Così Oriana Fallaci mi raccontò Oriana

Storia del Giornalismo

introduzione di Salvatore Giannella, testo di Oriana Fallaci

Così Oriana Fallaci mi raccontò Oriana

Storia del Giornalismo

introduzione di Salvatore Giannella, testo di Oriana Fallaci

 
La pubblicazione postuma del volume di Oriana Fallaci “Il mio cuore è più stanco della mia voce” (Rizzoli, 2013) mi offre lo spunto per un ricordo che mi piace condividere con voi lettori di Giannella Channel nella sezione dedicata all’anno della cultura italiana negli Stati Uniti.
 
Nel suo ultimo viaggio da New York a Roma, sull’aereo con il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, Oriana Fallaci (avendo percepito l’avvicinarsi della morte che pochi giorni dopo, il 15 settembre 2006, se la sarebbe portata via, a 77 anni) aveva espresso un suo timore all’uomo politico: “Mi dispiace non poter leggere i “coccodrilli”, gli articoli sulla mia scomparsa. Descriveranno come io non ero…”. Com’era veramente Oriana? Sono stato collega della Fallaci al settimanale L’Europeo tra gli anni Settanta e Ottanta e un giorno lo chiesi proprio a lei. Arrivavano in redazione numerose lettere di ragazzi, scuole, famiglie che chiedevano informazioni sulla giornalista e scrittrice italiana più letta e discussa al mondo. Li accontentavamo con una serie di ritagli, ma sarebbe stato bello, dissi a Oriana, una sera che mi accolse come ospite nella sua casa di Greve in Chianti, se lei stessa avesse potuto raccontare in breve la sua vita a quei lettori esigenti. E Oriana accettò. Nel giro di qualche settimana mandò da New York (dall’ufficio della Rizzoli Corporation al 712 della Fifth Avenue in cui mi capitò più volte di incontrarla nei miei viaggi oltreoceano) le sei cartelle fitte fitte, battute con la sua Olivetti 32, scritte con la consueta passione e minuzia, le imprecisioni corrette con il bianchetto, riga dopo riga, ricche di particolari e di dettagli curiosi. Ripubblico quel testo, che troverete nel numero speciale del mensile L’Europeo (n. 4/2007) interamente dedicato a lei. (S. Gian.)
La pubblicazione postuma del volume di Oriana Fallaci “Il mio cuore è più stanco della mia voce” (Rizzoli, 2013) mi offre lo spunto per un ricordo che mi piace condividere con voi lettori di Giannella Channel nella sezione dedicata all’anno della cultura italiana negli Stati Uniti.

Nel suo ultimo viaggio da New York a Roma, sull’aereo con il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, Oriana Fallaci (avendo percepito l’avvicinarsi della morte che pochi giorni dopo, il 15 settembre 2006, se la sarebbe portata via, a 77 anni) aveva espresso un suo timore all’uomo politico: “Mi dispiace non poter leggere i “coccodrilli”, gli articoli sulla mia scomparsa. Descriveranno come io non ero…”. Com’era veramente Oriana? Sono stato collega della Fallaci al settimanale L’Europeo tra gli anni Settanta e Ottanta e un giorno lo chiesi proprio a lei. Arrivavano in redazione numerose lettere di ragazzi, scuole, famiglie che chiedevano informazioni sulla giornalista e scrittrice italiana più letta e discussa al mondo. Li accontentavamo con una serie di ritagli, ma sarebbe stato bello, dissi a Oriana, una sera che mi accolse come ospite nella sua casa di Greve in Chianti, se lei stessa avesse potuto raccontare in breve la sua vita a quei lettori esigenti. E Oriana accettò. Nel giro di qualche settimana mandò da New York (dall’ufficio della Rizzoli Corporation al 712 della Fifth Avenue in cui mi capitò più volte di incontrarla nei miei viaggi oltreoceano) le sei cartelle fitte fitte, battute con la sua Olivetti 32, scritte con la consueta passione e minuzia, le imprecisioni corrette con il bianchetto, riga dopo riga, ricche di particolari e di dettagli curiosi. Ripubblico quel testo, che troverete nel numero speciale del mensile L’Europeo (n. 4/2007) interamente dedicato a lei. (S. Gian.)

Oriana Fallaci - Il mio cuore è più stanco della mia voce

La copertina del numero speciale del mensile L’Europeo (n. 4/2007) dedicato ad Oriana Fallaci

Sono nata a Firenze, da genitori fiorentini, il 29 6 1929: Tosca ed Edoardo Fallaci. Da parte di mia madre, tuttavia, esiste un “filone” spagnolo: la sua bisnonna era di Barcellona. Da parte di mio padre, un “filone” romagnolo: sua madre era di Cesena. Connubio pessimo, com’è ovvio, nei risultati temperamentali. Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa.
 
