Dove c’è vigna, c’è civiltà. Le parole sagge che mi regalò Ermanno Olmi

La voce ferma e pacata di Ermanno Olmi si è spenta per sempre, ieri a Asiago, a 86 anni. Mi piace ricordare quel grande regista che abbiamo imparato ad amare al cinema (e, personalmente, anche nelle indimenticabili serate del Cenacolo Missoni) ripescando le parole che mi regalò in occasione di un’intervista in cui illuminava una parola chiave nel rapporto uomo-natura: il rispetto. Olmi, che coltivava la memoria forte della sua infanzia contadina, era convinto che ci salveranno i coltivatori della terra e la loro civiltà, a differenza delle lusinghe tecnologiche e finanziarie.

Il celebre regista e sceneggiatore Ermanno Olmi (Bergamo, 1931 – Asiago, 2018).

«Dove c’è vigna c’è civiltà: lì io la cerco e lì cerco di rivivere il rito del vino». «Ci salveranno i contadini». «Il nostro futuro sarà l’agricoltura». Ermanno Olmi, nel mezzo di una grave crisi economica globale, lancia una profezia culturale e chi conosce da anni il regista de L’albero degli zoccoli sa che questa leggenda vivente del nostro cinema poetico e non futile, come i poeti, scorge il futuro in anticipo. Olmi lancia questa profezia provocatoria negli stessi giorni in cui i giornali danno spazio al grido d’allarme dei contadini («Siamo sull’orlo del collasso, redditi crollati per il tracollo dei prezzi, dal produttore al consumatore aumenti fino al 1000 per cento» denuncia al Corriere di Romagna il presidente degli agricoltori romagnoli Valter Bezzi). E lo lancia dal nido d’aquila che è la sua casa sull’Altopiano di Asiago, dove lo costringe una frattura del femore. Una scelta geografica sorprendente per un uomo nato a Bergamo da una madre di famiglia contadina e da un padre ferroviere trasferitosi alla Bovisa, periferia povera (allora) di Milano.

Una curiosità: come mai è approdato sull’Altopiano e ha scelto di vivere qui?

“È una scelta che risale a mezzo secolo fa. Quell’anno, memorabile anche per il premio Nobel per la letteratura assegnato al nostro Salvatore Quasimodo, io capitai da Milano ad Asiago, per incontrare Mario Rigoni Stern e avviare così una creativa collaborazione per il Sergente nella neve prima e poi con i Recuperanti…”

Quell’incontro tra un grande regista e un grande scrittore ha dato buoni frutti: due sguardi, due linguaggi e due mondi che decidono di chinarsi l’uno verso l’altro.

“L’Altopiano, allora, era una sorta di presepio, un trionfo della natura con cui contadini e boscaioli vivevano in serena sintonia. Un territorio isolato, autosufficiente. Pochi gli scambi con la pianura: formaggio contro sale. Una comunità saldata da un’unità culturale e di intenti, guidata da un governo locale che seguendo le “regole” della montagna sapeva riflettere lo spirito della società. Ogni capo contrada aveva una campana da suonare per riunirsi e discutere i vari problemi. Un modello di democrazia e di federalismo esemplari (un mondo che fatico a riconoscere, perché il boom edilizio, la smania della seconda casa hanno snaturato tutto, paesaggio, rapporti umani, modi di vita). Ebbene, io e Mario camminavamo l’uno a fianco dell’altro. A un certo punto, dal basso di una collinetta, sopra un denso strato di nebbia si aprì un squarcio di luce. Alzai gli occhi, poi raccolsi un sasso dal selciato, lo tirai verso l’alto e lo lasciai cadere poco più in là, dicendo: ‘Se un giorno mi sposerò e avrò figli, farò la casa lì’. Anche Rigoni si chinò a prendere una pietra, la buttò a pochi metri dalla prima e disse: ‘Vegno anca mì, in piassa massa confusiòn’. In piazza, ad Asiago, dove abitava allora lo scrittore, c’era troppa confusione.

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1921 – 2008) è stato un militare e scrittore italiano. Legatissimo alla sua terra, l’altopiano di Asiago, e alla sua gente, i cimbri, è noto soprattutto per l’opera Il sergente nella neve. Primo Levi lo definì “uno dei più grandi scrittori italiani”.

Promessa mantenuta.

“Fino a due anni fa io e Mario abitavamo a pochi metri di distanza. Rigoni Stern non c’è più. Dal 2008 e io sono rimasto qui, con mia moglie Loredana, in questa grande casa lungo via Valgiardini, sulla collina, dove il legno prevale su tutto. Qui studio, qui ogni tanto raccolgo parole e perle di umana saggezza. Per esempio, stamattina ne ho una sotto gli occhi: ‘Non è la fine del mondo ma è la fine del nostro mondo’. È di Evelyne Pieller, una scrittrice francese contemporanea”.

