Caro Jovanotti,

Viaggiare, vedere tutti gli angoli della terra,

fotografare il mondo in movimento,

coi piedi per bagaglio

e il mondo per famiglia,

partire, viaggiare

e non fermarsi mai

cantavi qualche anno fa nella canzone Marco Polo. Ora hai deciso di mettere in pratica quella canzone e di partire per un viaggio in solitaria in bicicletta che per 20 giorni ti ha portato in giro per la Nuova Zelanda (“perché se scavassimo sotto l’Italia sbucheremmo qua”, spieghi), una pedalata di 3.000 chilometri filmata grazie all’inseparabile GoPro con una bicicletta acquistata nel negozio di Forlì gestito dal tuo grande amico Augusto Baldoni, quello che conserva in negozio la bicicletta di Pantani. (Il tuo incredibile viaggio è diventato un documentario, chiamato “Vado a farmi un giro”, #Vadoafarmiungiro, realizzato da Michele Lugaresi, in arte Maikid, videomaker e amico ventennale di Cesena che con pazienza e precisione ha “riorganizzato” tutto il materiale da te girato durante il viaggio).

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Lorenzo Cherubini (Roma, 1966), in arte Jovanotti, nel negozio di biciclette dell’amico Augusto Baldoni.

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Jovanotti posa davanti alla bicicletta di Marco Pantani, esposta in vetrina.

Il tuo viaggio, insieme alla vicina Giornata nazionale dei piccoli musei italiani mi ha riportato alla memoria un mio incontro con un autorevole economista marchigiano, Ercole Sori, che tempo fa ha fatto a sua volta il giro della Nuova Zelanda con un obiettivo particolare: studiare e scoprire i segreti dei piccoli musei di quella terra dei Maori. In quello Stato insulare, infatti, anche i più piccoli insediamenti dispongono di piccoli musei, spesso privati, che documentano la vita, le abitudini e le tecnologie oggi non più utilizzate, musei gestiti con l’impiego di organizzazioni volontarie e della terza età. Ercole Sori, coordinatore di un Museo della città di Ancona, mi descrisse e riportò poi sulle pagine della rivista le Cento città (n. 3/1996) questo ricco patrimonio di esperienze visitato. Con una segreta speranza: perché non si può fare anche nelle Marche e nel resto d’Italia? Ecco quel suo istruttivo resoconto. (s. gian.)

(qui e nelle immagini di seguito) “Vado a farmi un giro”: il film di Lorenzo Jovanotti Cherubini che si fa un giro in Nuova Zelanda, Aotearoa, Isola del sud: 20 giorni in strada, 3000 km passati a pedalare agli antipodi del Mondo e nel profondo di se stesso. A fargli compagnia in questo viaggio c’è solo la sua Go-Pro, che è finita poi tra le mani di Michele Lugaresi e ha fornito il materiale video con il quale Maikid ha realizzato questo “filmino”. Le musiche e i disegni sono di Lorenzo. Buona visione! Buon viaggio! Aki Ora!

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Seguitemi in questo itinerario museale. Siamo in Nuova Zelanda, isola meridionale. Stiamo percorrendo la statale n. 1 costiera (vedi mappa).

