La crisi, i poteri e l’informazione:
venti autorevoli pareri

Venti protagonisti danno la loro chiave di lettura e di azione sul futuro dell’informazione mentre la crisi economica azzanna, il rapporto con i poteri dell’economia e della politica si fa sempre più minaccioso, la Rete fa saltare le intermediazioni e mette in discussione il ruolo dei giornalisti.

Ezio Mauro, direttore di Repubblica: “La situazione è complicata: la confusione è massima e i partiti non hanno autorevolezza, non sono punti di riferimento per il dibattito che c’è in corso e ci si muove a tentoni. È complicato capire che indirizzo dare alla risoluzione dei problemi, e quindi è complicato fare i giornali in una fase di incertezza dove c’è meno ideologismo. Adesso che l’emergenza è finita, la politica è tornata a dominare ed è una politica molto più confusa della prima e della seconda Repubblica. Comunque, io non sono pessimista. Se sei pessimista non puoi fare un giornale, perché il giornale crede di raccontare il presente, ma in effetti è una finestra sul domani”.

Emanuele Macaluso, ex sindacalista, ex parlamentare, giornalista, ha diretto L’Unità e Il Riformista: “Un tempo la conflittualità tra magistrati e giornalisti era pressoché inesistente. Oggi invece le querele dei magistrati contro i giornalisti sono all’ordine del giorno. C’è una conflittualità e insieme una complicità e questo ha portato a un grande mutamento in cui i ruoli sono difficili da definire con esattezza”.

Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera: “Purtroppo in Italia si parte sempre dall’idea malsana che il giornalista sia prezzolato, che faccia parte di un gioco. Bisogna sempre dimostrare che fai bene o male un mestiere utile alla società e non sei solo un male necessario, come pensano anche degli azionisti del mio giornale. È un’insofferenza che parte dalla convinzione che il giornalismo sia strumentale a qualche cosa e a qualcuno: se non lo sei ai loro interessi, sei al servizio di altri. Eppure stai facendo solo il tuo mestiere”.

Enrico Mentana, direttore del TgLa7: “I giovani non entrano nelle redazioni e se c’è da integrare qualcuno si ricorre alle liste dei disoccupati. Andando avanti sarà peggio. Questo è il nostro problema. Inoltre, finita questa nostra generazione, finiranno anche contratti collettivi difficilmente sostenibili. Per il resto, in Italia i poteri non sono così forti da fare nemmeno il solletico ai giornalisti”.

Peppino Ortoleva, docente di storia e teoria dei media, università di Torino: “La condizione precaria di molti lavoratori dell’informazione, giovani e no, è una catastrofe sociogenerazionale che va ben al di là del giornalismo; i suoi costi li stiamo vedendo ora, in piccola parte li vedremo tra quindici o vent’anni, e non si tratta solo di un problema di qualità dell’informazione, ma potenzialmente di desertificazione di molti aspetti importanti della vita giornalistica, che non è fatta solo di grandi testate o di prime pagine”.

Danda Santini, direttore di Elle: “Gli attacchi di Grillo al mondo dell’informazione dimostrano esattamente il contrario di quello che lui proclama, e cioè che il nostro lavoro serve, serve che ci sia qualcuno che fa delle domande e serve un contraddittorio. L’alternativa, se no, è una messa cantata senza interruzione come avviene sulla Rete, e chi ne soffre prima di tutto è la gente comune che viene privata della possibilità di farsi un’opinione. Mi sembra che adesso anche i ‘cittadini grillini’ comincino ad accorgersene”.

Mario Orfeo, direttore Tg1: “Il giornalismo d’inchiesta deve poter far affiorare la realtà, raccontare la verità e non come strumento di lotta politica. Noto che spesso sulla stampa italiana c’è una sorta di garantismo a intermittenza e questo credo che non solo non vada bene, ma che produca danni”.

Caterina Malavenda, avvocato esperta in problemi dell’informazione: “Se prima per difendersi in un processo era sufficiente dimostrare la verosimiglianza dei fatti, ora i temi sono anche altri: al giornalista chiedono di spiegare perché ha scritto quell’articolo e perché lo ha scritto in un certo modo, mettendo in dubbio il fine giornalistico e, quindi, l’interesse pubblico. Insomma, sullo sfondo c’è spesso la dietrologia, che si spinge fino alla necessità di giustificare perché una certa notizia è stata pubblicata proprio quel giorno e non il giorno prima, tenendo sempre meno conto dei tempi della cronaca”.

Dino Boffo, direttore di Tv2000: “Che ci sia una spinta all’osservanza delle regole mi va bene. Certo, non sono d’accordo con intimidazioni o boicottaggi nei confronti di chi cerca di fare il proprio lavoro di cronista, ma che ci sia più rispetto per la dignità dell’interlocutore, importante, o sconosciuto che sia”.

Gian Antonio Stella, inviato Corriere della Sera: “Ci andrei piano col dire che mai prima nella storia la stampa libera è stata tanto a rischio. Alla resa dei conti dobbiamo riconoscere che siamo sempre riusciti ad arginare certi attacchi, anche quelli più pericolosi sul piano legislativo. Quanto agli attacchi sugli altri giornali, fanno parte del gioco”.