Sono la primogenita di quattro figlie: nessun maschio in famiglia. Mia sorella Néera, la secondogenita, è giornalista come me: a Oggi. E mia sorella Paola, la terzogenita, pure. Lavora a Tempo. La quarta, Elisabetta, ancora no. È una bambina, frequenta le scuole elementari. Ma tutto fa credere, e specialmente lo fa credere il suo modo di scrivere, che anche lei farà il nostro mestiere. La responsabilità, inutile aggiungerlo, ricade su di me. Io fui la prima a lavorare nei giornali. Tuttavia, lo feci influenzata dall’esempio di uno zio, Bruno Fallaci, noto giornalista e fondatore di quotidiani in Italia. Lo zio Bruno era contrario. Per i primi cinque anni fu addirittura ostile. Il caso, poi, mi portò un giorno a lavorare nello stesso settimanale: Epoca. Fu un periodo duro per me, professionalmente parlando. Onde evitare accuse di nepotismo, lo zio, che di Epoca era direttore, mi relegava ai servizi più infami. Strano a dirsi, ciò cementò la nostra amicizia che oggi è grandissima. Lo zio Bruno ama narrare che un tempo mi si chiedeva se “ero nipote di Bruno”, oggi gli chiedono se “è zio dell’Oriana”.
 
A Firenze sono cresciuta e ho studiato. Vi ho trascorso insomma l’infanzia e l’adolescenza. La mia infanzia non è stata allegra, i miei genitori erano abbastanza poveri. Mio padre possedeva una piccola “bottega artigiana” fiorentina, con tre o quattro operai che gli costavano tutto il guadagno. Quale antifascista militante, era anche un perseguitato politico e ciò non aiutò certo a farmi vivere agi fisici e morali. Mi servì tuttavia come ottima educazione alla disciplina e alla consapevolezza che la vita non è una facile avventura. Studiai all’Istituto magistrale fino al giorno in cui passai al ginnasio, facendo un salto di due anni. Il ginnasio era il Galileo Galilei. Di qui passai al Liceo Galileo Galilei: Liceo Classico. Per quei due anni di salto, presi la maturità a 16 anni anziché a 18. A 16, dunque, mi iscrissi all’Università. A scuola fui sempre brava nelle materie umanistiche. Particolarmente brava in italiano, in filosofia, in latino e in greco. Adoravo la storia. Pochissimo brava, invece, nelle materie scientifiche. (Non ho mai capito nulla, o quasi, di matematica e fisica). La media dei voti risultava tuttavia ottima per i nove che riportavo nelle materie umanistiche. Ebbi un esame di maturità particolarmente felice. Lo svolsi un anno (mi pare il 1948 o il 1949) (Sic! Dovrebbe essere stato il 1945, ndr) particolarmente duro, una vera strage con bocciature, ma riportai la media maggiore a otto (ci tenevo molto perché, in tal modo, non pagavo le tasse scolastiche).
 
Particolare successo ebbe il mio tema di italiano: “Il concetto di patria dalla Polis greca a oggi”. Oggi lo si definirebbe un tema contestatario. Provocò polemiche e incertezze tra i professori, i più conservatori dei quali volevano giudicarlo con l’insufficienza. Vinsero i più intelligenti e il tema ebbe, per voto, un dieci meno. Il meno era dovuto a un errore di ortografia che nella fretta m’era sfuggito. Devo aggiungere che prendevo la scuola terribilmente sul serio. Studiavo pazzamente, con piacere e con convinzione. In condotta però davo problemi. Non perché mancassi di rispetto verso i professori ma perché polemizzavo spesso con loro. In terza liceo fondai e capeggiai un movimento studentesco chiamato “Unione Studenti”, US. Attraverso amici tipografi della Nazione di Firenze pubblicai anche il Manifesto degli Studenti: che ebbe un miserabile successo. Volevamo, infatti, fare un sindacato degli studenti. Gli allievi del Galilei mi ascoltarono solo per organizzare uno sciopero nel quale non credevo. Lo sciopero aveva come scopo quello di fare un giorno di vacanza abusiva. Mi opposi inutilmente e poi, insieme ai due amici coi quali avevo fondato l’US, Giò Ramat e Piero Ugolini, andai regolarmente a lezione. I miei professori non me lo perdonarono mai: furono i soli a dover lavorare, al Galilei, quella mattina.

Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – 15 settembre 2006).

