Hemingway a Milano: amori e armi di un Nobel



 

Una lettera di precisazione a un testo su Giannella Channel (link). Una risposta qualificata dell’autore. E riaffiora una appassionante pagina di storia di un premio Nobel, Hemingway, a Milano e non solo. Questi sono i lettori e i collaboratori che onorano il lavoro, volontario e gratuito, del blog. Grazie. (s.g.)

Caro Angelino, giusto per la precisione, Ernest Hemingway il 24 ottobre 1918 tornò al fronte dall’ospedale di Milano non “dimesso”, ma “in licenza”, e non c’è prova che fosse diretto a Bassano del Grappa, dove c’era la Sezione 1 delle ambulanze ARC (American Red Cross). Più probabilmente andò a Rosà (Vi) dove era dislocato il suo reparto, la Sezione 4. Il 28 ottobre era già a Vicenza sul treno per Milano, in preda a un attacco di itterizia. Tornò ingloriosamente all’ospedale di via Armorari, senza vedere dal vivo la fine della guerra. Tutte queste informazioni sono disponibili dalla raccolta di lettere curata dalla prof. Sandra Spanier e dall’ultimo volume curato da Michael Katakis, “Ernest Hemingway, Artifacts from a Life”.

Piero Ambrogio Pozzi

Caro Pozzi, la ringrazio per la precisazione. Anche perché mi consente di approfondire l’incredibile rapporto di Ernest “Ernie” Hemingway con l’Italia e soprattutto con Milano, che lo ricorda e celebra con la targa di cui scrivevo, sul palazzo di via Armorari 4, a due passi da piazza Duomo.

Ricapitolando: quell’ardimentoso e sfrontato “ragazzo del Novantanove”, futuro premio Pulitzer nel 1953 e Nobel per la Letteratura l’anno successivo, nasce in un sobborgo di Chicago, Oak Park. Fin da piccolo pratica diversi sport, compresa la boxe che però lascia dopo aver ricevuto un brutto pugno all’occhio sinistro. A soli 18 anni, completati gli studi nella Municipal High School della sua cittadina, viene assunto come reporter dal quotidiano Kansas City Star ma, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti il 6 aprile 1917, falsifica la sua data di nascita spostandola indietro di un anno, dal 1899 al 1898, e fa domanda per andare a combattere in Europa con il Corpo di spedizione del generale John “Black Jack” Pershing, seguendo l’esempio di una marea di universitari d’oltreoceano, molti dei quali aspiranti scrittori, tra cui Dashiell Hammett e John Dos Passos, anche lui di Chicago, con cui farà poi amicizia a Vicenza.

Hemingway mostra la sua foto in divisa da “sottotenente onorario” confezionata dal sarto milanese Spagnolini.

La cerimonia di partenza della Sezione Uno ARC da Milano per il Veneto: dall’autolettiga si affaccia John Dos Passos.

L’arrivo al fronte degli americani viene salutato da Gabriele D’Annunzio con un messaggio alla Associated Press che vorrebbe essere un elogio però si tramuta in una irrimediabile gaffe: «Eravate una massa enorme e ottusa di ricchezza e di potenza, ora apparite come una razza di passione e di tempesta».

La richiesta di Hemingway viene respinta per un difetto all’occhio sinistro conseguenza dell’incidente di pugilato; ma Ernest riesce comunque a farsi prendere come autista di ambulanze (e quell’anno il Servizio autolettighe dell’ARC, American Red Cross, ovvero la Croce Rossa statunitense, “arruola” ben 325 studenti dell’università di Harvard, 187 di Yale e 181 di Princeton).

A sinistra, Hemingway al posto di guida di un’ambulanza dell’America Red Cross.

Giunto in Italia, trascorre due settimane nella tranquillità della Sezione IV dell’ARC di Schio, ai piedi del monte Pasubio (e in quei giorni assiste a Roncade al discorso in cui D’Annunzio sdogana il motto degli Arditi “Me ne frego!”), poi chiede e ottiene di essere trasferito come assistente di trincea in un’area più “calda”. Raggiunge il Basso Piave il 24 giugno 1918, il giorno dopo la fine della cosiddetta Battaglia del Solstizio (definizione coniata proprio da D’Annunzio) e annota:

Ciò che dovrei fare qui è dirigere un posto di ricovero, distribuire cioè posta, cioccolata e sigari a feriti e soldati in prima linea. Ogni pomeriggio e mattina riempio lo zaino, indosso l’elmetto di latta, mi munisco di maschera antigas e batto le trincee in bicicletta… Perbacco, come mi sento solo.

