L’ATTUALITA’ DELLA MEMORIA: RIVIVIAMO LE EMOZIONI DI UN GIORNALISMO RITROVATO. NELLA PRIGIONE DI EVIN, A TEHERAN, IL RACCONTO INEDITO DI LANFRANCO VACCARI


testo di Lanfranco Vaccari*
per Giannella Channel

Negli anni successivi all’instaurazione del regime teocratico degli ayatollah, la prigione di Evin a Teheran, dove è stata detenuta dal 19 dicembre 2024 all’8 gennaio 2025 la coraggiosa cronista italiana Cecilia Sala,  è stata spesso un’indesiderata deviazione di percorso per i giornalisti stranieri in Iran. Questo è il racconto di quel che successe, nella tarda primavera del 1980, a uno di loro. (s.g.)

Al settimo squillo, o forse al decimo, afferrai la cornetta e bofonchiai qualcosa.

“C’è qualcuno che vuole vederla”, disse il portiere di notte.

“Gli dica di ripassare domattina”, risposi.

“Mi permetta di consigliarle di scendere subito”, fece lui. “Subito.”

Infilai i jeans e una t-shirt e scesi due rampe di scale, cercando di immaginare chi potesse cercarmi alle tre del mattino inn un albergo di Teheran. Prima che mi venisse una qualsiasi idea, mi trovai di fronte a sei pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione khomeinista, tutti dotati del kalashnikov d’ordinanza.

“Deve venire con noi”, ordinò uno, in inglese.

“Perché?”

“Glielo diranno al comando.”

“Voglio telefonare alla mia ambasciata.”

“Non può telefonare a nessuno.”

“Ma ho il diritto di chiamare la mia ambasciata”, protestai.

“Lei non ha nessun diritto. Non qui. Non ora”, tagliò corto lui, afferrandomi per un braccio.

Mi trascinarono fuori e mi spinsero verso una delle due Ford Falcon nere, parcheggiate nel cortile dell’albergo, una piccola locanda di proprietà di una famiglia indiana su una traversa della principale arteria commerciale della capitale iraniana. Nata a cavallo degli anni ’30 come Pahlavi Street, era stata appena ribattezzata in onore del primo ministro nazionalista Mohammad Mossadeq (deposto da un colpo di Stato nel 1953) e sarebbe in seguito stata chiamata Vali-e Asr (il dodicesimo imam dell’islam sciita, quello che deve ancora arrivare).

Non mi portarono al comando dei Sepâh, il termine generico che indica i soldati e che viene usato colloquialmente al posto dell’acronimo, IRGC. Ma alla prigione di Evin, ai piedi della catena dell’Alborz che incombe su Teheran, la cui sagoma era fra le più riconoscibili e la cui fama è sempre stata biecamente sinistra, prima perché ospitava i prigionieri politici della Savak, la polizia segreta dello Scià, e poi gli oppositori del regime degli ayatollah.

La scorta mi fece percorrere un interminabile corridoio a pian terreno, punteggiato, sui due lati, da porte anonime, senza indicazione. Ne aprirono una, verso la fine, sulla sinistra, e mi spinsero dentro. Nessuno disse una parola. Sentii solo il rumore del chiavistello che veniva chiuso.

CONTARE LE PIASTRELLE DEL PAVIMENTO, La stanza era quadrata. La porta dava sulla parete di sinistra, al centro della quale c’era un tavolo con una sedia, tutt’e due di legno. La parete opposta era interamente occupata da finestre che affacciavano su un cortile interno: erano bloccate, oltre che ornate da inferriate esterne. Quella di destra era divisa in cinque cabine, divise da pannelli di legno e chiuse da tende scorrevoli in plastica. Ognuna aveva una sedia appoggiata al muro. Le sedute e l’intonaco, all’altezza della testa, ospitavano copiosi schizzi di sangue più o meno rappreso.

Cominciai a preoccuparmi.

