Nel Sudafrica dopo Mandela: il lungo addio senza lacrime

Un candidato nero per il partito bianco. È anche questo il segno che i tempi in Sudafrica sono cambiati davvero. L’insegnamento di Nelson Mandela, Tata Madiba, il “perdono” di cui bianchi e neri parlano nella nazione arcobaleno, la più europea dell’Africa, ha portato Mamphela Ramphele, con la pelle nera, alla guida del partito dei bianchi. Alleanza Democratica, principale partito di opposizione, ha annunciato la sua fusione con la formazione partitica “Agang” fondata alcuni tempi fa da Mamphela Ramphele, 66 anni, ex attivista anti apartheid, per contrastare l’Anc, il partito di Mandela piegato da faide interne e infiacchito dalla corruzione dilagante fra i suoi dirigenti. Non è un caso che nel corso dei funerali per Tata Madiba i neri di Soweto, la più grande township del paese, a Johannesburg, abbiano fischiato pubblicamente, addirittura di fronte ai big della terra arrivati per onorare il padre della patria, il presidente in carica, Jacob Zuma.

Con Mandela se ne è andato per sempre il ricordo dei tempi più bui per il Sudafrica, quelli dell’odio razziale e della segregazione. Ma resta, incisa nella terra e nella mente di ogni cittadino del Sudafrica, la speranza. Quella speranza che Tata Madiba, 27 anni in carcere, perché nero, di cui 18 passati nell’inferno di Robben Island, a un tiro di schioppo da Città del Capo, ha donato al Sudafrica studiando la lingua degli oppressori, l’Africans. Per questo, anche, Mandela non ha mai voluto che i nomi delle strade e delle piazze venissero cambiati. Anzi, oggi, viaggiando per questo continente straordinario si incontrano i nomi delle strade scritti in almeno tre lingue, lo Xhosa, l’Africans e l’inglese. Si incontrano statue degli eroi di tutte le etnie e le razze. Eroi che magari hanno ucciso, violentato, oppresso i neri e i meticci del Sudafrica. Non importa, Mandela ha insegnato alla sua gente, e al mondo intero, a diventare un unico popolo, con il perdono, che lui chiamava “convivenza pacifica”. Oggi naturalmente, soprattutto dopo la sua scomparsa, ci sono in molti luoghi del Sudafrica e dell’immenso continente africano, anche enormi statue del padre più nobile e più buono, quello che Obama ha definito “gigante di umanità”.

Ho avuto la fortuna di essere in Sudafrica quando Tata Madiba “se ne è andato”. Ho vissuto e raccontato per numerosi giornali e riviste italiani e non solo, il “lungo addio senza lacrime”, la commozione della nazione arcobaleno per quel padre buono e nobile che è diventato un po’ il padre di tutti. Quello che vi propongo dalle colonne di Giannella Channel è un percorso nel quale racconterò le mie storie dal Sudafrica, per tentare di spiegare come sta cambiando il paese e dove sta andando il continente africano.

Letizia Magnani davanti alla sede del Parlamento, con un collega della tv pubblica. Dietro di loro, alcuni totem per Nelson Mandela.

(Città del Capo)

Quando sono atterrata all’aeroporto internazionale di Città del Capo tutto quello che pensavo era: “Sono nella terra di Mandela”. La luce africana ha fatto il resto e mi sono innamorata subito della bellezza di questa nazione.

La nazione arcobaleno, piena di contraddizioni, ma anche di opportunità. Qui la parola crisi non esiste, con pochi spiccioli e un kaftano si può essere felici, anche se, nella zona più europea della “città madre”, a Sea Point e a Camps Bay, per la strada, si incontrano solo Ferrari, Lamborghini e Maserati.

Poi è arrivato l’annuncio che tutti in Sudafrica sapevano che sarebbe arrivato, ma che speravano di non dover mai sentire davvero. Il presidente Jacob Zuma alla tv pubblica, poco dopo la mezzanotte del 5 dicembre, con la voce strozzata dal pianto annuncia l’indicibile: “Tata Madiba, nostro padre, nostro figlio, è passato”. Non dice è morto, non lo dirà mai, ma solo “è passato, se ne è andato”, come se in questo modo quel passaggio dovesse o potesse essere più lieve.

Dal momento dell’annuncio della morte di Mandela tutte le chiese di ogni culto sono rimaste aperte. Poi ovunque, per strada, nelle piazze, perfino in casa, sono iniziati i balli e i canti.