  1. Timaru (20/30.000 abitanti). È sede di un importante museo di distretto. Nel museo c’è di tutto: dal progetto per la sistemazione del porto, alle lavatrici a mano in legno, ai giocattoli fatti in casa, alla ricostruzione di un aeroplano progettato da un oscuro e poco più che analfabeta agricoltore del luogo, il quale per poco, ma veramente per poco, non precedette di qualche anno il volo dei fratelli Wright. Notate, in un angolo, il forno a micro-onde (uno dei primi modelli, naturalmente…). Notate anche un box a vetri pieno di schedari, classificatori, libri, visori per microfilm. Vi lavorano i ricercatori sulla storia locale, una presenza massiccia nella società neozelandese. I ricercatori e gli addetti che incontrate nel museo sono anzianotti (storiografia e senilità vanno d’accordo); gli addetti sono chiaramente volontari non stipendiati o semivolontari (i giovani sembrerebbero stare lì a part time). Provate a immaginare quello che succederebbe in Italia: sento già tuonare sindacati e sociologi contro il precariato e a favore della riapertura dei concorsi.
  2. Pleasant Point (500 abitanti). Lasciamo la costiera e ci dirigiamo verso l’interno, verso le montagne, fiancheggiando una linea ferroviaria Timaru-Fairlie che non c’è più. A Pleasant Point la vecchia stazioncina in legno è diventato un monumento, metà dedicato all’epopea ferroviaria e metà alla storia del luogo. Un tratto del vecchio tracciato viene ancora utilizzato per muovere ogni tanto una locomotiva a vapore. Di fronte si staglia l’inquietante vetrina di una tassidermista.
  3. Albury (150 abitanti). Centro decaduto da quando non passano più i convogli di carri e i vagoni che trasportano lana, bestiame e legname. Ha due centri di memoria:
    • il pub, ove campeggiano una targa d’ottone in memoria dei caduti nella guerra del ’14-’18 e foto di antiche squadre sportive;
    • il museo, collocato in un vecchio general store lungo la strada principale (ma su questo museo torneremo).
  4. Fairlie (2.000 abitanti). Un alto traliccio variopinto con mulino a vento per sollevare acqua dai pozzi e un antico e mastodontico scraper per tracciare e livellare sedi stradali annunciano la presenza di un museo. Il museo non è presidiato. Si entra infilando una moneta da 2 dollari in una bussola-rastrelliera girevole e si esce azionando un ingegnoso meccanismo che si apre solo dall’interno.
  5. Kimbell (40 abitanti). Non ha museo, ma qualcosa di meglio. Sono degli autentici colonial cottage, perfettamente riattrezzati e arredati con oggetti e mobili d’epoca. Appartengono a una ingegnosa coppia, Kay e Ron, che esercita con successo la difficile arte dell’ospitalità mediante bed and breakfast: con 60.000 lire (31 euro) due persone possono dormire per una notte in un cottage coloniale di fine secolo, accendervi un camino, cucinarvi una spalla d’agnello nella cucina economica in ghisa.
  6. Burkes pass (15 abitanti). Anche lì una chiesetta presbiteriana in legno, sconsacrata, si annuncia come museo. Dentro c’è qualche memoria del passato, ma la signora di mezza età che la gestisce vi esercita soprattutto le sue arti e il relativo commercio (pittura, impressioni su carta, ecc.).
  7. Geraldine (6.000 abitanti). Se avessimo deviato per Geraldine avremmo trovato due musei:
    • Museo delle vecchie auto e macchine agricole, con auto d’epoca (dalle Ford T in poi) funzionanti che ogni tanto escono in parata. In giro vedete il solito indaffararsi di anzianotti in tuta che armeggiano intorno ai cofani motore. Alle spalle del museo intuite la presenza di una vivace e partecipata associazione di amatori e tanto volontariato gratuito.
    • Museo della città, nella vecchia sede del town council, con l’ormai usuale rassegna di testimonianze sulle origini e il farsi del centro urbano, nella sua vita quotidiana. Due anziane e simpatiche signore, mentre ritagliano triangoli di stoffa (di fronte al museo c’è il locale Patchwork Club…), sorvegliano il locale e sollecitano garbatamente offerte in denaro.
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Ma torniamo ad Albury. Fermata l’auto, ci viene incontro mr. Dudley, con un cilindro nero in testa. Si presenta togliendosi il cilindro e inchinandosi ci dice che la sua raccolta è privata, nulla è in vendita, nulla potete toccare. Potete invece lasciare un obolo e anche qualche oggetto che verrà immediatamente esposto. Mr. Dudley, per dirla con Shakespeare, ha forse patito qualche insulto dalla oltraggiosa fortuna (tra parentesi, vive dentro il museo da solo, giorno e notte), ma il museo ne fa un personaggio attivo, utile e stimato, con ampia corrispondenza epistolare internazionale. Dentro troviamo la più fantasmagorica raccolta di relitti della memoria che mente umana possa concepire: nulla è escluso a priori, se non per le sue dimensioni e peso. A questo immenso archivio della cultura materiale, della vita quotidiana si potrebbe tranquillamente attingere per tracciare un qualsiasi percorso documentario sulla vita economica, sociale, culturale della Nuova Zelanda durante il XX secolo.