Ernest in bicicletta e in divisa da bersagliere tra le rovine della chiesa di Fossalta.

Nella notte tra l’8 ed il 9 luglio decide di spingersi nel cuore della battaglia, dove gli è stato ripetutamente proibito l’accesso, in un’area nota come Busa del Buratto, là dove l’acqua del Piave raggiunge Fossalta seguendo una serie di anse disegnate a “elle”. Vuole portare ristoro a due militari italiani di un avamposto, ma le voci attirano l’attenzione degli austriaci appostati sulla riva sinistra del fiume, che sparano un colpo con un mortaio a corta gittata, la micidiale bombarda pesante Minenwerfer. Uno dei soldati muore all’istante, l’altro è seriamente ferito. Hemingway ha le gambe martoriate dalle schegge, in totale 237, però se lo carica in spalla e parte barcollando alla ricerca di soccorsi. Dopo cinquanta metri una raffica di mitragliatrice gli dilania il piede e la rotula destri. Prima di svenire, riesce a trascinarsi per un altro centinaio di metri con il ferito sulle spalle.

Si salva perché le schegge del Minenwerfer gli arrivano non in modo diretto, avendo prima colpito in pieno il militare che gli fa involontariamente da scudo. Ebbene, solo dopo più di cent’anni, nel gennaio 2019, quell’eroe a sua insaputa è stato individuato dal biografo di Hemingway James McGrath Morris e dallo storico veneto Marino Perissinotto nel ventiseienne fante Fedele Temperini, che prima della guerra faceva il contadino nel podere Il Giardino di Montalcino (Siena), patria del vino Brunello.

A svelarne la storia è stato il quotidiano Washington Post e l’identificazione è stata possibile perché Temperini è stato l’unico militare del 69° Reggimento Fanteria della Brigata Ancona morto nella notte tra l’8 e il 9 luglio a Busa del Buratto: attraverso i registri militari gli studiosi hanno determinato le unità presenti quel giorno sul fronte, scoprendo che quindici dei diciotto caduti italiani erano in altre zone e due dei tre rimanenti appartenevano al 152° Reggimento Fanteria della Brigata Sassari, che però era localizzato in una trincea due chilometri più indietro. Perciò Temperini, del 69°, è di certo il soldato abbattuto dal colpo di mortaio, l’eroe involontario che ha fatto da scudo a Hemingway.

Il 20 aprile 2019, nel Museo della Battaglia, il Comune di Vittorio Veneto (Tv) ha concesso la cittadinanza onoraria a Temperini e ad altri 331 combattenti di Montalcino, parte dei 600 mila ragazzi che nella Grande Guerra hanno perso la vita facendo muro all’avanzata austroungarica. Nell’argine di Fossalta, poi, da tempo una stele ricorda il ruolo di Hemingway nel conflitto, ma non fa cenno all’italian soldier che gli salvò la vita. McGrath Morris ha perciò proposto: «Ora che abbiamo finalmente trovato il suo nome, Fedele Temperini merita di essere ricordato nelle biografie dello scrittore e anche nel monumento sull’argine del Piave».

Ma torniamo alla tragica notte tra l’8 e il 9 luglio del 1918. Hemingway viene soccorso e portato in un posto di medicazione e successivamente in una stalla scoperchiata, dove rimane per due ore. Lo storico Giovanni Cecchin racconta che da lì «verso l’alba un’ambulanza lo conduce allo smistamento situato nell’edificio scolastico di Fornaci, a Monastier di Treviso, dove gli estraggono le schegge più grosse – una trentina – e lo imbottiscono di morfina. Il sacerdote fiorentino don Giuseppe Bianchi cappellano del 70° Reggimento Fanteria, lo riconosce e lo battezza [ma di questo non c’è assoluta certezza, ndr]».