Martino V, nato Ottone Colonna (Genazzano, 1368 – Roma, 1431), il pontefice esperto di enologia, fu il 206º Papa della Chiesa cattolica dal 1417 alla morte.

Qualche perla raccolta sul vino e dintorni?

“Senta questa. ‘Ci sono cinque buoni motivi per bere: l’arrivo di un amico, la bontà del vino, la sete presente e quella che verrà e qualunque altro’. Sembra la campagna pubblicitaria per il Vinitaly e invece sono parole pronunciate nel 1431 da Oddone Colonna, meglio conosciuto come papa Martino V: un testimonial al di sopra di ogni sospetto che ho scelto come citazione finale nell’ultimo mio documentario intitolato, appunto, Rupi del vino”.

Oltre al pontefice enologo, a chi altro rende omaggio nel suo film?

“Allo scrittore Mario Soldati che nel lontano 1957 diresse per la televisione un celebre Viaggio sul Po alla ricerca dei cibi genuini, rimasto nella memoria di molti italiani. Lo stesso Soldati, poi, raccolse il frutto del suo viaggio nel fondamentale Vino al vino: alla ricerca dei vini genuini, raccolta di appunti, racconti, biografie, aneddoti, descrizioni dei luoghi e dei protagonisti della produzione enogastronomica del nostro Paese, messi da parte in tre viaggi in giro per l’Italia nel 1968, nel 1970 e nel 1975. Una raccolta anticipata da queste parole: ‘Dirò subito che mi considero anch’io, del vino, un amatore inesperto. È vero, i viaggi d’assaggio che racconto mi hanno istruito un pochino: ma il loro risultato più apprezzabile è stato di misurare, dopo anni di esperienze enologiche, quanto sia vasta ancora la mia ignoranza e l’arte del vino quanto difficile’.”

Mario Soldati (Torino, 1906 – Tellaro, 1999). Ci ha lasciato opere memorabili in letteratura, nel cinema e nella televisione.

Lo ricordo quel libro pubblicato da Mondadori nel 1981, «il più bel libro sul vino mai scritto in Italia», a parere di un giornalista che se ne intende, Franco Ziliani. Non si tratta solo delle descrizioni dei vini – che sono deliziose e vive – ma sono anche e soprattutto i ritratti degli osti che gli hanno servito un Picolit, le descrizioni degli scorci che ha ammirato sorseggiando un Chianti, i racconti dei contadini da cui ha acquistato un fiasco di Lambrusco o i pensieri ispiratigli da un ombra di Merlot. A rileggerlo oggi si rimane ammirati dalla magnifica scrittura, dallo stile inimitabile, arguto e lieve di Soldati. E si possono meglio apprezzare le parole splendide con cui Natalia Ginzburg parla di Soldati: “Fra gli scrittori del Novecento italiano, l’unico che abbia amato esprimere, costantemente e sempre, la gioia di vivere. Non il piacere di vivere, ma la gioia; il piacere di vivere è quello del turista che visita i luoghi del mondo assaporandone le piacevolezze e le offerte ma trascurandone o rifuggendone gli aspetti vili, o malati, o crudeli; la gioia di vivere non rifugge nulla e nessuno: contempla l’universo e lo esplora in ogni sua miseria e lo assolve”.

“Nel film cito un proverbio: ‘Dove c’è vigna c’è civiltà’. Ma oggi chi fra noi ha un rapporto così diretto con il mondo del vino? Per noi cittadini metropolitani l’approccio al vino è sugli scaffali dei supermercati: la bottiglia da rigirare tra le mani, per capire che cosa contiene. Anche se non si capisce molto e alcuni, ingenuamente, mettono la bottiglia controluce, per vedere il colore del contenuto. Chissà… Nella mia infanzia contadina, invece, il momento del vino era un rito che si ripeteva ogni anno. Si cominciava appena fuori dall’inverno con la preparazione della vigna. In primavera le mani del vignaiolo frugavano tra le foglie dove spuntavano i primi grappoli. In autunno si guardava il cielo e si invocava l’aiuto divino perché la temutissima grandine non rovinasse il raccolto. E finalmente arrivava la vendemmia…”.

Per questo film lei ha viaggiato molto nella Valtellina con il collaboratore Giacomo Gatti. Che cosa ha trovato in quella valle?