Mi misi a contare le piastrelle del pavimento. Prima dal tavolino alle cabine, poi dal muro della porta alle finestre. Quando alzai gli occhi, vidi la mia Land Rover Serie III attraversare il cortile e sparire in qualche angolo buio. Sentii le gambe cedere e mi appoggiai ai vetri.

A quel punto, una ventina di giorni prima dei miei 29 anni, la 109 passo lungo era tutto quello che avevo, tutta la mia vita. L’avevo comprata, svuotando il conto in banca e aggiungendoci l’intera liquidazione dopo essermi dimesso dall’Europeo, per quello che nelle mie intenzioni era un viaggio forse non di sola andata, ma certo senza un programmabile ritorno: girare il Medio Oriente e l’Africa per raccontare le novità sui giornali del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Adesso, invece, il carcere di Evin aveva tutta l’aria di rappresentare la fine della strada.

Mi abbattei sulla sedia. E cominciai a ripassare tutto quello che avevo fatto negli ultimi giorni, negli ultimi mesi, alla ricerca di un possibile indizio, di un ragionevole motivo, di una plausibile causa – qualunque cosa mi spiegasse perché ero finito là dov’ero. In prigione.

Non ne trovai. Ero arrivato a Teheran alla fine di febbraio dell’80, quando il regime di Ruhollah Khomeini, la Guida suprema della rivoluzione, si stava consolidando. Mi ero accreditato al ministero degli Esteri. Frequentavo la sala stampa dei giornalisti stranieri. Facevo quotidiani pellegrinaggi all’ambasciata americana, dove, dal 4 novembre 1979, 53 diplomatici e cittadini americani erano tenuti prigionieri dagli “Studenti musulmani seguaci della linea dell’imam”. Alla fine di aprile, di ritorno da un viaggio a Bandar Abbas, avevo cercato di andare nel Grande Deserto Salato, Iran centro-orientale, dove una temeraria operazione della Delta Force americana per liberare gli ostaggi era spettacolarmente fallita. Ma i resti di un elicottero, di un aereo-cisterna e dei corpi di otto militari erano naturalmente off limits. Mi avevano, con gentilezza, fermato a Tabas.

Verso fine maggio era diventato evidente che il regime non avrebbe mai restituito gli ostaggi finché alla Casa Bianca ci fosse stato Jimmy Carter, ma avrebbe aspettato le elezioni del 4 novembre 1980 e poi, in base al risultato, stabilito come muoversi.

Fu a quel punto che avevo deciso di andarmene dall’Iran, almeno fino all’autunno. Come mi accorsi presto, non era affatto scontato: il Paese era sigillato, non c’era modo di uscirne. Il regime aveva abolito i traghetti attraverso il Golfo Persico per tentare di stroncare il contrabbando di valuta. La strada verso il Pakistan era impraticabile a causa del movimento di resistenza dei Baluchi (sunniti) contro la teocrazia sciita. I confini con l’Afghanistan erano chiusi perché, dopo l’invasione sovietica, Teheran aveva dichiarato intransitabile l’intera provincia del Khorasan. Si poteva entrare, in teoria, in Azerbaigian, ancora saldamente ancorata all’URSS di Breznev. Ma: avrebbero dato un visto a un giornalista? Con auto propria? Dall’Iran? Non potevo neppure ripercorrere al contrario la via dell’andata, da Bazargan/Iran a Gürbulak/Turchia, per via dei “disturbi” provocati da Azeri e Curdi.

Rimaneva un’ultima possibilità, precaria e tuttavia logica. Passare per il Khuzestan, entrare in Iraq a Bassora e precipitarsi in Kuwait. Prendersi una vacanza e poi decidere che fare.

C’ERA UN PROBLEMA: LA TENSIONE IRAN-IRAQ. C’era un problema, naturalmente. La tensione fra Iran e Iraq stava montando e quattro mesi dopo, il 22 settembre, sarebbe diventata guerra aperta. La maggioranza della popolazione del Khuzestan è araba, dunque guardata con superciliosa condiscendenza ed enorme sospetto da Teheran (essere scambiati per arabi è considerato dai persiani un oltraggioso affronto).