Da Fornaci, Ernest è poi ricoverato a Melma di Treviso, nell’ospedale da campo della Croce Rossa di San Marino diretto dal capitano medico Amedeo Kraus che, storpiandone il nome, annoterà nella sua relazione:

Mi piace rammentare che è stato ricoverato nel nostro ospedale nel mese di luglio, (l’otto), il primo americano ferito al fronte: il volontario della C. R. Americana sottotenente Fraest Hemmeriguey, colpito da una scheggia di bombarda a Fossalta di Piave mentre distribuiva doni ai soldati del 69°.

Dopo cinque giorni Ernest è finalmente trasferito con un treno-ospedale a Milano (alla stazione Garibaldi, all’epoca scalo merci), dove rimane per tre mesi in via Armorari e s’innamora dell’infermiera Agnes von Kurowsky (Aggie per amici e degenti, Ag per lui) passione che – come ricorda con orgoglio tutto meneghino la targa sulla facciata dell’edificio a due passi dal Duomo – ispirerà nel 1929 uno dei suoi romanzi più celebri, Addio alle armi.

L’arrivo di Hemingway all’ospedale allestito a Milano dall’ARC è drammatico. Le ferite sono maleodoranti e il chirurgo decide di amputargli la gamba destra il giorno seguente. La crocerossina von Kurowsky, intuendo che lui preferirebbe morire piuttosto che sottoporsi a quel tipo di intervento, gli pulisce la ferita ogni venti minuti per tutta la notte e la mattina dopo l’anziano chirurgo, che da tempo la corteggia, cede alle sue insistenze e, riconoscendo che in effetti l’odore acre della cancrena è quasi del tutto scomparso, decide di limitarsi a estrarre chirurgicamente le pallottole dalla gamba e inziare a ripulire il piede dalle schegge. Un lavoro delicato che in tutto richiederà dodici interventi.

Hemingway è seriamente preoccupato, anche se con i genitori tende a sminuire l’accaduto e infatti il 16 luglio scrive questo rasserenante telegramma alla famiglia: «Ferito alle gambe da mortaio da trincea: non grave. Riceverò medaglia al valore. In piedi tra una decina di giorni».

Comunque esige che a eseguire le operazioni sia il miglior chirurgo di Milano e si rivolge a Baldo Rossi, primario del padiglione Litta del Policlinico e futuro senatore del Regno. A cui le immagini radiografiche, scoperte neppure venti anni prima dal tedesco Wilhelm Conrad Röntgen, consentono di valutare al meglio le ferite e approntare la successiva riabilitazione al padiglione Ponti dell’ospedale Maggiore, in via Francesco Sforza, così da prevenire la zoppìa. Alla fine Ernest sarà talmente soddisfatto della professionalità del luminare meneghino da citarlo sia nei Quarantanove racconti che in Addio alle armi, dove compare con il nome di fantasia di dottor Valentini.

Una curiosità: da giugno 2018 all’interno della John F. Kennedy Library di Boston è stata inaugurata una mostra permanente con documenti, lettere, manoscritti e preziosi cimeli del futuro premio Nobel. Fra questi ultimi anche una delle schegge che lo ferirono a Busa del Buratto nel 1918 e un anello con incastonato un frammento di uno dei due proiettili che gli trafissero il piede.

Quel gesto d’eroismo in riva al Piave è valso al diciottenne Hemingway la Croce di Guerra conferitagli dal presidente Usa Thomas Wilson e una medaglia d’argento al valore del Regno d’Italia, consegnata di persona il 19 novembre 1921 a Chicago da Armando Diaz, il generale che dopo la disfatta di Caporetto in terra slovena aveva sostituto Luigi Cadorna alla guida del Regio Esercito e organizzato la resistenza lungo il Piave e sul monte Grappa. Questa la motivazione:

Ufficiale della Croce Rossa Americana incaricato di portare generi di conforto a truppe italiane impegnate in combattimento, dava prova di coraggio e abnegazione. Colpito gravemente da numerose schegge di bombarda nemica, con mirabile spirito di fratellanza, prima di farsi curare prestava generosa assistenza ai militari italiani più gravemente feriti dallo stesso scoppio e non si lasciava trasportare altrove se non dopo che questi erano stati sgombrati.