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Quali insegnamenti si traggono da questo itinerario museale neozelandese?

  1. La densità territoriale dei luoghi di memoria storica è elevatissima; il loro ancoraggio alle comunità locali fortissimo.
  2. Il loro universalmente tutto, o quasi, è degno di conservazione e tutela; tutto o quasi ha valore evocativo e documentario.
  3. Il loro essere parte integrante, appendice di una vivace vita associativa, espressione di un bisogno socialmente diffuso e del ruolo pubblico (si mediti sul significato che il termine public ha nella lingua inglese, contrapposto all’italiano pubblico) svolto da un libero e affidabile associazionismo privato.
  4. Il loro basarsi sul volontariato e sull’autonomia gestionale, in quasi completa assenza di burocrazia. Lo scopo implicito di ciò è coinvolgere e alimentare gruppi sociali bisognosi di attenzione e di nuovi ruoli attivi (anziani, soprattutto, ma anche donne e giovani).
  5. Il loro tendenziale ancoraggio alla ricerca storica, specie quella locale. I gruppi ‘storici’ cittadini, come il club Anni 20 (che ogni tanto organizza, tra l’altro, barbecue in abiti d’epoca) o quello che vuol scrivere un libro di storia locale, fanno capo al museo. Comunque esso è anche centro di documentazione che affianca la biblioteca pubblica, ma non la sostituisce.
  6. Il loro non infrequente carattere vivente, cioè il continuare a far produrre al bene culturale conservato beni e servizi per il mercato, ciò che contribuisce alla economicità della gestione del bene stesso. È il caso, già citato, del bed and breakfast, o anche della segheria a vapore che opera dimostrativamente e produttivamente nel villaggio di frontiera ricostruito, oppure quello nel sano (non come da noi!) agriturismo che si svolge nelle farmstay.
  7. L’economicità della loro gestione è in parte assicurata da altri beni e servizi richiamati analogicamente dal luogo di memoria (libri, audiovisivi, prodotti artistici e dell’artigianato, ecc.). All’economicità contribuiscono anche: – un forte aggancio al settore turistico e alle esigenze di chi sta viaggiando (nei piccoli centri il museo può anche fungere da ufficio informazioni turistiche, non come accade da noi con le introvabili Apt e Pro Loco); – la produzione di servizi destinati all’autoconsumo, che riduce le spese (ad esempio, invece di far macerare nell’ozio gli addetti alla sorveglianza e ai rapporti con il pubblico, non si potrebbe estendere le loro mansioni?).
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In più, guardando alle Marche…

Quali le implicazioni per una politica regionale dei beni culturali nelle Marche?

  1. Occorre dare grande attenzione alla museologia minore, ai musei demo-antropologici, della cultura materiale, specialistici e persino stravaganti. La cosiddetta gente li ama (le statistiche sul numero dei visitatori sembrano confermalo). La struttura conservativa ufficiale (musei archeologici, pinacoteche, archivi di Stato, biblioteche pubbliche) li ignora. I beni accolti da questi musei minori sono delicati, deperibili, contesi dal mercato antiquario, dal collezionismo privato e dal modernariato, i quali, se anche svolgono un’utile funzione di salvataggio dalla distruzione, normalmente li snaturano togliendoli dal contesto. Forse sarebbe opportuno pensare a realistiche trattative e accordi col collezionismo privato, nobilitandolo e pubblicizzandolo (in senso anglosassone…)
  2. Occorre non solo stimolare la nascita di questi musei, ordinarli, schedarli, finanziarli. Bisogna anche innovare i loro criteri di gestione in direzione dell’autonomia, dell’associazionismo di base, del volontariato, dell’animazione sociale.
  3. Il carattere territorialmente diffuso dei beni culturali marchigiani, la loro densità e la loro frequente inamovibilità possono richiedere in molti casi il museo all’aperto e l’itinerario. Ma attenzione: guardate che cosa è successo all’agriturismo una volta che a una buona idea è stato applicato il ben noto modello clientelare truffaldino nazionale, che li ha ridotti a mezzi per aggirare la licenza commerciale e a mete della rituale mangiata domenicale (per non parlare del cospicuo contributo a fondo perduto per le opere di ristrutturazione…).
  4. Il museo vivente e la rifunzionalizzazione del bene culturale possono avere applicazione anche nella nostra regione Marche (c’è già un esempio: il museo della carta di Fabriano).
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Ecco alcune idee, talune emerse come concrete proposte sull’onda della legge 43 (segnalate con *):