Guglielmo Epifani, deputato Pd, ex leader della Cgil: “La rivoluzione digitale era attesa e il processo durerà moltissimo, ma non sappiamo dove ci condurrà. Di certo credo si possa dire che si è capovolto il rapporto tra opinione pubblica e politica. Le tecniche di comunicazione come i social network e simili si collegano a una idea falsa di democrazia diretta in cui si consuma tutto sul tempo presente, il che significa privarsi della capacità di pensare al futuro. Tanti attimi di presente non costruiscono un governo”.

Sergio Rizzo, inviato del Corriere della Sera. “In questo momento gran parte della classe politica è tanto favorevole alla trasparenza e ritengo che anche il Movimento 5 Stelle, con tutta la sua diffidenza nei confronti della stampa tradizionale, si renderà conto dei pericoli di un’informazione sotto pressione. Per cui bisognerebbe avviare una legge di iniziativa popolare che dia la possibilità ai giornalisti di difendersi ad armi pari dalle cause temerarie”.

Daniela Hamaui, direttore di D la Repubblica e direttore editoriale dei periodici di Repubblica: “I giornalisti sono stati vissuti come una casta, talvolta come servi del potere e non come i controllori del potere. Allora chiediamoci perché non viene riconosciuto il lavoro di tanti giornalisti che costa fatica, e a volte rischi personali, per fare inchieste serissime che in tutti i campi portano alla luce scandali o verità scomode ma inoppugnabili”.

Marco Tarquinio, direttore di Avvenire: “Sì, è un momento di grande difficoltà. In atto c’è un cambiamento genetico nel proporre le notizie. E c’è anche un fastidio crescente su tutto quanto rientra nel giornalismo di inchiesta. Su questo fronte non mi piace tutto, soprattutto per il tono, ma non credo che il giornalismo investigativo debba limitarsi a essere solo la protesi delle procure”.

Mauro Crippa, direttore generale Informazione Mediaset: “Non è più difficile fare informazione, credo sia più difficile fare il giornalista. Si sono inceppati i meccanismi di accesso. I meccanismi artigianali, di cooptazione, anche attraverso il cosiddetto abusivato, il lavoro nero, si sono interrotti, ma non sono stati sostituiti da altri che garantiscano il ricambio. Ora, poi, anche i giganti della carta stampata si trovano nella necessità di espellere e anche questo non dà fiducia, toglie serenità a redazioni che non si sentono più le spalle coperte dai propri editori”.

Toni Muzi Falconi, senior counsel di Methodos: “E’ certo vero che nel nostro Paese il giornalismo come professione attraversa una fase di discontinuità e richiede un sostanzioso processo di reintermediazione. Ma le soluzioni sono già note e, almeno in parte, sono state percorse in altre parti del mondo. Il dubbio è circa la consapevolezza della questione da parte degli stessi giornalisti italiani insieme all’assenza di punti di riferimento autorevoli nell’associazionismo”.

Andrea Santagata, amministratore delegato di Banzai Media: “Affermare che l’informazione è sotto attacco mi sembra un concetto riduttivo. Anche l’informazione ha le sue colpe, perché non sa più raccontare il Paese. I giornalisti dovrebbero rimettersi in discussione ma non lo vogliono fare. Uno dei meriti della Rete è proprio quello di costringere i giornalisti a mettersi in discussione”.

Bruno Manfellotto, direttore dell’Espresso: “Penso che i poteri per un verso siano meno forti di come ce li immaginavamo venti o trent’anni fa, ma sono sicuramente più diffusi perché si mescolano con i poteri politici. C’è insomma un corto circuito istituzionale tra affari, politica ed economia che rende il potere più forte e più invasivo, con maggiori pretese e maggiori arroganze. Ma anche questo per chi fa questo mestiere non mi pare sia una novità”.

Sarina Biraghi, direttore del Tempo: “Non possiamo permetterci né errori né superficialità. Durante la campagna elettorale abbiamo sentito ripetere che i politici che sfondavano erano quelli che parlavano ‘alla pancia’ della gente. Io invece credo che noi giornalisti della carta stampata non dobbiamo parlare alla pancia della gente, ma alla testa. Dobbiamo far riflettere chi ci legge. La notizia, di per sé, la gente la vede on line dodici ore prima”.

Mario Calabresi, direttore della Stampa: “La politica di oggi cerca di vendere ai cittadini l’idea, come fa in modo sofisticato Barack Obama e in modo più rozzo Cristina Kirchner, che ci si rivolge a loro, direttamente, senza intermediari. Ma questo vuol dire evitare le domande, il ruolo scomodo del giornalismo. L’altra faccia della medaglia è che anche noi viviamo una crisi di credibilità, come i medici, come i giudici. E la risposta sta nell’alzare il livello”.

* Fonte: l’articolo integrale è sul mensile Prima Comunicazione n. 438 – aprile 2013