Come ha testimoniato il Chicago Sunday Tribune nell’articolo intitolato Chicago acclama l’idolo italiano, la cerimonia della consegna si è svolta nel nostro consolato dopo che Diaz, in viaggio ufficiale da New York alla West Coast su un pullman speciale carico di giovani ufficiali italiani, alcuni dei quali legati ai Savoia, aveva sfilato trionfalmente per le strade cittadine in una grande parata organizzata in suo onore. Annoterà nel 1962 Marcelline Hemingway Sanford, sorella maggiore dello scrittore, nell’autobiografia Un ritratto di famiglia e mio fratello Ernest Hemingway: «Quella medaglia diede a Ernie il diritto a una pensione di cinquanta lire l’anno per tutta la vita. Inoltre fece di lui, come gli disse il generale Diaz, “un cugino onorario del re”».

Il giovanissimo Ernest, primo americano a essere ferito in Italia e per di più in modo così valoroso, è il ricoverato più popolare dell’ospedale temporaneo dell’ARC di Milano, una struttura particolarmente confortevole, col terzo piano riservato alle infermiere e il quarto alle sedici stanze dei degenti (sulla terrazza ci sono sedie di vimini e vengono serviti superalcolici). Quando arriva, in via Armorari sono attive diciotto crocerossine per assistere lui e altri tre ricoverati.

Due immagini di Hemingway sulla terrazza di via Armorari 4.
Nella foto a sinistra ha le stampelle e nell’altra è il quarto
da destra; Agnes von Kurowsky la seconda da destra.

Di Milano, che nel 1918 ha poco meno di 800 mila abitanti, Hemingway si innamora a prima vista. Scrive alla madre che «è la città più moderna e vivace d’Europa. (…) Dalla veranda dell’ospedale riesco a vedere la sommità della cattedrale del Duomo. È molto bella. Come se contenesse una grande foresta».

Hemingway nel ’18 nel carrozzino di un sidecar Indian Power Plus bicilindrico dell’esercito statunitense guidato da un amico davanti all’Arco della Pace di Milano.

Sul periodo milanese ha confessato:

Cenavamo al Grande Italia [inaugurato nel 1872 come “Caffè Gnocchi” e poi, dal 1882 al 1915, diventato “Caffè Gambrinus Halle”, ndr], seduti ai tavolini all’aperto nella Galleria Vittorio Emanuele II. George, il bravo capocameriere del locale, ci riservava un tavolo. Bevevamo Capri bianco secco ghiacciato in un secchiello, ma trovammo altri vini: Freisa, Barbera e i bianchi dolci.

Quasi mai un Campari, invece, ma solo un Martini liscio da Cova, all’epoca di lato alla Scala. Alcool a go-go. D’altronde era stato lui a consigliare a un amico: «Non perdere tempo con chiese, palazzi o piazze. Se vuoi conoscere una cultura passa il tempo nei suoi bar».
Il cuore della città della sua convalescenza è proprio la Galleria, dove Ernest bivacca per ore al Grande Italia leggendo i giornali con le corrispondenze dal fronte, scrivendo a casa, giocando a carte e non di rado alzando il gomito:

Ci piaceva star fuori in Galleria, i camerieri andavano e venivano e ogni tavolo aveva la sua lampada con un piccolo paralume. Un giorno arrivammo al Mercato e poi ai portici e a piazza del Duomo, piena di tram; al di là dei binari sorgeva bianca e umida nella nebbia la Cattedrale, nella piazza la nebbia era densa; la Cattedrale pareva enorme sotto la facciata; ed era umida veramente la sua pietra. Arrivati in fondo alla piazza ci voltammo a guardare il Duomo, era bellissimo nella nebbia.

Nebbia? Ma se parla dell’estate del 1918: forse prima di scrivere ha esagerato con l’amato Capri bianco ghiacciato.

Il ristorante Grande Italia in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, lato Scala.