Questo mio atteggiamento nasce da un fatto preciso e che mi distingueva dal resto degli studenti fiorentini. Quale figlia di Edoardo Fallaci, uno dei capi della Resistenza a Firenze, comandante militare per il Partito d’ Azione in città, avevo partecipato alla Resistenza contro i fascisti e i nazisti. Ero staffetta di città e anche di montagna. Portavo armi, giornali clandestini, messaggi ai compagni nascosti o riuniti in formazioni partigiane. Attaccavo sui muri, con la colla, i manifesti contro i fascisti: la sera prima del coprifuoco. Li infilavo nelle tasche della gente per strada o in tranvai. E per un certo periodo il mio lavoro principale fu quello di accompagnare verso le linee alleate, dalla città, i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento italiani dopo l’ 8 settembre. Li accompagnavo in bicicletta, in viaggi che duravano giornate intere: 50 chilometri, anche, ad andare, e 50 a tornare. Bisognava passare attraverso i posti di blocco tedeschi ma per me era abbastanza facile in quanto ero una bambina dall’ aspetto molto infantile. Portavo ancora le trecce. Una volta, dinanzi a un posto di blocco tedesco, un ex prigioniero sudafricano (travestito da ferroviere) mi cadde. Sapeva andare malissimo in bicicletta. Io cominciai a parlargli in italiano e lo tirai su. Le due sentinelle tedesche non prestarono la minima attenzione. Un’altra volta mi cadde, sfasciandosi, in piena città, un enorme pacco di Non mollare, il giornale clandestino del Partito d’ Azione. E, anche allora, nessuno mi prestò la minima attenzione. Insomma molti incarichi mi venivano affidati proprio perché passavo inosservata. Lavorai col gruppo di “Giustizia e Libertà”, squadre di azione cittadina, dalla fine del 1943 fino alla liberazione di Firenze: agosto 1944. All’ inizio del 1944 mio padre venne arrestato. Avevano scoperto un deposito di armi che tenevamo in via Guicciardini: le armi paracadutate dagli americani sul Monte Giovi. Il babbo venne torturato per diversi giorni, assieme agli altri, e più volte minacciato di fucilazione. Se la cavò per miracolo. Io tuttavia continuai a rendere piccoli servizi col gruppo di Giustizia e Libertà. Avevo tutti gli indirizzi e gli pseudonimi, nonché i nomi veri, dei compagni appartenenti alle cellule di città. Li tenevo dentro una zucca vuota (dall’apparenza fresca) ciondoloni a una pianta nell’orto di un convento dove eravamo nascoste: io, mia madre, le mie sorelline Néera e Paola. Sotto la paglia tenevo la stampa clandestina.
 
Il giorno della strage di piazza Torquato Tasso (il convento era vicinissimo) fummo circondati. Riuscii, sotto gli occhi dei militi fascisti e tedeschi, a portare in casa il materiale propagandistico e bruciarlo nella stufa. Poi mi mangiai tutti i foglietti della zucca. Non c’ era altro da fare ma in seguito a ciò venni aspramente rimproverata: quando giunse la vigilia della Liberazione di Firenze, per colpa mia mancavano tutti gli indirizzi necessari a mettere insieme i gruppi partigiani. Furono messi insieme, alla fine, con difficoltà. La guerra insomma la vissi e la soffrii in pieno, malgrado la mia giovane età. Proprio nel periodo in cui mio padre era in carcere, la mia casa venne più volte bombardata. Tra i ricordi più cupi della mia infanzia e della adolescenza v’ è quello delle bombe che cadono, delle corse folli sotto le bombe. Non mi persi un bombardamento: uno scherzo del destino mi faceva trovare sempre, per l’ appunto, nel luogo colpito. Non mi successe mai nulla. Nel pericolo ho sempre avuto una strana anzi straordinaria fortuna. Ma in quegli anni imparai a odiare la guerra, le bombe, i fucili, tutto ciò che spara. Imparai a comprenderne la illogicità, la imbecillità, la follia. Anch’ io, a mio modo, sì, facevo la guerra: ma non per attaccare. Per difendermi. Devo aggiungere infatti che ero, malgrado le mie treccine, totalmente consapevole di ciò che facevo: proprio come lo sarebbe, oggi, un bambino vietcong. Ma non ho mai sparato. Non ho mai ammazzato nessuno. Non ho mai partecipato a una azione che provocasse sangue. E oggi, a maggior ragione, farei lo stesso. Sono pronta a farmi uccidere, se indispensabile; mai a uccidere.
 