“Ho trovato una terra dove l’uomo vive da secoli in armonia con la natura, costruendo muretti a secco che non solo permettono di coltivare la vigna tra le rocce, ma evitano anche le frane. Nonostante le inevitabili devastazioni provocate dal processo industriale, la Valtellina ha comunque conservato un legame con il passato proprio perché queste colture così eroiche, così difficili, curate lungo le appendici rocciose della valle, sono la prova della tenace volontà dell’uomo quando vuole sopravvivere in un determinato luogo. Chi mai avrebbe pensato di andare a coltivare delle vigne a più di mille metri di quota? E invece l’homo valtellinensis si è accorto che, ad alte quote, nella parte esposta al sole, cresceva una flora di tipo mediterraneo: segnale di un microclima mite. E la coltivazione, proprio a causa delle difficoltà del luogo, ha creato anche i presupposti per una qualità eccelsa del raccolto”.

Non solo, ma ha aiutato a frenare il dissesto idrogeologico che sta devastando tanta parte dell’Italia.

“Certo, quando l’uomo agisce con lealtà nei confronti della natura, con quel bisogno di ricevere da essa dei doni senza mortificarla e con un’attenzione particolare alla prevenzione, allora la natura offre il meglio di se stessa all’umanità rispettosa. Ma oggi il patto uomo-natura lo vedo infranto. Bisogna acquisire la consapevolezza della stupidità che ha portato a tutto ciò. Rendersi conto di come una ricchezza fasulla non può dare che un godimento fasullo”.

Il rispetto: mi sembra la parola chiave del rapporto uomo-natura di questo terzo millennio. La filosofia dell’incontrollabile e selvaggio dominio sulla natura rischia di cancellare la natura stessa e con essa, ovviamente, anche l’uomo. La filosofia della sottomissione è fondata su un rifiuto della presenza dell’uomo e ci rende impotenti. L’idea del rispetto per la natura può essere vincente.

“Per questo io credo che ci salveranno i contadini e la loro civiltà, a differenza di quella tecnologica e finanziaria. Avevamo creduto alle lusinghe delle scienze innovative e vi avevamo riposto le nostre certezze di progresso. Come mai proprio tutto questo nostro progresso non ci ha assicurato un mondo più sicuro e più giusto? Quali sono state le ragioni per cui il nostro tempo ha fallito il suo proposito di porre le condizioni permanenti per un’autentica e solidale convivenza civile? Dove sono finiti tanti entusiasmi per le moderne economie delle società del benessere e tutte le baldanzose euforie per le ricchezze dei capitali che potevano fruttare come le monete d’oro seminate da Pinocchio nel campo dei miracoli? I gatti e le volpi di questi ultimi anni stanno mutando pelo per nascondersi sotto altri camuffamenti. Ma stiamo certi che, come dice il saggio proverbio, non perderanno il vizio. E invece noi non possiamo più accettare che pochi prevaricatori sottraggano ai più deboli. Non è più il tempo delle regge e dei sontuosi palazzi per magnificare la potenza di principi e re, né delle cattedrali per ogni sorta di divinità. E, più di tutte, le divinità del denaro”.

L’altopiano di Asiago si trova sulle Alpi vicentine, nella zona di confine tra le regioni Veneto e Trentino-Alto Adige.

Lei è fiducioso in un cambiamento di rotta?

“Sì, lo sono davvero. Non sarà facile e ci vorrà tempo, volontà e sacrifici, così come ogni importante trasformazione richiede. Ma oramai non si torna più indietro. Il superamento di ogni condizione di difficoltà è sempre e solo nel coraggio del cambiamento e quindi nel futuro”.

Da dove cominciare?

“Intanto decidendo da che parte stare. E io, come prova anche il mio documentario Terra madre, sto dalla parte della Terra come unica risorsa sicura di sopravvivenza e di chi la cura con rispetto. Io sto con il mondo dei contadini, assediato dalle grandi imprese il cui unico scopo è il profitto. Anche il contadino vuole guadagnare ma il suo attaccamento alla terra è un atto d’amore e di rispetto verso la natura, mentre i potentati economici (imponendo un’agricoltura forzata) stanno distruggendo la biodiversità. Sì, io credo che ci salveranno i contadini non solo con il loro lavoro, ma anche perché risveglieranno dentro di noi che facciamo altri mestieri utili quella civiltà contadina di cui tutti siamo figli. L’economia del mondo deve tornare a essere ecologia e la sapienza contadina deve riconquistare la sua attualità. Basta con la narcosi di questa società dell’immagine”.

Codice di Ippocrate. Ho trovato una frase che le piacerà: “Oggi molti vedono, pochi sanno”. Sembra una diagnosi della società d’oggi, e invece è scritta in un’isola dell’Egeo dal padre della medicina quattro secoli prima di Cristo…

“Io lo aggiornerei così: ‘Troppi vediamo, pochi sappiamo’.