A Milano il giovane e irrequieto americano decide di non farsi mancare nulla. (Scriverà a un amico dopo essere tornato negli States: «Ho l’impressione che qui da noi si viva a metà. Gli italiani, invece, lo fanno sino in fondo»). E così, pur se appoggiandosi a un bastone e quasi sempre accompagnato dagli amici o dalle crocerossine di via Armorari, si concede anche qualche puntata alle corse dei cavalli a San Siro, grazie all’amicizia con Frank Turner, un newyorkese che ha lavorato come fantino per la scuderia Tesio prima di fondarne in Lombardia una tutta sua, ancora oggi esistente.

Da quei pomeriggi all’ippodromo del galoppo, dove non disdegna di scommettere qualche lira, Ernest trarrà spunto per raccontare in Addio alle armi:

Noi quattro andammo a San Siro in una carrozza scoperta. Era una bella giornata e attraversammo il Parco e seguimmo il tranvai e poi fuori dalla città dove la strada era polverosa. C’erano ville con le cancellate di ferro e grandi giardini traboccanti di vegetazione, e fossi con l’acqua corrente e orti verdi con la polvere sulle foglie. Attraverso la pianura si vedevano le fattorie e le fertili tenute verdi coi loro canali di irrigazione e le montagne a nord. Molte carrozze entravano nell’ippodromo e gli inservienti al cancello ci lasciarono entrare senza biglietto perché eravamo in uniforme. Scendemmo dalla carrozza; comprammo i programmi e attraversammo a piedi il prato e poi la soffice pista del percorso verso il recinto del peso. Le tribune del pesage erano antiche e fatte di legno e i totalizzatori erano sotto le tribune e allineati vicino agli stalli. C’era una folla di soldati lungo lo steccato del prato. Il pesage era pieno di gente e facevano passeggiare i cavalli in cerchio sotto gli alberi dietro alla tribuna principale. Vedemmo gente che conoscevamo e trovammo le seggiole per la Ferguson e Catherine e osservammo i cavalli. Salimmo sulla tribuna centrale a guardare la corsa. (…) Allora non c’erano i nastri a San Siro e il commissario allineò tutti i cavalli, che parevano piccolissimi giù nella pista, e poi diede il via con uno schiocco della sua lunga frusta.

Hemingway a San Siro nel 1918 in compagnia d Agnes von Kurowsky – seconda da sinistra – e di altre due crocerossine americane.

A proposito di crocerossine, ce n’è una – quella che fa i turni di notte – subito entrata nel suo cuore. Lui le fa una corte serrata e lei, piena di corteggiatori com’è, all’inizio tentenna. Ma poi tra i due scatta una sintonia speciale.

La ragazza è Agnes von Kurowsky Stanfield, americana d’origine tedesca, nata a Filadelfia sette anni e mezzo prima di Ernest, che a lei s’ispirerà per il personaggio di Catherine Barkley in Addio alle armi. La loro love story è anche al centro del film del 1996 Amare per sempre di Richard Attenborough, con Sandra Bullock e Chris O’Donnell nei panni dei due morosi d’oltreoceano.

Che si vedono di giorno come infermiera e paziente, mentre di notte si scrivono come teneri innamorati. Nelle lettere la bella Agnes lo chiama Ernie, Kid (bambino) o Mr. Kid, firmandosi Mrs. Kid. Alla sorella Marcelline che gli chiede lumi sulla ragazza, lo scrittore confessa l’11 novembre 1918:

Sì, Ag è una infermiera della Croce Rossa. Di più non posso dire, sono come instupidito. Quando dico che sono innamorato di lei non significa che ho una cotta. Significa che la amo. (…) Mi sono sempre chiesto come sarebbe incontrare la ragazza che amerai davvero per sempre e adesso lo so. Per di più anche lei mi ama, il che è di per sé abbastanza un miracolo. Quindi non dire nulla agli altri perché è una confidenza che faccio solo a te.

Hemingway ha millantato con gli amici di aver vissuto appassionati incontri intimi con Agnes, che però ha sempre parlato solo di una innocente liason rimasta su un piano meramente platonico. Quando scrive, lui ama ingigantire i fatti, racconta bugie, immagina aneddoti mai successi. Oppure attribuisce a sé cose vissute dagli amici. Non a caso la sorella Marcelline confessò nel 1962: «Ernie assimilava le esperienze degli altri come una carta assorbente e dopo, a volte, presentava queste esperienze come se fossero sue».