  • Il vecchio frantoio che produce olio macinato a pietra;
  • il vecchio mulino idraulico a ritrecine che macina a pietra farina integrale e panifica*;
  • il museo della grande tradizione tessile domestica marchigiana. Se ci fosse, potrebbe fabbricare e vendere prodotti tessuti a mano. Esisteva (esiste?) a Pievebovigliana un importante centro che aveva tramandato l’arte, ma, scomparsa la tenace animatrice, questa eredità potrebbe o disperdersi o finire in mano a due inglesi (giustamente, dato che nessun marchigiano sembra capirne l’importanza, mentre i due inglesi hanno fatto uscire un servizio di una pagina sul Times di Londra, il quale ha ricevuto 300 richieste di ulteriori informazioni da parte dei lettori);
  • restaurare le fonti (=fontane) storiche di città, paesi e contrade agricole, a condizione che buttino acqua buona da bere;
  • qualcuna delle numerose fornaci Hoffmann sparse nella regione potrebbe continuare a fare laterizi semiartigianali e a mano, che si vendono a ottimo prezzo e servono a restaurare gli edifici della zona o a costruirne di nuovi ‘intonati’ al colore delle terre e delle murature locali;
  • i tracciati e le opere d’arte delle ferrovie dismesse o in via di dismissione possono diventare ottime piste ciclabili per un cicloturismo sempre più diffuso e sempre più esposto ai pericoli della strada;
  • le centraline idroelettriche incamerate dall’Enel e lasciate marcire possono essere affidate a un istituto tecnico industriale per farne un’aula-museo di storia della tecnica e dell’energia. La produzione di energia e il suo consumo per usi collettivi locali darà un piccolo contributo alla diffusione dell’idea di democratizzazione e autosufficienza energetica e alla sua pratica;
  • l’esperienza neo-zelandese (ma, ahimè, loro sono tre milioni e mezzo e noi oltre 56…) insegna a essere un po’ più spregiudicati. Se gli obiettivi sono: a) salvare i beni culturali; b) far sì che la gente visiti le raccolte e i luoghi, li comprenda, lo ami, occorre forse qualche onorevole compromesso:
    • col rigore filologico-scientifico dei criteri di ordinamento, esposizione e comunicazione. Qualche concessione alla ricostruzione dell’ambiente, al plastico illustrativo, alla spettacolarizzazione, alla divulgazione corretta ma efficace, non farebbe male. Non si vede perché il museo sia sinonimo di noia: gli strumenti tecnici non mancano (informatica e i musei della scienza e della tecnica, ad esempio, li hanno da tempo impiegati con successo (interattività). Occorre forse una nuova figura professionale che si interponga tra il ‘professore’ e il pubblico: un tecnico della comunicazione. Non sembra che gli architetti allestitori abbiano dato buona prova di sé e comunque non bastano.
    • Con la localizzazione delle raccolte. Spesso esse sono confinate in edifici storici bellissimi ma eccentrici, lontani dai luoghi che la gente normalmente frequenta, quasi segreti. In Nuova Zelanda la public library si trova nel centro della città, vicina a un grande parcheggio, con porte di cristallo che si aprono sul marciapiede e lasciando intravvedere ai passanti libri, lettori e scaffali… Sempre in Nuova Zelanda Antartica, la grande e stupenda mostra permanente sul mondo polare e i suoi esploratori, è collocata a fianco dell’aeroporto intercontinentale di Auckland.
    • Con l’economia politica dei beni culturali. Piuttosto che il bene venga consegnato all’oblio, all’incuria o alla distruzione, è opportuno scendere a patti con qualche considerazione di economia politica dei beni culturali. Le soprintendenze archeologiche, per esempio, se vogliono tutelare efficacemente i reperti di scavo, devono sapere quanto costa tenere aperto e fermo un cantiere edilizio, altrimenti…si sa bene che cosa succede. Ma anche con la produttività del bene culturale e perciò spesso con la sua destinazione d’uso occorre qualche compromesso. C’è un limite alla musealizzazione di beni mobili ed edifici, intesa come pubblica acquisizione e gestione di un patrimonio a esclusivo fine di conservazione e consumo collettivo. Certo patrimonio, come abbiamo visto, può essere fatto rivivere di vita economicamente produttiva, magari accentuando in senso privatistico l’uso del bene, pur continuando a tutelarlo. – Con i modelli di gestione. Sburocratizzare è il grido di dolore che si leva da ogni angolo della nostra vita nazionale, cioè assumere il punto di vista dell’utente, rendendo la gestione più agile, efficace e meno costosa. Un esempio: le biblioteche pubbliche e universitarie in Nuova Zelanda hanno un muro esterno che dà sulla strada principale, una specie di buca delle lettere. Ecco risolto, come l’uovo di Colombo, il problema della restituzione dei libri dati in prestito a casa e con grande soddisfazione degli utenti.
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C’è qualche cosa nella nostra realtà regionale marchigiana, che si sta muovendo verso questa direzione? Sì, qualcosa c’è.