È questo che i sudafricani, che si sentono tutti “fratelli”, “sorelle” e “figli” di Tata Madiba, fanno. Pensano, pregano, magari cantano. Come un gruppo di ragazzi vestiti di rosso che in un angolo della Main Road, proprio di fronte a me, si sono fermati e hanno intonano l’inno nazionale del Sudafrica. Quel “Dio salvi l’Africa” per il quale Tata Madiba ha a lungo lottato. “Amandala”, poi dicono in coro, alzando il pugno sopra la testa. Il gesto più semplice, che rende tutti uguali e liberi. Sono serviti anni di lotta, di sofferenza, di galera, poi il perdono, interiorizzato e condiviso, diventato negli ultimi vent’anni più che rito, identità del collettivo, voluto, inseguito, insegnato a tutti da quel “gigante di umanità” che è Mandela, per far sì che oggi questi giovani possano alzare il pugno al cielo e gridare da uomini liberi, “Amandala”.

Una sagoma di Tata Madiba che si affaccia dal balcone di un club su Long Street, la via dei locali di Città del Capo.

In Sudafrica l’hanno chiamato il “lungo addio”, 14 giorni di commemorazioni, con tanti eventi ovunque nel paese. E per i funerali non si sono versate lacrime, si sono alzati canti e fatti balli collettivi, in un grande inno alla vita.

Quella di Tata Madiba è stata una vita così straordinaria che non servono nemmeno le parole. Se questo popolo oggi vive in pace lo deve a Tata Madiba, che ha donato al Sudafrica e al mondo libertà, legalità e pace, appunto.

Certo le differenze del colore della pelle in Sudafrica si avvertono ancora, fortissime. Mi sono resa conto di essere bianca atterrando a Città del Capo, perché qui mi guardano e mi trattano da donna bianca. Ma anche se le differenze ci sono, è pur vero che oggi tutto il popolo, senza distinzione alcuna, piange il padre di questa nazione che ha saputo perdonare.

“Il punto – mi ha spiegato Fatima, che ho incontrato in uno dei pulmini pubblici coi quali si muovono per lo più i neri – è che la notizia della morte di Tata Madiba sapevamo che sarebbe arrivata da mesi. Siamo tristi naturalmente, ma in fondo è giusto così. Tata Madiba ha 95 anni. Mi pare l’età giusta per passare. Era stanco da tempo”. Fatima, 35 anni, infermiera, vive a Khalysha, la township più estesa della città, chilometri e chilometri di baracche. Sulle lamiere ci sono le padelle delle parabole, con le quali gli abitanti della township ricevono i canali satellitari.

La township è alle porte di Città del Capo, fra la zona dei grattacieli, dove ci sono i quartieri generali delle multinazionali – Samsung, Vodafone, Nike, American Airline -, la collega all’aeroporto, eppure qui non si trovano libri, né sale cinematografiche. Solo alcol, birra e brandy locale per lo più, e padelle per la tv satellitare.

“Mi sento parte anche io del mondo grazie a Tata Madiba – mi ha detto Fatima –. Per questo anche io, come i miei fratelli, canto e ballo per lui. Rido per lui. La morte non è brutta, se in vita sei stato un uomo giusto. Tata Madiba ama ridere e noi oggi ridiamo per lui”.

Letizia Magnani è nata a Cervia, in riva al mare. È giornalista professionista e ama l’Africa. Di ritorno dal Sudafrica, dove ha avuto la fortuna di vivere il lungo addio senza lacrime a quel gigante di umanità che è Nelson Mandela, ha deciso di lasciare in parte i suoi impegni come consulente di comunicazione (fra le altre cose è a capo dell’ufficio stampa delle Giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù) e di dedicarsi solo alla ricerca di storie da raccontare. Per il resto ha una laurea in scienze della comunicazione (con lode!) all’Università di Siena e un master in giornalismo investigativo in Urbino. Ha pubblicato diversi volumi di ricerca, il primo sul giornalismo di guerra, C’era una volta la guerra…e chi la raccontava. Da Iraq a Iraq: storia di un giornalismo difficile (Roma 2008); il secondo sulla storia dei 100 anni di Milano Marittima: Milano al Mare. Milano Marittima: 100 anni e il racconto di un sogno (Ravenna 2011). Sono di prossima pubblicazione Ustica e i giornali (ricerca condotta per l’Associazione parenti delle vittime e l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna” e La battaglia delle idee è la forma di democrazia. Vita e storia politica di Ariella Farneti (1921 – 2006) (Forlì, 2013).