A proposito dei rapporti con Agnes, ha confessato Henry Villard, autista d’ambulanza ricoverato con Hemingway in ospedale a Milano: «In Addio alle armi il protagonista Frederic Henry, nonostante l’handicap di una ferita simile a quella di Hemingway, fa l’amore nel letto d’ospedale con la sua infermiera Catherine Barkley. Quanto a una storia fra Ernest e la von Kurowsky, io li ho solo visti tenersi brevemente per mano con il pretesto che lei gli prendeva la temperatura…».

La breve ma irresistibile cronografia del loro legame è stata magistralmente illustrata a fine luglio 2019 da Antonio D’Orrico quando su Sette, magazine del Corriere della Sera, ha recensito il saggio Hemingway, l’uomo e il mito di Michael Katakis (Oscar Mondadori):

Il 23 novembre del 1918 il diciottenne Ernest scrive alla sorella Marcelline: “In effetti la amo più di ogni altra cosa o di chiunque altro al mondo o del mondo stesso”. Pazzo di Agnes, si scola «più o meno 18 martini al giorno” (al confronto James Bond era astemio). Lei si dimostra all’altezza: “Ragazzo, noi saremo soci. Quindi, se hai intenzione di bere, berrò anch’io. Esattamente quanto te”. Ancora esterrefatto, lui racconta a un amico: “E ha tirato fuori del dannato whiskey e l’ha versato così, puro, e prima di allora non aveva mai bevuto niente a parte il vino”. È la tipa giusta: “Ho senza dubbio il fondoschiena più grosso del mondo” (a un altro amico in dicembre). E il 3 febbraio del 1919: “Tutte le donne di Chicago sembrano un bicchierino di sciroppo di mais rispetto a un Borgogna dell’83”. Poco più di un mese dopo, la coltellata. “Lei non mi ama, Bill… ho lasciato perdere religione e tutto il resto perché avevo Ag da adorare… Volevo solo Ag e la felicità… La mia Piccola! Spero che lui sia l’uomo migliore del mondo. Oh Bill non riesco a scriverlo. Perché la amo maledettamente troppo”. Il 15 giugno: “Ieri ho ricevuto una lettera molto triste di Ag da Roma. Ha rotto con il suo maggiore… Povera bambina infelice, mi spiace da morire per lei. Ma non ci posso fare niente. Io l’ho amata e lei mi ha fregato”. Lui ha ormai cauterizzato il suo ricordo “a forza di sbronze e di donne e adesso non c’è più”. In realtà, non fu così. Per terminare Addio alle armi, il romanzo che celebra l’amore con Agnes (Catherine nel libro), Hemingway provò 47 finali prima di trovare quello giusto. Non gli fu facile dirle addio.

Ha raccontato nel 1990 Romano Giachetti su la Repubblica a proposito del libro di Henry Villard Hemingway in Love and War, poi tradotto in italiano nel ’92 dall’editore Mursia con il titolo In amore e in guerra. Il diario perduto di Agnes von Kurowsky, le sue lettere e le lettere di Hemingway):

La separazione di Agnes ed Ernest subì il suggello finale con una lettera del 7 marzo 1919 in cui lei si confessò apertamente: “Ernie, caro ragazzo… Sono e sarò sempre troppo vecchia, e questa è la verità, e non posso dimenticare il fatto che tu sei solo un ragazzo, un bambino… Tra l’altro, credo di stare per sposarmi”. Il futuro marito del momento era un ufficiale degli Arditi, il maggiore Domenico Caracciolo, di nobile stirpe partenopea. Il matrimonio sfumò, però Hemingway dovette riportare dal voltafaccia di lei una ferita profonda: era completamente all’oscuro, all’arrivo della lettera, dei mutati sentimenti di Agnes. Il finale di Addio alle armi è ugualmente tragico; e Hemingway, nel 1932, si adirò quando ne vide la prima versione cinematografica con Gary Cooper e Helen Hayes: “Non intendevo dargli un lieto fine”, sbuffò.