Andai al comando delle Guardie della Rivoluzione, per sapere se avessero qualcosa in contrario al fatto che chiedessi un visto di transito all’Iraq sulla via del Kuwait. “Naturalmente no”, risposero. “In questo Paese, lei è libero di muoversi come vuole”. Chiesi se fosse possibile avere una lettera di lasciapassare da presentare alla polizia di Abadan o a un’eventuale pattuglia che mi avesse fermato lungo la strada. “Naturalmente sì”, acconsentirono.

La intascai e mi diressi all’ambasciata irachena, che affacciava anch’essa su Mossadeq Street, ma molto più a sud rispetto al mio albergo. Risposi a una trentina di domande, compilai una dozzina di formulari, firmai una ventina di scartoffie. “Venga a prendere il visto di transito fra tre giorni”, dissero.

Mi arrestarono sei ore prima che potessi ritirarlo.

Era tutto quello che avevo fatto nei miei 100 giorni in Iran. Non mi venne in mente nient’altro. E comunque nulla che, perfino secondo i capricciosi criteri dei regimi totalitari, potesse ai miei occhi risultare compromettente. Mi sbagliavo, com’era ovvio. Ma non riuscivo a figurarmi non dico una buona ragione, ma anche soltanto un labile pretesto per arrestarmi.

Guardai fuori. Il cielo si stava rischiarando e la città era avvolta nella sua caratteristica foschia di colore giallo-arancio. “Si chiama smog ossidante”, mi aveva spiegato, in un momento di chiacchiere in libertà, Sorella Maria, il soprannome che i giornalisti stranieri avevano dato a Masoumeh Niloufar Ebtekar, la portavoce degli studenti che avevano occupato l’ambasciata americana, all’epoca iscritta alla facoltà di biologia della Shahid Beheshti University.

 

Incrociai le braccia sul tavolo, ci appoggiai la testa e crollai in un sonno inconsapevole.

 

Mi svegliò, alle 7, un pasdaran. Entrò sbattendo la porta. Teneva sulla spalla destra il kalashnikov e nella sinistra una ciotola di ferro. Non pronunciò parola. Lasciò cadere la scodella sul tavolo, facendo tracimare parte della brodaglia. Appoggiò la canna del mitra alla mia tempia, poi la accompagnò scivolando fino al fianco. La sua faccia disegnò un ghigno beffardo. Si girò e se ne andò. Non lo trovai divertente e mi riaddormentai.

Alle 10 si presentò un graduato, come le mostrine sulle spalle enfaticamente proclamavano. Mi riassettai alla meglio, sedendomi nel modo più dignitoso possibile, le spalle contro il muro. Lo accompagnava quello che stava diventando il mio pasdaran: teneva sempre il kalashnikov puntato, sgombrò il tavolo dalla ciotola e passò uno straccio per pulirlo. L’ufficiale fece un largo giro che lo portò al centro della stanza e di lì mi venne incontro inclinandosi in avanti, passo dopo passo.

Si fermò a una spanna dalla mia faccia, sbatté un pugno sul tavolo e gridò: “Tu spia americana!”. Risposi con un sorrisetto imbarazzato: “No, no: io giornalista italiano.”

Andò avanti così per una decina di minuti. Lui urlava accuse strampalate: che ero un fiancheggiatore dei Mojahedin-e-Khalq, un gruppo islamo-marxista ritenuto all’epoca il più largo e attivo movimento di opposizione agli ayatollah; che avevo nascosto loro documenti di propaganda; che passavo ad agenti americani della CIA informazioni sui loro progetti insurrezionali. Io replicavo balbettando dei no via via più fievoli. A ogni ringhio, il suo volto diventava sempre più paonazzo. A ogni diniego, il mio (immagino) sempre più terreo. “Tornerò”, disse a un certo punto. “Abbiamo metodi molto persuasivi per farti dire tutto”.

