Nel Sudafrica dopo Mandela:
i fischi non fermano l’era Zuma

Jacob Gedleyihlekisa Zuma (Nkandla, 1942), leader dell’African National Congress, rieletto presidente del Sudafrica. Ha 5 mogli e 20 figli dichiarati.

“Abbiamo avuto tutti i media contro…ma abbiamo vinto”, queste le prime parole di Jacob Zuma, riconfermato presidente del Sudafrica, a pochi giorni dalle elezioni del 9 maggio che hanno decretato la vittoria per niente scontata dell’African National Congress (Anc), il più importante partito politico sudafricano, fondato nell’epoca della lotta all’apartheid e rimasto ininterrottamente al governo del paese dalla caduta di tale regime, nel 1994, a oggi.

I media sudafricani e internazionali in effetti davano l’era Zuma finita da tempo, almeno da cinque mesi. Già tanto tempo è passato dalla morte di Mandela, l’uomo che ha reso possibile in Sudafrica l’impossibile. Nella giornata commemorativa per il suo “passaggio” a miglior vita, il quarto della lunga serie di 14 di lutto nazionale indetti nel continente africano, quello che si è svolto nel grande stadio di Soweto, di fronte ai potenti della Terra e al mondo intero, il presidente Zuma era stato fischiato pesantemente in diretta mondiale.

Ma quelle erano le ore della commozione e dell’emozione palpitante di un intero continente. Le ore di Obama che si inchinava al padre più grande, quello che ha reso possibile anche la sua elezione di uomo nero a presidente degli Stati uniti d’America, le ore dell’inno nazionale e delle chiese di tutti i culti aperte giorno e notte, le ore nelle quali in Sudafrica tutti si sono sentiti per la prima volta davvero fratelli e sorelle. Tutti orfani di Tata Madiba, il padre della nazione.

Ora l’Anc, il partito di Mandela, vince con il 62 per cento dei consensi. Il dato è di poco inferiore a quello di vent’anni fa, quando a guidare il partito c’era proprio Mandela, uscito di galera, dopo 27 anni. Da nemico numero uno della patria, quel gigante di umanità di Mandela è diventato il primo presidente nero della nazionale arcobaleno. Da prigioniero a presidente grazie a quello che in Africa viene chiamato “il fattore R”. R come riconciliazione, parola che in Sudafrica si pronuncia abbassando la voce e chiedendo mille volte ancora grazie a Tata Madiba.

Ma il 62 per cento dell’Anc di Zuma non si deve solo al fattore R, anche, naturalmente, ma non solo. Oggi la popolazione sudafricana ha per il 20 per cento una età inferiore ai 24 anni. Il Sudafrica è giovane, anzi giovanissimo. Questi giovani erano appena nati quanto Mandela uscì di prigione. Non hanno memoria diretta dell’apartheid, né del fiume di persone nere che scortano Nelson Mandela uscito di prigione, a Città del Capo, poi a Paarl, quindi nelle township. Molti di loro vivono nelle township, ma hanno la televisione satellitare e usano Facebook.

L’interpretazione grafica di un giovane designer sudafricano della scheda elettorale.

Helen Zille (Johannesburg, 1951), leader di Alleanza Democratica, è una giornalista da sempre schierata su posizioni progressiste e liberali. Ha cominciato la sua carriera politica come attivista anti-apartheid e come militante del Black Sash, movimento di giovani donne bianche contrarie al regime nazionalista bianco.

Tutti sanno della corruzione dentro all’Anc e molti conoscono il volto di Helen Zille, leader del DA (la Democratic Alliance, principale partito di opposizione all’ANC), una giornalista che si è irrobustita politicamente con l’esperienza di sindaco di Città del Capo. Il suo partito, bianco per lo più, ha giocato l’intera campagna elettorale proprio sugli scandali e contro Zuma, ma si è fermato al 22%. Zille resterà alla guida di Città del Capo e non entrerà nel Parlamento, che pure al Capo ha sede.

Se come pare Zuma chiamerà come suo vice Ramaphosa, l’uomo che ha gestito le celebrazioni per l’addio a Mandela, il politico che piace alle banche internazionali e che parla, come Madiba, contemporaneamente lo xoosa e lo zulu, le lingue delle township e l’africans, la lingua degli africaner bianchi, darà segno di continuità, ma anche di voglia di mordere il futuro.