Chiudiamo con altre parole e perle di umane saggezza, come quelle che ama raccogliere lei. Anch’io ne ho messe da parte alcune. Gliele cito:

Guardo fuori dalla finestra e vedo il paesaggio tutto sommerso dalla neve, che quest’anno è caduta in abbondanza. Qui da noi, in montagna, la neve segna il riposo invernale della natura e il manto rimane candido e intatto fino a primavera. Intorno a casa vedo segnate le tracce degli animali che dal bosco escono in cerca di cibo. Fra tutte, riconosco quelle di uno scoiattolo che è diventato amico. Oramai si fida di noi e ogni giorno, da quattro anni, viene a prendersi dalle nostre mani una noce, un pezzo di pane secco e qualche volta persino un biscotto. Lui, in cambio del cibo, si lascia accarezzare. Una gioia grande, che non costa nulla. Perché la felicità, quella vera, che riempie il cuore, è sempre gratis. Forse questi momenti di amichevole condivisione del cibo con ogni creatura del Creato somigliano un po’ a quel giardino di Eden che, per peccato di superbia, abbiamo tradito. Allora il castigo fu il dover lavorare la terra per vivere. Oggi, coltivare la terra con una nuova consapevolezza, del reale valore, potrebbe essere il migliore dei progetti per riconquistare un nuovo Giardino di Eden.

“Bello. Chi ha detto queste parole?”

Lei, in occasione della prima mondiale del documentario Terra madre al Festival di Berlino dell’anno scorso.

“Io? Oh, questa è bella. Sono d’accordo con Olmi. D’altra parte come non esserlo, con quel nome che si alimenta con radici profonde nella Terra che gli è madre?”.

Salvatore Giannella, giornalista che ha ideato e cura con passione questo blog, ha diretto il mensile scientifico del Gruppo L’Espresso Genius, il settimanale L’Europeo, il primo mensile di natura e civiltà Airone (1986-1994), BBC History Italia e ha curato le pagine di cultura e scienza del settimanale Oggi (2000-2007). Ha scritto libri (“Un’Italia da salvare”, “L’Arca dell’arte”, “I Nicola”, “Voglia di cambiare”, “Operazione Salvataggio: gli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre”, “Guida ai paesi dipinti di Lombardia”, “In viaggio con i maestri. Come 68 personaggi hanno guidato i grandi del nostro tempo”), curato volumi di Tonino Guerra ed Enzo Biagi e sceneggiato docu-film per il programma Rai “La storia siamo noi” (clicca qui per approfondire).
Fonte: De Vinis (maggio-giugno 2010), rivista dell’Associazione Italiana Sommelier, viale Monza 9, 20125 Milano. Le altre interviste da me fatte per la serie “Le parole maestre” riguardano Umberto Veronesi, Stefania Campo su Andrea Camilleri, Nicola Dioguardi, Vittorino Andreoli e Silvio Garattini.

A PROPOSITO/ La scheda biografica di Olmi

Nato a Bergamo, poi con il cuore sull’Altopiano

Ermanno Olmi. Nell’ultima intervista rilasciata al Corriere della Sera ha detto: “Cinema vuol dire anche il nostro momento storico, la nostra realtà incerta e confusa. Non mi sento più di farmi demoralizzare dagli eventi che ogni giorno tv e giornali ci propongono: stiamo vivendo un momento non facile, ma importante, di trasformazione”.

  • Nome e cognome: Ermanno Olmi (Bergamo, 1931 – Asiago, 2018)
  • Luogo del cuore: Asiago (Vicenza)
  • Moglie: Loredana
  • Tre figli: Fabio, Elisabetta e Andrea.
  • Piatto che cucinava meglio: il pancotto. “Prendete pane secco avanzato, una buona cipolla, una foglia di alloro e l’amorevole cura delle nostre nonne cuciniere, ed ecco il pancotto. Quello che non si trova più è quel tipo d’amore”.
  • L’impegno più gradito: nella giuria del Premio Nonino, presieduta dal premio Nobel V.S. Naipaul e comprendente grandi firme come Claudio Magris ed Edgar Morin. Il riconoscimento viene assegnato ogni anno, dal 1975, nell’ultimo sabato di gennaio fra i 66 alambicchi a vapore fumanti della grande distilleria dei Nonino a Percoto, nella campagna friulana: un premio per i salvatori della tradizione e della cultura contadina, da Rigoni Stern a Tonino Guerra, da Jorge Amado a Leopold Senghor (per tutti i premiati, vedere il sito: www.nonino.it) che era cominciato in sordina e che oggi anticipa i Nobel. Una curiosità: dalla sua scuola per giovani registi viene Maurizio Zaccaro, diventato poi suo collaboratore fisso e guida del Montefeltro film school festival a Pennabilli, il borgo del Montefeltro scelto da Tonino Guerra per l’ultima fase della sua vita. Tutti i film di Olmi e i suoi riconoscimenti, fino al Leone d’oro alla carriera al Festival del cinema di Venezia (2008): su wikipedia