
UNA BELLA MOSTRA NELL’ITALIA CENTRALE CI RICORDA:
IL NUOVO MONDO NON CANCELLI LA CIVILTA’
DEI CAMPI
testo di Salvatore Giannella e Gianfranco Angelucci*
foto d'apertura di Vittorio Giannella

Abstract & Beginning
A: A beautiful exhibition in central Italy reminds us: the new world must not erase the civilization of the fields.
B: Dear readers, I invite you to visit an interesting photographic exhibition in Rotella (Ascoli Piceno); in the lands near the Infinito sung by Giacomo Leopardi. bears witness to the roots of Italy and Europe, a civilization of the fields from which we all descend.
Cari lettori, vi invito alla visita di una interessante mostra fotografica a Rotella, 785 abitanti in provincia di Ascoli Piceno, nelle terre vicine all’Infinito leopardiano, in quella regione Marche che brilla per il patrimonio paesaggistico, storico e artistico nell’Italia centrale.
La mostra ha per titolo ‘Bussavamo con i piedi’, appunti e immagini di una migrazione dall’entroterra marchigiano verso la Romagna e la Toscana. Sono esposte, nelle stanze del Palazzo Magnalbò, 280 foto d’epoca, oltre a numerosi documenti antichi, tutte relative al periodo del dopoguerra che testimoniano di una civiltà dei campi che sta scomparendo, da cui tutti discendiamo e che rappresentano le radici culturali e tradizionali dell’Italia e dell’Europa. Rappresentano uno spaccato di una società in rapida crescita, in evoluzione che passa da una civiltà esclusivamente contadina a una economia industriale con i relativi flussi migratori che essa genera.
La mostra, curata da Pietroneno Capitani, autore di numerose pubblicazioni sul tema compreso il libro Bussavamo con i piedi (Edizioni Libri dell’Arco, Rimini, con prefazione di Sergio Zavoli) da cui la mostra prende spunto, vede la partecipazione attiva dell’associazione culturale ‘Borghiotto’ e dell’associazione ‘Marchigiani di Romagna’ e illumina il fenomeno della grande migrazione che ha visto molti marchigiani lasciare la loro terra per cercare un futuro migliore in altre regioni italiane.
La combinazione di cultura, storia e tradizione enogastronomica rende la mostra un momento unico di celebrazione del territorio e delle sue radici e lascia nei visitatori una profonda riflessione sulla memoria storica e sull’importanza di preservare il patrimonio culturale che ci lega alle generazioni passate.
Una mostra che ha colpito mente e cuore, facendo affiorare nella mia banca dei ricordi le parole che quel grande e amato regista che fu Ermanno Olmi mi regalò un giorno in un’intervista in cui illuminava una parola chiave nel rapporto uomo-natura: il rispetto. Olmi, che coltivava la memoria forte della sua infanzia contadina, era convinto che ci salveranno i coltivatori della terra e la loro civiltà, a differenza delle lusinghe tecnologiche e finanziarie del turbocapitalismo che soffia sul pianeta.(Link all’intervista integrale: https://www.giannellachannel.info/intervista-ermanno-olmi-dove-ce-vigna-ce-civilta-de-vinis/).