L’intero continente africano guarda al Sudafrica come al luogo del futuro possibile. L’economia della nazione arcobaleno continua a crescere. Lo si deve all’intuizione di Madiba, aprire ai capitali privati e alle banche internazionali, ma mantenere nelle mani dello Stato le leve economiche che contano. Oggi il Sudafrica è il luogo delle opportunità. L’erede più prossimo di Mandela è proprio Ramaphosa, delfino tra l’altro della seconda moglie di Tata Madiba, Winnie, vera icona della lotta all’apartheid in Sudafrica, considerata nelle township tanto quando Tata Madiba, se non, in alcuni casi, perfino di più. E’ stato il suo il volto che molti neri sudafricani hanno visto nei lunghi anni di prigionia del marito, sono state sue le parole alle quali si sono abbeverati per anni.

Il 62 per cento dell’Anc di oggi lo si deve a tutto questo, anche se il paese non è esente da problemi. Un operaio nero prende un sesto dello stipendio di un operaio bianco, nonostante in alcune zone del Paese i bianchi abbiano il coraggio di parlare di “black power” (tema ripreso da certa stampa internazionale), solo perché le aziende pubbliche e private oggi hanno l’obbligo di assumere neri, coloured, indiani e bianchi secondo percentuali differenti. Serviva venti anni fa per dare anche ai non bianchi la possibilità di essere assunti. Serve ancora, naturalmente. Anche questo significa riconciliazione, in una paese che è stato diviso per decenni.

La vera sfida ora, per l’Anc, per il Sudafrica post Mandela e per l’intero continente africano, sarà quella di far prevalere il buon senso. Se l’Anc porterà avanti, di concerto con il DA la riforma dell’istruzione, allora tutti, senza distinzione di colore, avranno davvero una opportunità. Era questo il grande sogno di Tata Madiba. E ora, con il paese del tutto pacificato, si può e si deve almeno provare.

Letizia Magnani è nata a Cervia, in riva al mare. È giornalista professionista e ama l’Africa. Di ritorno dal Sudafrica, dove ha avuto la fortuna di vivere il lungo addio senza lacrime a quel gigante di umanità che è Nelson Mandela, ha deciso di lasciare in parte i suoi impegni come consulente di comunicazione (fra le altre cose è a capo dell’ufficio stampa delle Giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù) e di dedicarsi solo alla ricerca di storie da raccontare. Per il resto ha una laurea in scienze della comunicazione (con lode!) all’Università di Siena e un master in giornalismo investigativo in Urbino. Ha pubblicato diversi volumi di ricerca, il primo sul giornalismo di guerra, C’era una volta la guerra…e chi la raccontava. Da Iraq a Iraq: storia di un giornalismo difficile (Roma 2008); il secondo sulla storia dei 100 anni di Milano Marittima: Milano al Mare. Milano Marittima: 100 anni e il racconto di un sogno (Ravenna 2011). Sono di prossima pubblicazione Ustica e i giornali (ricerca condotta per l’Associazione parenti delle vittime e l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna” e La battaglia delle idee è la forma di democrazia. Vita e storia politica di Ariella Farneti (1921 – 2006) (Forlì, 2013).

A PROPOSITO

Due tre cose che sappiamo di lei, Graca Mandela, first lady d’Africa

Nelson Mandela con la terza moglie Graca Machel.

Graca Machel, oggi vedova Mandela, è l’unica donna nella storia a essere stata “first lady” di due diverse repubbliche: lo è stata del Mozambico dal 1975 al 1986 (il suo primo matrimonio è stato con il primo presidente di quel paese africano diventato indipendente, Samora Machel, morto nella caduta del suo aereo nel 1986) e del Sudafrica (ha sposato Mandela il 18 luglio del 1998).

Nata (come Graça Simbine) a Incadine nel 1945, quando era parte del Mozambico portoghese, Graca è un avvocato al servizio dell’ONU e di molte organizzazioni internazionali per i diritti delle donne e dei bambini. La notorietà era arrivata, per lei, per aver prodotto il Rapporto sull’impatto dei conflitti armati sui bambini, noto come Rapporto Machel, pubblicato nel 1996: in esso si esortava l’UNICEF a trovare una sistemazione per i bambini esiliati o senza casa e i fondi per la loro rieducazione. Il rapporto si concentra anche sulle mine antiuomo: queste armi letali (secondo Graca, allora ministro dell’Istruzione del Mozambico) dovrebbero essere eliminate a carico delle nazioni che le commissionano e le utilizzano e questo impegno di bonifica dovrebbe essere parte di tutti gli accordi di pace. In generale, il suo Rapporto ha dimostrato alla comunità internazionale la necessità di adottare misure efficaci per la promozione e la protezione dei diritti dei bambini vittime dei conflitti armati (tema che portò anche a Rimini nel 2008, nel corso delle Giornate internazionali di studio indette annualmente dal Centro Pio Manzù). Da anni è lei la vera anima della Fondazione Mandela, che si batte contro una delle emergenze del paese e dell’Africa: l’Aids.

