Chi ha inventato i coriandoli? La disputa tra il monello austro-triestino e il garibaldino milanese avo di Indiana Jones
Finché farò l’ingegnere sarò un bruto e niente altro: l’ingegnere si può paragonare a un bue… è l’essere ineccitabile per eccellenza, non gli viene neanche in mente che ci sia qualcos’altro nella vita oltre agli olii lubrificanti…
Carlo Emilio Gadda (1893-1973), laureatosi in Ingegneria idraulica al Politecnico di Milano nel 1920 solo per assecondare le aspirazioni di sua madre rimasta vedova
Oltre che nelle piazze, i coriandoli hanno fatto il loro ingresso a sorpresa, per bocca del piccolo Gimmi, anche nella soap opera Un posto al sole, Rai Tre, che in alcune serate ha superato i due milioni di spettatori netti. Ma chi ha inventato i coriandoli? E com’è possibile che a contendersi l’invenzione di una delle cose più ludiche, pazze e colorate del mondo siano stati a fine ’800, a onta di Gadda, due ingegneri del Bel Paese, l’austro-triestino Ettore Fenderl e il milanese Enrico Mangili? Già, perché pochi sanno che queste icone universali dell’allegria carnevalesca portano indelebile il marchio made in Italy. Della diatriba fra i due ingegneri per la paternità dei minuscoli dischetti di carta che in questi giorni hanno ricoperto le strade di mezzo mondo facendo godere tutti i bambini e impazzire portinaie e spazzini, dirò più tardi. Adesso voglio raccontare perché i coriandoli si lanciano e perché si chiamano così.
L’usanza di scagliare in aria piccoli oggetti è una tradizione ereditata dagli antichi greci. Gli storici la chiamano phyllobolia, cioè lancio di foglie, perché si gettavano fogliame e petali di fiori (ma anche rametti o gusci d’uovo ripieni di essenze) agli atleti vittoriosi o agli eroi di guerra, sui defunti nei cortei funebri e agli sposi nei banchetti nuziali: per esempio, il poeta Stesicoro, morto a Catania nel 555 a.C., lo racconta a proposito del matrimonio a Sparta – che col senno di poi oggi si direbbe poco fortunato – fra Elena e Menelao.
Il primo cenno della parola “coriandolo” si registra nel Rinascimento, allorché l’agronomo Giovanvettorio Soderini (1526-1596), “gentiluomo fiorentino” autore di libri di botanica, nel suo Trattato della cultura degli orti e giardini menziona l’uso di ricoprire di zucchero i semi di coriandolo (la famosa spezia usata in cucina) per trasformarli in piccoli confetti che poi, nei festeggiamenti carnevaleschi, era consuetudine lanciare dal balcone o dai carri. E infatti, ancora oggi i coriandoli di Carnevale sono chiamati confetti nel resto del globo: per esempio, in Inghilterra carnival confetti, in Francia confettis de carnaval, in Spagna confeti de carnaval, in Germania karneval konfetti, in Portogallo confete de carnaval, in Svezia karnevalskonfetti, in Russia карнавал конфетти – ovvero karnaval konfetti – e in Turchia karnaval konfeti.
La pianta erbacea del coriandolo (Coriandrum sativum) è conosciuta anche come prezzemolo cinese e ha le sue radici nella parola greca korios (cimice) seguita dal suffisso -ander (somigliante) per via dell’odore intenso e non proprio amabile per le narici che proviene dai suoi frutti acerbi o quando se ne sfregano le foglie. Ma anche coi semi di coriandolo ricoperti di zucchero, il divertimento del Giovedì Grasso era poco conveniente e perciò, con il passare degli anni, si ricorse a espedienti sempre più a buon mercato. Dapprima ricoprendo i semi con del gesso colorato, più tardi sostituendoli con semplici palline di gesso e basta.
Finché non si arriva ai due anni cruciali della storia del coriandolo come lo intendiamo noi: il 1875 e il 1876. Iniziamo da quest’ultimo, allorché nel cervello di un ragazzino di Trieste con scarsa voglia di studiare, Ettore Fenderl, nato quando la città era ancora sotto il dominio austriaco, si accende una lampadina durante l’annuale parata delle maschere.
Come andarono le cose l’ha raccontato lui stesso 81 anni più tardi, nell’intervista concessa il 4 marzo 1957 alla trasmissione della Rai Radio per le scuole:
Rivelò La Domenica del Corriere nel dicembre del 1966:
Ma Fenderl, appassionato e generoso uomo di scienza, era soprattutto orgoglioso delle sue invenzioni.
Con parte dell’indennizzo ricevuto per la vendita nel 1936 del nuovo edificio che possiede a Roma sul lungotevere in Augusta (abbattuto per collocarvi l’Ara Pacis), Fenderl acquista un palazzo a Vittorio Veneto, dove si trasferisce nel 1943 e poi morirà nel 1966, a 104 anni.
Nel 1952 s’era fatto costruire nel cimitero di Sant’Andrea della cittadina a due passi da Treviso il tablino tombale da lui ideato nel ’45.
Alla parete del tablino ha voluto una lapide con l’elenco delle sue attività. Tra queste, anche la “piccola invenzione” dei coriandoli di carta.