  • Il Museo di Storia dell’agricoltura di Senigallia risponde a quasi tutti i criteri progressivi sopra citati. È frutto di volontariato. Ha occupato e occupa pensionati e anzianotti con molto tempo libero. Al pubblico denaro è costato pochissimo. Anzi, è stato occasione e stimolo (anche guerreggiato) per riconquistare un monumento, il convento delle Grazie, che dopo le leggi post-unitarie eversive dell’asse ecclesiastico era sommessamente slittato dalla proprietà comunale all’uso conventuale. Il museo delle Grazie è massicciamente frequentato e ben accordato alle esigenze turistiche della città. Accoglie un centro di studi e di documentazione, con ricca biblioteca specialistica (il nucleo forte è un lascito di un noto agronomo della zona). In passato ha dato lavoro sia a giovani neolaureati disoccupati che una legge speciale aveva temporaneamente reclutato, sia ad handicappati che hanno animato un laboratorio protetto per il restauro degli oggetti. Ha costituito e ampliato le raccolte con la collaborazione del collezionismo privato e con un capillare coinvolgimento della gente che abita nelle zone rurali circostanti.
  • Ad Ancona si sta avviando, con non poche difficoltà, l’iter per aprire un museo di storia della città, largamente ispirato alle soluzioni, ai temi e ai principi sopra ricordati. Di esso esiste ormai un progetto abbastanza definito. Il gruppo di lavoro che lo ha pensato, assolutamente informale e fondato sul volontariato, è stato promosso dall’Assessore alla cultura e ai beni culturali ed è coordinato da chi scrive (in stretta collaborazione con Costanza Costanzi, del Centro regionale per i beni culturali, e con l’onnipresente, ma sempre indispensabile, Fabio Mariano). Sarebbe bene che altri centri marchigiani affrontassero il medesimo problema e confrontassero propositi e progetti con il modello anconitano; ma sarebbe anche bene che i programmi culturali della Regione Marche non ignorassero questo particolare campo d’azione, che promette di offrire risorse morali e materiali al turismo, alla scuola, all’orgoglio civico e, perché no, anche alla sempre malcerta questione dell’identità regionale.
  • Altre esperienze più o meno simili ci saranno pure, ma non le conosco a sufficienza. Dovrebbe supplire, tra breve, una ricognizione che il Centro per i beni culturali della Regione farà sui musei demo-antropologici delle Marche, onde valutarne consistenza, problemi e prospettive di sviluppo.
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Vent’anni dopo

