Buono a sapersi: come l'Africa sta costruendo il suo universo di startup

Dal fintech alla moda sostenibile, il continente coltiva i suoi talenti e fa crescere gli unicorni. Un mercato promettente su cui hanno messo gli occhi in molti

Mondi che cambiano

testo di Antonio Piemontese / Wired¹

Buono a sapersi: come l'Africa sta costruendo il suo universo di startup

Dal fintech alla moda sostenibile, il continente coltiva i suoi talenti e fa crescere gli unicorni. Un mercato promettente su cui hanno messo gli occhi in molti

Mondi che cambiano

testo di Antonio Piemontese / Wired¹

 
Cresce, eccome. Tassi difficili da immaginare in Europa. La scena africana delle startup (in gergo unicorni, Ndr) sta fiorendo. Tante le idee sul continente, spesso esiste anche il know how: a mancare sono i soldi. Ed è così che, sempre più spesso, si realizza l’incontro tra imprenditori alla ricerca di capitali e investitori: che si tratti di realtà governative o venture capital che girano il mondo alla ricerca di opportunità ad alto ritorno. I numeri sono ancora relativamente piccoli paragonati agli ecosistemi occidentali, ma l’entusiasmo non manca.
 
Sono stati 681 i round nel continente conclusi nel 2021, il doppio rispetto al 2020, per un totale di 5,2 miliardi di dollari investiti in totale (triplicato, dati: Partech). Mercati vergini in molti settori, quelli africani, ma non certo dal punto di vista tecnologico. “Non dimentichiamo che nel continente è stato saltato lo stadio di sviluppo del telefono fisso per passare direttamente ai cellulari”, annotava qualche giorno fa Enrica Porcari, a capo del dipartimento It del Cern di Ginevra, nel corso di un evento dedicato alle nuove forme di produzione alimentare alla House of Switzerland di Milano. Porcari ha una lunga esperienza nella cooperazione. “Girare con i contanti può essere pericoloso, così si sono sviluppate e diffuse molto rapidamente soluzioni fintech che ne fanno a meno” aggiungeva Pio Wennubst, agrieconomista e oggi ambasciatore elvetico alla Fao.
 
Sono tre gli unicorni africani apparsi nel 2021: dopo le fintech Flutterwave (Nigeria) e Wave (Senegal) è stata la volta di Andela, anch’essa nigeriana. L’idea? Mettere in contatto sviluppatori africani, dai salari più bassi, con multinazionali globali. Un round di serie, guidato dalla giapponese Softbank, ha aggiunto altri duecento milioni di dollari di capitali. E a Lagos, dove ha sede il quartier generale, sono stati stesi già tremila chilometri di cavi in fibra ottica, che potrebbero raddoppiare a breve.
 
La situazione africana, però, rifugge dalle semplificazioni occidentali: si tratta pur sempre di un continente sterminato, poco omogeneo dal punto di vista politico e culturale. Instabilità, infrastrutture carenti, scarsa alfabetizzazione nelle zone rurali, accesso difficile al talento, necessità di farsi carico di tutta la catena del valore – dalla produzione alla distribuzione al marketing – fanno da contrappeso alle opportunità. Senza parlare dei danni provocati dal cambiamento climatico, di cui si discute molto ma per cui il principale responsabile, l’Occidente, si attarda a pagare.
 
Ma per gli investitori disposti a rischiare, l’Africa resta attraente: anche per l’assenza di regole ben note in Europa. First come, first served: il capitalismo può farsi selvaggio in assenza di normative contro i monopoli e non solo. I primi arrivati nel mercato digitale non avranno da preoccuparsi troppo per il tema della privacy, così caro al legislatore europeo, e con i dati di 1,2 miliardi persone le prospettive non mancano.

Il servizio di SkyTG24 su Startup for Africa, tenutosi a Milano il 19 maggio 2022.

La nascita di un settore privato

“L’approccio verso l’Africa è cambiato. Fino a pochi anni, fa è stato di tipo assistenziale – spiega a colloquio con Wired Filippo Colnago, imprenditore italiano da vent’anni trapiantato in Burkina Faso -. Oggi anche le ong più attente, soprattutto quelle nordiche, hanno capito che non c’è futuro se non si favorisce la nascita di un settore privato locale. Spesso non esiste, nel bene e nel male. Per esempio, nel Paese dove vivo larga parte del Pil deriva dalle rimesse e dagli aiuti stanziati dalla Banca Mondiale, forse addirittura l’80%”. “Ma l’importanza del settore privato – chiarisce l’imprenditore – è quella di creare un sottofondo di servizi e competenze che qui ancora non ci sono”.
 
