Nel corso della mia attività professionale di giornalista, caratterizzata anche da oltre un decennio di direzioni, non ho mai ricevuto una querela temeraria, ma ho sempre visto questo strumento, impugnato con crescente aggressività, come una vera minaccia alla libertà dell’informazione. Per questo ospito volentieri il chiaro e condivisibile contributo del bravo collega della Rai, Santo Della Volpe, con l’augurio che questa minaccia venga disinnescata dal prossimo Parlamento. (s.g.)

Milena Gabanelli negli studi di Report, trasmissione televisiva da lei condotta che propone inchieste giornalistiche, trasmessa da Rai 3.

Milena Gabanelli negli studi di Report,
trasmissione televisiva da lei condotta che propone inchieste giornalistiche,
trasmessa da Rai 3.

Qualcuno se n’era dimenticato. Non certamente noi, ma purtroppo neanche chi vede con sospetto e risentimento ogni inchiesta giornalistica che cerchi di mettere in luce potentati economici e l’arroganza del potere stesso. Parliamo delle querele temerarie e del brutto vizio, molto italiano, di usare le querele come minaccia alla libertà di stampa, con l’intimidazione a farsi pagare cifre stratosferiche per articoli di giornale o inchieste tv, ritenute diffamatorie. È’ accaduto di nuovo con la trasmissione di Rai3, Report, che peraltro detiene in triste primato delle querele ricevute o minacciate (sempre vinte).
Questa volta il querelante non è una persona che si è sentita minacciata, ma addirittura l’ENI, colosso mondiale degli idrocarburi, nonché una delle più blasonate aziende italiane nel mondo, che ha avuto il coraggio di chiedere una cifra spropositata, 25 milioni di euro, di risarcimento per una trasmissione televisiva! Il sesto gruppo mondiale nel settore petrolifero che si sente minacciato da una trasmissione intitolata Ritardi con ENI che faceva le pulci, come è diritto e dovere di ogni giornalista, sulla attività e sui bilanci della società. E argomenta in 145 pagine questa richiesta abnorme che forse si poteva scrivere in una riga o due: “Non vogliamo essere controllati dalla stampa”, oppure, se proprio ne erano convinti, “Avete sbagliato in questo o quel l’argomento, vi chiediamo di rettificare”. Invece hanno usato lo strumento principale dell’intimidazione, della serie non-azzardatevi-a -parlare-male-di-me,-altrimenti-vi-spello-vivi…

A futura memoria, come è nella peggiore tradizione delle querele temerarie, e rivolta all’intero mondo giornalistico, tanto per dire che nessun organo di informazione deve mettere il naso negli affari della ditta. Spiace ricordare che l’avevamo detto e che dobbiamo ripeterci, questa volta, però, come maggiore forze e un po’ più di speranza. Su questa materia, della diffamazione e delle querele temerarie, così come del diritto all’oblìo, è urgente che il Parlamento metta mano a una riforma organica che non avrebbe bisogno di molte pagine da scrivere. Nei due incontri nazionali, l’ultimo dei quali dell’ottobre scorso, abbiamo avanzato al ministro di Grazia e Giustizia e al Parlamento, due richieste chiare (riassunte negli atti del convegno pubblicati da Libera Informazione e a disposizione di chiunque ne facesse richiesta):oltre a eliminare il carcere per il giornalista eventualmente reo di diffamazione, istituire un deterrente alla querela temeraria, imponendo una sorta di cauzione preventiva che il querelante deve depositare all’atto della propria richiesta danni, pari a una cifra che può oscillare tra il 10 e il 20 per cento della cifra chiesta come risarcimento. Una somma che il querelante perde nel caso la sua richiesta fosse dichiarata comunque temeraria e alla quale sommare il pagamento delle spese processuali e il risarcimento dovuto al querelato se il querelante perde la causa. In altri Paesi di diritto anglosassone, in più occasioni il querelante è stato poi costretto a pagare al querelato la stessa cifra chiesta inizialmente come risarcimento, se il tribunale accoglie la temerarietà della querela. In Italia, nelle nostre forme del diritto, questo istituto non è stato mai applicato, anche se c’è stata in passato una sentenza simile del tribunale di Milano.

Ma intanto si potrebbe cominciare con questa introduzione di una ”cauzione” che diventa automaticamente una forma di deterrente. Si può fare anche di più e di meglio, basta che il Parlamento lo voglia fare: e che non succeda come nel novembre scorso quando la questione diffamazione entrò al Senato per una modifica a favore della stampa libera e ne stava uscendo con una legge che addirittura mandava in galera i giornalisti…! Oggi c’è un Parlamento nuovo e diverso: si cominci subito a parlarne. A Firenze, nel seminario dedicato all’ informazione durante la Giornata Nazionale della Memoria e dell’Impegno antimafia di Libera, è emersa la proposta di avviare subito una raccolta di firme per chiedere al Parlamento di ricominciare a trattare la materia della diffamazione e delle querele temerarie,insieme alla questione, nuova e d’importante, del diritto all’oblìo soprattutto nel Web.

Partiamo subito, non c’è un momento da perdere: per evitare che l’ ENI o le tante aziende che si sono sentite toccate da una inchiesta giornalistica, abbiano partita facile nelle proprie intimidazioni. Ma anche per una nuova legge sulla diffamazione che garantisca i cittadini: noi non dimentichiamo mai che il diritto a essere informati, a una informazione pulita e corretta ,va di ai passo con il diritto-dovere dei giornalisti a poter svolgere al meglio il proprio lavoro normato e difeso dall’Articolo 21 della Costituzione.

Sia chiaro: quando i giornalisti sbagliano ( e non dovrebbe accadere ma può accadere) devono rimediare ai propri errori in modo da fornire una visione corretta dell’oggetto della propria inchiesta. Ma questo non vuol dire sentirsi minacciati per un errore opinabile o per una verità scomoda e rivelata, solo perché si è avuto il coraggio di fare una inchiesta che ha dato fastidio al potente di turno. I cittadini devono sentirsi tutelati e devono potersi tutelare, ma senza che questo diritto diventi la mannaia sulla testa di chi fa informazione per impedire ai giornalisti di dire le notizie scomode per il potere, perché minacciati di risarcimenti milionari e non esigibili, se non chiudendo le imprese editoriali che hanno pubblicato quella notizia. Perché pochi ricordano che un risarcimento di quella portata, chiesto sempre in sede di processo civile e non penale, presentato moltissime volte da mafiosi e criminali citati in articoli giornalistici, non ha solo un effetto intimidatorio precedente la pubblicazione o divulgazione di una notizia; ma colpisce poi direttamente le aziende editoriali, soprattutto le piccole radio, o tv o giornali, che dovrebbero chiudere di fronte a un pagamento di centinaia di migliaia di euro.

Questo è intollerabile in un paese moderno e civile. È ora di riprendere in mano questo tema, troppo tempo dimenticato, anche nella recente campagna elettorale.

articolo21* Fonte: articolo21.info. Articolo 21 è il portale dedicato all’informazione: rassegna stampa, forum di discussione, dossier, approfondimenti, sondaggi, petizioni.