Quand’era sulla porta, gli chiesi se potessi andare in bagno. “No”, rispose lui senza neppure voltarsi.

Neanche cinque minuti dopo, tuttavia, entrò il mio pasdaran, un giovanotto di non più di vent’anni. Con un calcio, fece scivolare lungo la parete un bugliolo, il cui contenuto si sarebbe aggiunto all’odore rancido della stanza. Rimase qualche secondo sulla soglia, si fece passare il pollice sulla gola, come fosse una lama, e, senza muovere un muscolo della faccia, sibilò: “Khalkhali, pek pek”.

Sadeq Khalkali, all’epoca hojatoleslam (il grado religioso immediatamente sotto a quello di ayatollah), era stato nominato da Khomeini capo dei tribunali rivoluzionari. Aveva svolto il compito con un fervore messianico, tanto da meritarsi sul campo un paio di soprannomi significativi: “il giudice impiccatore” (è a lui che si deve l’uso alternativo della gru come strumento di esecuzione sommaria) e “il macellaio di Teheran” (quando lo mandarono a reprimere il secessionismo nel Kurdistan iraniano, il suo tribunale ambulante arrivò a pronunciare 60 sentenze capitali al giorno). Proprio in quei giorni era stato promosso a capo dell’ufficio narcotici, dove accoppiò l’antica vocazione per le condanne a morte a una nuova propensione per il danaro. Alla fine del 1980 sarebbe stato costretto alle dimissioni per un ammanco di 14 milioni di dollari nelle casse dell’agenzia antidroga.

Il mio pasdaran fu l’unica persona che vidi nella giornata. A mezzogiorno mi portò una ciotola della stessa minestra mattutina, però con l’aggiunta di una fetta di pane. E alle sei di sera, per cena, ripropose un identico menù.

Smisi di chiedermi perché ero lì. La testa si svuotò di congetture, ipotesi e, paradossalmente, perfino paure. Nessuno sapeva dov’ero. E io ero l’ultimo a sapere che cosa sarebbe stato di me. Non c’era nulla che potessi fare, se non aspettare. Senza aver idea di cosa. Dovevano essere questi, mi dissi, i pensieri da prigioniero che tarlavano la mente di Arthur Meursault, il catatonico protagonista del romanzo Lo straniero di Albert Camus.

Passai le ore osservando le macchie sul pavimento e cercando di trovare forme equivalenti a quelle sui muri. Ne trovai una che mi ricordò i contorni del Mar Caspio, come li avevo visti sulla carta fisica di un atlante che compulsavo ossessivamente da bambino. Studiai le crepe attorno agli stipiti delle finestre e della porta, senza tuttavia spingermi a fantasticare che potessero allargarsi fino a provocare il collasso l’edificio – restituendomi la libertà. Non ebbi la forza di fare lo stesso con gli schizzi di sangue in quelle che, con tutta evidenza, erano cabine per muscolari interrogatori. Sarei stato costretto anche a immaginare pugni e manganelli dei pasdaran, e mani nasi e volti degli arrestati. Me lo vietai.

Era ormai notte quando mi trascinai verso la sedia e il tavolo. Incrociai le braccia, ci appoggiai la testa e mi addormentai.

Di nuovo, alle 7 del secondo giorno di prigione, il mio pasdaran si presentò con la colazione – la stessa ciotola con la stessa minestra e la stessa battuta su Khalkhali. Ritirò il bugliolo. Me lo riportò, svuotato, e passò uno straccio sul tavolo. Tornò a mezzogiorno, con la stessa ciotola, la stessa minestra, una fetta di pane e la stessa battuta sulla spia americana.

Nel frattempo, l’ufficiale che aveva minacciato di usare “metodi molto persuasivi” per farmi confessare tutto, qualsiasi cosa fosse, non si era fatto vedere. Non sapevo decidere se considerarlo un buon segno o un pessimo presagio. Così mi dedicai di nuovo allo studio di macchie e crepe.