La foto dell’inaugurazione della mostra a Rotella (Ascoli Piceno). Alla destra del sindaco, Giovanni Borraccini, c’è il curatore della mostra, l’editore e scrittore Pietroneno Capitani (Montedinove, Ascoli Piceno, 1956), che vive e lavora a Rimini.
LA RECENSIONE / di Gianfranco Angelucci*
Quel mondo di ieri visto da Roma,
nel segno di Fellini e Tonino Guerra
Sulla mostra, sul libro (per l’occasione aggiornato e ristampato) e sul curatore Pietroneno Capitani meritano di essere illuminate le parole dedicate da Gianfranco Angelucci, felice scrittore che ha lavorato a lungo a fianco di Federico Fellini: è stato lo sceneggiatore del film “INTERVISTA” (1987), Premio speciale della giuria a Cannes e primo premio al Festival di Mosca (più info biografiche, a chiusura del testo).
Anche Fellini è annoverabile fra gli intellettuali della diaspora, coloro che un giorno hanno preso il treno (ricordate il finale del film I Vitelloni?) e voltato le spalle al proprio paese di origine per partire alla scoperta di un altro mondo, inseguendo l’imperativo di una vocazione magari confusa ma irresistibile. Le radici però non si spezzano, e seppure sottili come capelli continuano a filtrare un impalpabile humus segreto. Per il regista trascorrono trent’anni e affiora un film come Amarcord; passano altri anni e, subìto l’insulto della malattia, Federico ritorna fisicamente al suo ‘borgo’.
“Ascolta”, mi diceva quando gli domandavo perché, “li senti questi suoni?”. Intendeva le voci che lo circondavano nella camera dell’ospedale, il parlare solerte, allegro, scanzonato, materno, delle tante infermiere che lo accudivano; sembrava veramente di assistere alla sequenza di 8 ½ in cui i bambini vengono immersi nella grande tinozza di vino, per renderli più forti, con tutte quelle donne intorno che li coccolano, li sfregano, li asciugano, li accarezzano avvolgendoli nelle lenzuola bianche e in un’amorosa tela di parole.
Il mondo di Fellini e Tonino Guerra. Fellini, infermo, aveva voluto tornare al grembo della sua Terra. Non a Roma che era stata la città dell’affermazione, del successo, del mito, ma al paese dell’infanzia, il borgo delle fogarazze [gradi falò, Ndr]. Del quale faceva parte anche Tonino Guerra; e quale altro credete sia stato il loro rapporto se non l’evocazione di quel suono indimenticato? Tonino, dopo tanti anni di cinema nella Capitale, parlava ancora mantenendo quell’accento e quella cadenza, strascicando le s in sc, dicendo poescìa invece di poesìa. E Federico lo prendeva in giro, ma quanto ne gioiva!
Vorrei essere romagnolo per provare dentro di me quell’inesprimibile dolcezza. Mi aspetto un giorno una cittadinanza onoraria, una patria adottiva in cui rifugiarmi, in cui potermi ritrovare, al pari di quella romana del cinema, condivisa con Fellini.
Ma è possibile diventare romagnoli? Ecco una buona domanda per la quale arriva una inaspettata e originale risposta nel libro di Pietroneno Capitani, “Bussavamo con i piedi”, in libreria dopo l’affollata presentazione, arricchita da una mostra fotografica.
Capitani racconta di un’altra migrazione, non quella delle inquietudini intellettuali, ma quella del bisogno e della fame.
Di quei contadini del Piceno che, non riuscendo più a vivere di ‘mezzadria’ su fondi che non bastavano a sfamare le troppe bocche – il sistema agricolo si reggeva sulla equazione “un ettaro, un uomo”, ma l’incremento demografico del dopoguerra aveva spezzato quel precario equilibrio – negli anni Cinquanta e Sessanta lasciarono le case coloniche delle Marche nelle valli attorno ad Ascoli Piceno.
In marcia verso la Romagna. Caricarono sui carretti le poche carabattole, salutarono senza mai più dimenticare i propri Santi protettori, e con il cuore ricolmo di speranza risalirono la costa adriatica verso la terra promessa, su su, oltre Ancona, oltre Pesaro, in quell’ immediato entroterra riminese che arrivava a lambìre fin quasi le porte di Forlì.
Erano intere famiglie che andavano a rimpiazzare, nei terreni abbandonati, la forza lavoro che intanto si spostava progressivamente in direzione della riviera. Lì c’erano il mare, la spiaggia, la balneazione, e il boom economico al suo affacciarsi lasciava intravedere prospettive di inaudito benessere nel primo turismo di massa.
Le campagne non fruttavano abbastanza, si lamentava la scarsità di acqua per l’irrigazione, gli orti non esistevano, erano sconosciuti i finocchi, l’insalata, il pomodoro, il radicchio rosso che diventerà quasi un simbolo della regione. E furono i nuovi arrivati a trasformare quelle pianure e colline praticamente improduttive, in appezzamenti rigogliosi. Portavano con sé il proprio sapere, erano ‘coloni’ nel vero e più nobile significato della parola, esperti cioè in ogni coltivazione e di ogni ciclo della natura, e persino depositari di tecniche diverse che, come accadde per la coltivazione della vite, avrebbero consentito raccolti più abbondanti e pregiati.
Scavarono pozzi, si rimboccarono le maniche, piegarono di nuovo la schiena, ma questa volta su terreni di loro appartenenza, traendone dignità e sostentamento. E se la nostra origine è la terra, se persino Adamo deriva da un grumo di fango forgiato dal Signore, nelle vene dei nuovi coloni cominciò a scorrere la linfa del luogo, il buon sangue romagnolo.
Pietroneno Capitani è figlio di uno di questi immigrati, Giovanni, che aveva tessera socialista (il nome di battesimo del nostro editore è fin troppo eloquente per rievocare il leggendario Pietro Nenni, il quale col suo basco in testa era molto simpatico anche a Fellini), e otto figli a carico.
Il primo s’era fatto frate, e quando scomparve due anni fa, sotto il pagliericcio della sua cella fu trovata una busta con dentro vecchie foto sbiadite dal bordo seghettato, oltre a qualche scarno documento di famiglia. Uno scampolo di memoria da cui Pietroneno è partito per il suo progetto: recuperare frammento dopo frammento l’immagine di un passato che gli apparteneva senza appartenergli.
Era il ‘mondo di ieri’, datato nel secolo scorso, certo, anzi all’altro millennio, eppure separato da noi da appena cinquanta anni. Capitani è un riminese doc, sposato con una splendida romagnola, Caterina, dalla quale ha avuto due figli e che sa impastare una piadina da leccarsi i baffi.
E, svolgendo man mano la matassa, ha scoperto che sono migliaia i riminesi doc come lui che provengono dalle valli del Piceno e che oggi farebbero fatica a ricordare, con i piedi ben piantati nella fertile terra che li ha accolti, i luoghi, le facce, i paesaggi, le case, le stalle, le piante, gli strumenti, le parole delle loro radici che si perdono in un amalgama nebbioso, in un sussurro indistinto.

Il libro è per tutti loro – per tutti noi – scritto senza pretese di saggista, senza ambizioni da storico; e tuttavia sulla scia di quella indispensabile ricerca di consapevolezza di cui Nuto Revelli ha fornito le tracce indelebili. E’ un testo ricolmo d’affetto e nostalgia, ma anche di informazioni rare, di ricostruzioni, di documenti, di analisi, di umori lasciati fluire con curiosità e rispetto dagli oggetti quotidiani, dalle ‘carte’ notarili, dalle lettere e dalla viva voce di chi è stato testimone del tempo.
Ed è bello che nell’epoca dello spreco e dell’effimero, si imponga sempre più impellente il desiderio di conservare, di salvare il salvabile. Allo stesso modo della poesia, “Oscia la poescìa!” direbbe Tonino Guerra. Che a scuola non si insegna più, ma di cui nessuno può fare a meno se non rinunciando a se stesso.
Ricordate i versi impareggiabili di Giovanni Pascoli? Romagna solatia, dolce paese,/cui regnarono Guidi e Malatesta;/cui tenne pure il Passator cortese,/re della strada, re della foresta.
Capitani, sono pronto a scommetterci qualcosa, li conosce a memoria, per filo e per segno.