Per questo, racconta Colnago, “stiamo cercando di mettere in piedi una Camera di commercio in grado di veicolare i primi finanziamenti internazionali che, a propria volta, ne attirino altri. Collaboriamo con le ambasciate, la Fao, l’Unhcr, il Programma alimentare mondiale. Ma si tratta di cominciare da zero, anche perché, in qualche caso, è difficile superare una certa forma di orgoglio che non aiuta”. C’è un rischio di colonialismo economico? Colnago va dritto al punto: “Certo, la tentazione è sempre presente: ma, se è per questo, lo è anche in Europa. Siamo realisti. Nel Sahel si sta vivendo un altro fronte della guerra ucraina: i russi cercano di prendere il posto dei francesi nelle ex-colonie, e lo fanno a modo loro, con la forza. L’Occidente, invece, usa altre carte: entra nei meccanismi economici. Tutto sommato, per la popolazione è meglio”.

Più investimenti nei paesi anglofoni

Quel che è certo è che, in Africa, ogni Stato, ogni territorio fa storia a sé. “Quello che è possibile in Paesi costieri che potrebbero già camminare sulle proprie gambe dal punto di vista politico e tecnologico come la Costa D’Avorio e il Ghana non lo è in Mali o in Burkina Faso”, riprende Colnago. La frattura linguistica si riflette nelle opportunità: “Nigeria e Kenya attraggono l’80% dei capitali investiti nel continente”, scriveva Meghan McCormick, imprenditrice, su Forbes. I dati fanno riferimento al 2020. “Più in generale – proseguiva la manager – i paesi anglofoni cavalcano l’onda del crescente entusiasmo sul fronte investimenti, mentre quelli francofoni vengono tralasciati”. Il 40% della popolazione in Africa parla francese, ma conta solo per il 19% del Pil.

La presentazione su CNN di Kimuli Fashionability di Juliet Namujju, la donna che trasforma i rifiuti di plastica in indumenti.

“Le banche non ci aiutano perché ci vedono come concorrenti”

Al di là delle differenze, qualcosa, comunque, si muove, e spesso si tratta di buone idee. Come Kimuli Fashionability (Mpigi, Uganda), che ha vinto il contest organizzato tra Milano e Torino da Startup Africa Roadtrip e Cariplo Factory: l’azienda produce abiti sostenibili impiegando plastica di scarto (anche quella spedita illegalmente dall’Europa) e dando lavoro ai disabili. La richiesta agli investitori fa sorridere: solo 60mila dollari. “Abbiamo già aperto quindici negozi in Africa e un paio in Europa – afferma l’ad Juliet Namujju -. Cerchiamo soprattutto partner e reseller”.

La premiazione del contest Startup Africa Roadshow. (Foto: Antonio Piemontese)

Margaret Nanyombi, di Her Health (Kampala, Uganda), produce test diagnostici a basso costo per le malattie infettive femminili: 150mila euro la richiesta. Poca cosa, ma l’impatto sul territorio può essere forte: “Le famiglie non possono permettersi gli esami – afferma – e spesso si arriva a una diagnosi solo quando è troppo tardi”.
 
Non sempre le banche danno una mano a chi ha le carte in regola. Anzi. “Noi facciamo fintech, ma gli istituti di credito non ci aiutano perché ci vedono come concorrenti”, racconta sul palco dell’evento di Milano Paul Kirungi, ad di Zoficash (Kampala, Uganda). L’azienda permette ai dipendenti di ottenere anticipi sugli stipendi per far fronte a spese impreviste. Kirungi chiede mezzo milione di euro e stima il mercato per la sua idea in 479 milioni di dollari.
 
Premiate anche Phy2App (agritech, Nairobi, Kenya), Gorilla Conservation Coffee (Bwindi, Kenya), brand di caffè con il pallino della tutela dell’habitat dei primati e che vende già in Stati Uniti, Nuova Zelanda e Regno Unito, e Marula Proteen (Kampala, Uganda), che produce alimenti per animali e fertilizzanti a partire dalla frazione organica.

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