Ma torniamo al 1875 e all’altro ingegnere inventore. Siamo alle porte nord-orientali di Milano, nel Comune di Crescenzago poi inglobato nella città nel 1923 (oggi c’è pure una fermata della linea verde del metrò, di fronte alla sede della casa editrice Rizzoli), dove il Cavalier Enrico Mangili, industriale e filantropo classe 1840, possiede una stamperia di tessuti all’interno di Villa Lecchi, storica residenza che nel 1816 aveva ospitato l’imperatore Francesco I d’Austria la notte precedente il trionfale ingresso a Milano dopo la caduta di Napoleone (attualmente è nota come Villa Pallavicini, dal nome dell’associazione culturale che ne occupa i locali dal 1996).
I macchinari della filanda di Mangili funzionavano grazie alla forza idraulica di una ruota che sfruttava la corrente del Naviglio Martesana: oggi è ancora visibile il punto dov’era posizionata.
Nel 1875 l’Amministrazione di Milano, riflettendo sui ripetuti incidenti che ogni anno squassavano la settimana di Carnevale, s’interrogava se vietare o meno il lancio dei coriandoli tradizionali, come gessetti e confetti, che però spesso – nell’eccitazione collettiva della festa -diventavano oggetti assai meno innocui, come per esempio arance, uova marce o addirittura sassi e monete arroventate.
Pare che già nel 1597 Ferrante de Velasco (il governatore spagnolo di Milano che per rendere più agevole il passaggio dei cortei carnevaleschi l’anno successivo allargherà lo stretto passaggio tra via Larga e corso di Porta Romana) avesse emesso una “grida” per imporre agli equipaggi dei tipici barconi (o carri) che sfilavano lungo l’antico corso di non esagerare con i lanci per non incorrere «in una pena di scudi 25 oppure due tratti di corda in pubblico» per chi fosse stato sorpreso a «tirare dalle finestre o dalle carrocchie uova d’acqua muschiata et veramente odorifera».
Ma ecco che il geniale Mangili, osservando i dischetti che le macchine perforatrici fanno cadere dai fogli traforati usati in sericoltura come lettiere per l’allevamento dei bachi da seta (a Milano li chiamano bigatt), ha la trovata dei coriandoli di carta, meglio se a colori. Non li brevetta e il primo anno li distribuisce gratuitamente tra i bambini della zona. La novità piace subito e un giornalista dell’epoca lo definisce: «Industriale attivo, ma artista nell’anima. È l’uomo delle trovate». Dopo un po’ inizia a produrli e li commercializza con successo: nei Carnevale meneghini di inizio secolo gli ambulanti li venderanno in Galleria e in Centro a 5 o 6 centesimi per ogni misurino di caldarroste.
Piccoli frammenti di carta, ma micidiali come il napalm! A Parigi tra il 1919 e il ’33 ne vietarono addirittura la vendita, considerandoli “veicoli di diffusione di germi e batteri”. La verità è che ovunque la pulizia delle strade a Carnevale costa parecchio, non a caso vanno sempre più di moda i coriandoli biodegradabili.
Tra l’altro, essendo i coriandoli cosa volatile ed effimera, Mangili salvò le teste di molti milanesi da graffi e contusioni. Ma non è questo il motivo per cui lo considerano un benefattore, bensì lo slancio con cui finanziò un asilo per i figli delle operaie della filanda (ancora oggi, nel giardino della scuola materna di via Padova 269, si può ammirare la sua statua).
Faceva tanto bene agli altri, l’imprenditore Mangili, ma lo si potrebbe anche definire un bel peperino, pieno d’idee e mai fermo un istante: a vent’anni, per esempio, aveva combattuto con Garibaldi a Castel Morrone nel Casertano (1860) e poi a Bezzecca in Trentino (1866), mentre la morte lo ha ghermito a 55 anni, per una polmonite fulminante, sul piroscafo che dall’India lo stava portando a San Francisco.
E i “suoi” coriandoli, come se la passano in tempi di covid? Non male. La loro capitale italiana sta a due passi da Treviso, a Porcellengo di Paese, dove un imprenditore calabrese di nascita, oggi di 79 anni, possiede dal 1983 la Karnaval, fabbrica di coriandoli che esporta in mezza Europa. E non si può negare che avesse il destino scritto nel nome, visto che si chiama Franco Carnevale. I suoi macchinari, alcuni progettati da lui stesso e realizzati con l’aiuto di un amico esperto in meccanica, sminuzzano e mescolano due tipi di carta: quella di qualità proveniente dalle rese di vecchi manifesti di due tipografie romane, e quella dei rotoli di tipografia creati apposta, nei classici rosa, verde acqua e viola, «colori un po’ spenti», confessa Carnevale, «perché così costano meno».
In conclusione, ad attribuirsi la paternità dei coriandoli come li intendiamo oggi sono stati due ingegneri italiani. La differenza sostanziale fra la trovata del genietto triestino e quella dell’ex garibaldino trisnonno di Indiana Jones è che nel secondo caso – precedente di un anno – i dischetti di carta furono quasi subito commercializzati ed entrarono rapidamente a far parte della tradizione. Quindi, forse anche per una mia sana dose di ambrosiano campanilismo, considero Enrico Mangili il vero papà dei coriandoli.
Come se non bastasse, gli attribuiscono pure l’invenzione delle stelle filanti, altro colorato must carnevalesco, per le quali si sarebbe ispirato alle striscioline di carta che scorrevano negli apparecchi telegrafici per ricevere i segnali dell’alfabeto Morse. Ma questa, come commenterebbe Moustache, l’irresistibile barista del film Irma la dolce, è un’altra storia.•
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