Alcune delle idee chiave di Graca affiorano in un’intervista rilasciata tempo fa al quotidiano spagnolo El Paìs.

A come Africa. “L’Africa deve sviluppare innanzitutto un concetto di unità. Non avrà opportunità da quel tipo di cooperazione se ogni paese continuerà a funzionare per conto suo. Non è un caso che l’Europa si sia unita. Anche l’Africa dovrà farlo”.

E come Educazione. “Quando divenni ministro dell’Educazione, il Mozambico aveva il più alto tasso di analfabetismo di tutta l’Africa. Fu un tremendo sforzo. Ma non l’ho fatto da sola. Lo feci nel contesto di un governo che dava priorità all’educazione. In cinque anni riuscimmo a fare scendere il tasso di analfabetismo dal 93% al 72%”.

M come Mandela. “Mandela e l’allora moglie Winnie mi scrissero una lettera dopo l’assassinio di Samora Machel. Winnie venne anche al funerale. Dopo, anni più tardi, ci siamo conosciuti. Mandela era per me lo stesso che per tutto il mondo: un mito, un insieme di valori”.

R come Riconciliazione. “Mandela, dopo il carcere, ha svolto il ruolo che gli era stato chiesto, quello di calmare e di educare i giovani affinché capissero che non c’era un’altra strada oltre alla riconciliazione. Lui racconta sempre di essersi trovato in uno stadio pieno di gente giovane che chiedeva vendetta per i tanti massacri e di essere stato fischiato quando si alzò a parlare di riconciliazione. I giovani non erano d’accordo e dovette ripetere quattro volte quello che doveva dire, finché riuscì a farsi sentire. Il fatto è che solo lui poteva riuscirci. Il fatto è che solo lui poteva riuscirci per il rispetto che gli portavano, per la sua statura politica e umana. La riconciliazione è stata un processo e Mandela, a partire da un certo punto, seppe di essere lui quello che doveva guidarla”.

S come Studio. “Venivo da una famiglia povera e mi era chiaro che se avessi voluto essere qualcosa nel mio Mozambico era importante studiare. Ricevetti una borsa di studio e andai a studiare a Lisbona, in Portogallo, con un certo timore. Ma avevo una forte volontà e per fortuna a Lisbona c’erano altri studenti delle altre colonie: Angola, Capo Verde e istintivamente ci organizzammo. Io contattavo tutti, l’informazione clandestina arrivava rapidamente, lì si sono aperti i miei orizzonti e ho cominciato ad avere un rapporto con il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico). Nelle vacanze andavo a lavorare a Londra, pulivo delle stanze. E lì imparai l’inglese ed entrai in contatto con molte persone dei comitati di appoggio ai movimenti di liberazione. Poi mi legai a una cellula clandestina del Frelimo che stava ad Algeri. In quel periodo realizzai il mio sogno di studiare e capii l’oppressione cui veniva sottoposto il mio popolo”.

Desmond Mpilo Tutu (Klerksdorp, 1931), arcivescovo anglicano che raggiunse una fama mondiale durante gli anni ottanta come oppositore dell’apartheid. Vinse il premio Nobel per la pace nel 1984. A lui si deve l’espressione Rainbow Nation (“nazione arcobaleno”) per descrivere il Sudafrica.

V come Vescovo Tutu. “Io, dopo la morte di Samora, non volevo risposarmi, lo avevo detto. E non perché non avessi con lui una unione profonda. Ma ci vedevo una certa complicazione con i miei obblighi vitali, con i miei figli e con il mio lavoro in Mozambico. E non mi piaceva nemmeno la stessa responsabilità sociale… Così il vescovo Desmond Tutu, che per noi è stato un grande amico, parlò con noi due apertamente e poi mise le cose in chiaro pubblicamente. Ha usato quel rapporto di amicizia per fare una cosa che credeva opportuna. Diciamo che confidando nella nostra amicizia mise le carte sul tavolo. Altre persone non osavano parlarcene, ritenevano che lo sposarsi fosse una questione privata”.