Come ci cureremo domani in Italia, fondi permettendo

Il premier Draghi tira dritto. Anche senza l’intesa con le Regioni, nella serata di giovedì 21 aprile il governo ha autorizzato il ministero della Salute ad adottare il decreto ministeriale che ridefinisce «Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel servizio sanitario nazionale». Il testo è in discussione da oltre un mese alla Conferenza Stato-Regioni dove il presidente campano Vincenzo De Luca ha opposto una netta opposizione e ora annuncia ricorsi. Ma l’approvazione della riforma entro la metà di giugno era una delle condizioni poste all’Italia per ricevere la prossima rata del prestito europeo legato al Pnrr e Draghi non è disposto a ulteriori trattative.

La riforma era attesa come uno dei punti qualificanti del recovery plan. La pandemia, infatti, ha messo in luce la fragilità della rete di medici di base, pediatri, ambulatori pubblici e privati che avrebbe dovuto fare diga contro il virus e invece è crollata ai primi focolai.

La principale novità introdotta dalla riforma sono le circa 1300 «Case di comunità» da realizzare di qui al 2026 «in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali». L’obiettivo è avvicinare i servizi e risparmiare agli assistiti le liste d’attesa e i costi delle strutture private. Nella casa della comunità ambulatorio e diagnostica di base saranno riuniti e integrati.

Le case saranno divise in «hub» (centrali e più attrezzate, una ogni 40-50 mila abitanti, aperte 24 ore al giorno) e «spoke» (periferiche, per le attività ordinarie, distribuite secondo le caratteristiche del territorio e accessibili per 12 ore al giorno per 6 giorni su 7). Nelle case «hub» opereranno medici di base e pediatri, specialisti per le patologie croniche e ad alta prevalenza, infermieri (tra 7 e 11), operatori socio-sanitari (tra 5 e 8), si potranno effettuare vaccinazioni, prelievi, ecografie, elettrocardiogrammi e altri esami di base. Non saranno solo poliambulatori, sulla carta: si collegheranno a consultori e assistenti sociali con un «approccio integrato e multidisciplinare» e garantiranno «la partecipazione della comunità locale, delle associazioni di cittadini, dei pazienti e dei caregiver» alla definizione dei bisogni.

Più fumosi gli standard delle case «spoke» di prossimità, che assorbiranno gli attuali studi associati dei medici di base ma con orari di apertura più estesi e servizi ambulatoriali specialistici per patologie ad alte prevalenza. Qui la diagnostica di base, i prelievi e le vaccinazioni saranno presenti solo in maniera facoltativa.

L’esito dell’ambiziosa riforma dipenderà dalle risorse che il governo è pronto a investire. L’aria che tira non è delle migliori. La versione originale del Pnrr stilata da Giuseppe Conte destinava 4 miliardi di euro alla realizzazione di 2564 case della comunità. Draghi ha dimezzato entrambe le cifre, riducendo l’investimento all’1% del totale del piano. I soldi del Pnrr, in ogni caso, sono vincolati a infrastrutture e attrezzature. Dunque, per il personale delle case le Regioni potranno attingere solo ai 94 milioni di euro stanziati a marzo 2020 per assumere gli infermieri di comunità. Il resto verrà fatto «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Già oggi i 42 mila medici di base in servizio non sono sufficienti e secondo i calcoli dell’università Cattolica entro il 2028 se ne perderanno tra i novemila e i dodicimila per pensionamenti e mancato turnover.

Nonostante la pandemia, il Def 2022 prevede che la spesa sanitaria cali dal 7% al 6,2% del Pil nei prossimi tre anni. La scarsità di risorse favorirà il ricorso al subappalto verso imprese e cooperative private, una piaga già diffusissima. O riproporrà nelle case di comunità le stesse liste d’attesa della sanità attuale.

C’è poi il nodo dell’inquadramento dei medici di famiglia. La loro attività nelle case di comunità dovrà essere «aggiuntiva» rispetto a quella svolta in regime di libera professione in convenzione con il Ssn nel proprio studio medico. Nelle case di comunità dovranno sottostare a turni e orari come i medici ospedalieri, weekend compresi. La cornice contrattuale di questa transizione però è ancora da discutere tra governo, regioni e organizzazioni professionali. Sembra decaduta l’ipotesi di collocare i medici di famiglia alla diretta dipendenza dello stato cui la Fimmg, l’associazione che rappresenta la maggioranza dei medici, si è sempre opposta.

Anche per l’integrazione tra assistenza sanitaria e sociale mancano le risorse umane: «un assistente sociale ogni cinquemila abitanti» è la richiesta del sindacato Sunas «per assicurare la valutazione multidimensionale dei bisogni e garantire la presa in carico della persona sotto il profilo clinico, funzionale e sociale». Delude infine la scarsa attenzione per la salute mentale: nelle case di comunità la presenza di psicologi e neuropsichiatri sarà solo «raccomandata» e non «obbligatoria».

* Il Manifesto è un quotidiano italiano di sinistra fondato nel 1971 facendo seguito all’omonima rivista fondata nel 1969. Direttore: Norma Ranieri. Fondatore: Lucio Magrì. Editore: Il Nuovo Manifesto – Società Cooperativa Editrice. Sito web: www.ilmanifesto.it