Nel racconto del 1924 Una storia molto breve (A Very Short Story), poi pubblicato nella raccolta del 1947 Quarantanove racconti, il protagonista è un militare americano ferito durante la Grande Guerra e accudito per tre mesi nell’ospedale militare di Padova dall’infermiera Luz, per cui perde la testa. I due decidono di sposarsi e lui la precede negli States per cercarsi un lavoro. Ma Luz gli scrive confessando di averlo tradito a Pordenone con un ufficiale degli Arditi. Doppiamente angosciato, è sconvolto e ha un fugace incontro sessuale con una sconosciuta a bordo di un taxi che lo porta ad ammalarsi di gonorrea.

Anche se sofferta, la reazione di Hemingway alla lettera di addio di Agnes fu assai meno funesta. Ecco un passo della lettera spedita da Chicago il 30 aprile 1919 a Lawrence T. Barnett:

Anzitutto lascia che ti dica che ogni previsione su una donna sia docile o selvaggia è decisamente impossibile. (…) Ora sono un uomo libero! Mio Dio, amico, non hai pensato per davvero che stessi per sposarmi e mettere su casa?.

Infine, nel luglio del 1997 è venuta alla luce una crudele vendetta trasversale architettata da Hemingway contro l’uomo che gli aveva scippato la fidanzata crocerossina. Una ripicca letteraria rimasta per più di settant’anni nel cassetto e tornata alla luce dopo il ritrovamento nell’archivio della Kennedy Library di Boston del manoscritto autografo di un racconto inedito del 1919, Ansa di Lampol. La scoperta si deve allo studioso veneto Giovanni Cecchin, esperto hemingwayano, già visiting fellow all’università di Princeton, secondo cui fu l’ausiliaria della Croce Rossa Rita Ruffo, zia dell’asso dei cieli Fulco Ruffo di Calabria (medaglia d’oro al valor militare per aver abbattuto venti aerei nemici e subentrato nel 1918, dopo la morte di Francesco Baracca, al comando della leggendaria Squadriglia degli Assi), a convincere Agnes a mollare per sempre Ernest e a fidanzarsi con il nobile napoletano Domenico Caracciolo.

Fulco Ruffo di Calabria nel 1917. Tutti gli aerei dell’asso del Servizio Aeronautico del Regio Esercito avevano dipinto sulla fusoliera un teschio nero con due ossa incrociate.

Venuto a conoscenza di questo fastidioso retroscena, lo scrittore decise di consumare la propria personalissima e acida vendetta contro il casato dei Ruffo, principi di Scilla, in un racconto composto dopo il rientro negli Stati Uniti e intitolato appunto Ansa di Lampol. Nelle trentatrè pagine ritrovate nel 1997 racconta la storia di un reduce americano che, spacciatosi come amico di Fulco Ruffo di Calabria, inizia a insidiargli la moglie. Ma, sopraggiunto l’interessato, lo umilia asserendo che il grande eroe della Regia Aviazione sabauda non era un “lupo” da caccia bensì un “coyote”.

Agnes von Kurowsky si è sposata due volte (nel 1928 con Howard Preston Garner ad Haiti e nel ’34 con il direttore d’albergo William Stanfield, vedovo e con tre figli) e poi si è spenta nell’84 a 92 anni. Hemingway, invece, prima di spararsi una fucilata in bocca nel 1961 ha avuto quattro mogli, tre figli e amanti a bizzeffe. Il 21 luglio di quest’anno avrebbe compiuto 120 anni.

Roberto Angelino, giornalista milanese, ha lavorato per 25 anni al settimanale Oggi; dal 2004 al 2007 è stato vicedirettore di Gente, poi è tornato a Oggi per curare gli Speciali e il bimestrale Oggi Foto. Nel 2015 ha pubblicato con Salvatore Giannella presso l’editore BookTime il volume Milano 50, con le schede dei 350 locali imperdibili della città sede dell’Expo, anticipate e poi sviluppate con successo su Giannella Channel. Sempre per i tipi di BookTime, la casa editrice di Gerardo Mastrullo, ha pubblicato altri due volumi: nel maggio 2016 Milano, mettiamoci una pietra sopra e, due mesi dopo, Milano al verde – Guida agli agriturismi di Milano e Provincia. L’ultima sua fatica libraria è Cover Story (Vololibero Ed., 2018) che racconta storie, segreti ed emozioni di 150 copertine dei più bei dischi italiani.

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