di Anna Bissanti)