Questo è quanto si pubblicava nel 1996 sulla rivista Le cento città. Quali aggiornamenti richiede oggi il testo? Ecco la risposta di Ercole Sori a Giannella Channel: “Il centro, che aveva tramandato a Pievebovigliana la grande tradizione della tessitura domestica, esiste ancora, ma i due inglesi se ne sono andati. Anzi, la storia di questo settore è oggi descritta da un bel museo del territorio, creato dall’amministrazione comunale dopo il 1997, come parte di un programma molto avanzato per la rinascita post-terremoto in chiave culturale, turistica e ambientale. Ne è nato un ottimo esempio di raccolta che spazia tra arte e demo-antropologia (vedi: Comune di Pievebovigliana, Museo civico “Raffaele Campelli”).

In materia di musei minori innovativi, si sono registrati alcuni successi e qualche delusione. È nato a Recanati un ottimo museo regionale dell’emigrazione, un fenomeno molto rilevante nella Marche di fine ‘800 e primo ‘900. A Serra de’ Conti, fondi europei utilizzati con rara intelligenza hanno consentito di creare uno dei musei più belli e innovativi di tutta la regione, il museo delle arti monastiche “Le stanze del tempo” (link).

Tra le delusioni va annoverato il Museo di storia della città di Ancona. Il gruppo di lavoro ispirato alle concezioni sopra descritte si è sciolto e ha dovuto consegnare il progetto in mani burocratiche (la Pinacoteca comunale); gli architetti-allestitori hanno avuto campo libero. Ne è uscita fuori una istituzione di buon livello didattico-didascalico, prevalentemente impostata come primo orientamento del turista nella visita alla città. Un novità positiva c’è stata ad Ancona: la Biblioteca ha ora un ascensore e anche chi ha ginocchia doloranti può frequentarla. La ricognizione in corso di svolgimento durante quel 1996 si è conclusa e ha prodotto un volumetto-guida (Regione Marche, Assessorato alla cultura, Centro beni culturali, Musei demoantropologici nelle Marche, 1998), curato da me e da Renzo Paci per la parte scientifica; da Mario Canti, Fiorenza Fiorini e Sergio Molinelli, per quella editoriale. Difficile dare un’idea dell’ampiezza e, talvolta, della stravaganza di cui questa guida dà conto. Si va dal Museo di informatica e storia del calcolo di Pennabilli, al Grande museo di Fabriano (con una sezione dedicata all’orrore e al fantastico allora presieduta da Carlo Rambaldi, quello di E.T. e Alien), al Museo storico minerario di Perticara, al Museo dei martelli di Sarnano, al Museo Beltrami di Filottrano (oggetti delle tribù pellerossa raccolti dallo scopritore delle sorgenti di Mississippi).

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Ercole Sori (Pievebovigliana, Macerata, 1943) ha insegnato Storia economica nella Facoltà di Economia dell’Università di Ancona dal 1968 al 2009. Contemporaneamente e per più brevi periodi è stato docente presso l’Istituto universitario di architettura di Venezia e la Facoltà di lettere dell’Università di Perugia, nonché visiting professor nelle università di Buenos Aires, Mar del Palta, Montevideo. Ha pubblicato, tra l’altro, “L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale” (Il Mulino, 1979), “Città e controllo sociale in Italia tra XVIII e XIX secolo” (a cura di, Angeli, 1982), “Dalla manifattura all’industria, 1860-1940” (in “Le Marche”, Einaudi, 1987). Presso l’editore Il Mulino sono usciti anche: “Il rovescio della produzione. I rifiuti in età pre-industriale e paleotecnica” (1999) e “La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento”, (2001). Ha fondato, diretto o collaborato redazionalmente alle riviste “Quaderni storici”, “Storia urbana”, “Proposte e ricerche”. Attualmente dirige il Centro sammarinese di studi storici presso l’Università di San Marino e sta pubblicando, in formato e-book presso l’editore Bookstones e in forma narrativa, quattro volumi sulla storia politica, economica, sociale e urbanistica di Ancona dal 1848 al 1940.

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