Mi trovò in ginocchio, col naso a qualche centimetro dalla parete opposta alle finestre, quando entrò alle 6 del pomeriggio, accompagnato da tre suoi scagnozzi. “Abbiamo risolto il tuo caso”, disse con un’espressione di soddisfatto compiacimento. “Sei libero di andare. Queste sono le chiavi della tua macchina.”

Mi uscirono parole confuse e stentate, di cui la mia memoria ha perso ogni traccia. Allungai la mano per prendere le chiavi. I tre scagnozzi mi accompagnarono alla Land Rover.

Andai al centro stampa. Quando entrai, Sreten Petrovic, il corrispondente dell’agenzia di stampa jugoslava Tanjug, mi si fece incontro, allargò le braccia con un sorriso smagliante e mi serrò nel suo abbraccio da orso. “Bentornato nel mondo dei vivi, amico mio”. Le mie lacrime gli bagnarono le guance.

Sreten era un omone sui quarant’anni, un serbo di Belgrado. Mi trattava come se fossi il suo fratello minore. Almeno una volta a settimana mi invitava a casa sua, dove sua moglie si esibiva in qualsiasi specialità balcanica. Mi aveva consentito di usare il suo traduttore iraniano, al cui stipendio contribuivo per una parte ridotta. Avevamo stretto un patto: se, quando stavamo a Teheran, chiunque non avesse visto o sentito l’altro per 24 ore avrebbe contattato il diplomatico che, al ministero degli Esteri, faceva da collegamento con i giornalisti stranieri accreditati.

E così andò. Nel pomeriggio del mio primo giorno nella prigione di Evin, Sreten telefonò all’albergo in cui alloggiavo, dove gli dissero che ero stato prelevato dalle Guardie della Rivoluzione. Allora si rivolse al diplomatico iraniano, al quale bastò una telefonata per localizzarmi. E qualche ora per consentire all’ufficiale dei pasdaran di considerare “risolto” il mio caso (nato, dedussi, dalla mia visita all’ambasciata irachena: mi seguirono un paio di giorni e poi vennero a prendermi in albergo).

Sreten avvertì subito il corrispondente dell’Ansa, che fece un lancio su “un giornalista italiano arrestato a Teheran”. La notizia fu ripresa dal TG1. L’indomani, il mio secondo giorno nella prigione di Evin, il Corriere della Sera pubblicò un trafiletto su una colonna, nella pagina degli esteri.

TRANQUILLIZZAI MIA MADRE A GORGONZOLA. Telefonai a mia madre, a Gorgonzola, alle porte di Milano, che mi disse di aver visto il TG1 e di non essere del tutto serena. Cercai di rassicurarla. “Starai anche benissimo”, ribatté lei, “ma ti voglio vedere”. Due giorni dopo, lasciata la Land Rover alle dogane dell’aeroporto di Mehrabad, sarei salito su un aereo per Roma e Milano.

Ma quella sera Sreten mi aveva invitato a cena per festeggiare. Sua moglie preparò cevapi (salsicce alla griglia di carne macinata) con ajvar (una salsa a base di peperoni, melanzane, aglio e peperoncino), gibanica (una torta con strati di pasta filo, uova e formaggio) e slatko (una conserva di frutta). Ad accompagnare i piatti, soltanto rakija (un’acquavite sui 50°).

Bevemmo a tutto il bevibile e brindammo a tutto il brindabile. Non ricordo assolutamente nulla di quello che dicemmo. Fu una serata indimenticabile. []

Lanfranco Vaccari (Milano, 1951) ha cominciato a fare il giornalista il 1° dicembre 1968 per il settimanale sportivo MilanInter, quando ancora frequentava il liceo scientifico. È stato direttore del settimanale L’Europeo, del quotidiano gratuito City (edito dalla RCS) e del Secolo XIX di Genova; vicedirettore della Gazzetta dello Sport; corrispondente a New York e a Tokyo; inviato del Sole 24 Ore, di Panorama e del Corriere della Sera. Quando ha smesso di girare il mondo per lavoro, ha continuato a farlo per curiosità.

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