Forse proprio per rivolta a tutto quel dolore, quel sangue versato troppo presto, quando venne il momento di iscriversi all’università, scelsi medicina. La scelta della facoltà fu un dramma, lungo e penoso, anche perché a 16 anni non si possono avere idee molto chiare di ciò che si vuol fare del proprio futuro. Mi piaceva scrivere, scrivevo bene, e volevo scrivere: sì. Anzi, questo era un punto fermo. Ma allo stesso tempo volevo fare qualcosa di diverso, o di più. Così mi decisi per medicina: pensando che, dopotutto, molti scrittori avevano studiato medicina. Restai a medicina molto poco. Non potevo mantenermi da sola all’università: mio padre, su questo punto, era stato chiaro fin dall’inizio. Non aveva i soldi per farmi studiare sei anni ancora. Dovevo andare a lavorare: per pagare le tasse, per mantenermi. E ben presto apparve evidente che non si può allo stesso tempo avere un lavoro e frequentare una facoltà impegnativa come quella di medicina. Costretta a una scelta tra la medicina che per molti anni ancora non mi avrebbe dato da vivere e un lavoro che già mi dava da vivere, scelsi il lavoro. Era un lavoro di reporter.

Libano, 1983. Oriana Fallaci insieme ad alcuni militari, tra i quali il futuro astronauta Paolo Nespoli, alla sua sinistra.

A sedici anni e mezzo m’ero presentata senza raccomandazioni al capocronista del Mattino dell’Italia Centrale, a Firenze, e gli avevo chiesto di farmi lavorare. Perché un giornale e non qualcos’altro? Perché mi venne spontaneo cercare lavoro in un giornale. Anzi, non pensai mai a un altro lavoro che non fosse il lavoro in un giornale. Il capocronista mi trattò all’inizio con una certa ironia. Dimostravo meno della mia età, avevo i calzini corti e le scarpe basse, non mi truccavo. E in più ero così piccola di statura e magrolina. Mi chiese di “tentare” un capocronaca. Glielo scrissi a mano così rivelando di non saper scrivere nemmeno a macchina. Urlando disse che nei giornali si scrive a macchina, non a mano, e mi buttò dinanzi a una macchina da scrivere. Con un dito, per un pomeriggio interminabile, copiai il mio capocronaca che, stranamente, venne pubblicato. Era una specie di satira di costume sulle mamme che accompagnavano le figlie ai dancing lungo il fiume Arno, affinché vi trovassero il marito. Da quello ne seguirono altri e, presto, l’ incarico di reporter di nera: così vengono chiamati nei quotidiani i cronisti che si occupano dei fattacci, delle disgrazie, eccetera. Facevo il giro dei commissariati, degli ospedali, in bicicletta, alla periferia, anche due o tre volte al giorno. (Gli altri avevano l’ automobile invece). La sera invece pensavo alla cronaca delle province. Lavoravo fino alle due o alle tre del mattino. Rientravo a casa col primo camioncino che portava i giornali impacchettati alla stazione. La mattina mi svegliavo alle sette e alle otto andavo all’università. Ci restavo fino a mezzogiorno, talvolta ci tornavo nel pomeriggio, ma avevo sempre sonno, ero sempre così stanca. In pochi mesi scesi a 38 e poi a 37 chili. Mi ammalai e fu allora che decisi di lasciare l’ università, dedicarmi completamente al giornalismo.
 
Lo feci con qualche rimpianto, ma non troppo. Già ad anatomia, in fondo, m’ero resa conto che quello non era un mestiere per me. La vista dei cadaveri mi dava fastidio, dissezionare un piede o una mano o un pezzo di volto mi turbava profondamente. In più lo studio della medicina richiedeva uno sforzo mnemonico di cui non ero capace, e presto mi accorsi che una vita regolare e pianificata non era propria nel mio carattere, inquieto per natura. Io volevo vedere il mondo, volevo viaggiare, conoscere gente diversa. Quella della medicina era una scelta sbagliata perché non sostenuta da una vocazione schietta. Solo da una ammirazione profonda per quello studio e quel mestiere, in più da una sorta di venerazione che avevo sempre provato (e provo ancora) per la scienza di cui non capivo nulla. Senza dubbio, se avessi insistito, se avessi superato i timori e le incertezze dei 16 e dei 17 anni, se non mi fossi distratta subito coi giornali, se avessi avuto il denaro necessario, sarei riuscito a diventare un medico. E, in tal caso, un buon medico. Perché, in sostanza, sono sempre riuscita a portare in fondo ciò che volevo veramente fare. E a farlo bene. Ma dubito che sarei stata una persona felice, completa.
 
Decisamente, la mia strada era quella che ho presa. A 17 anni ero passata a occuparmi anche di cronaca giudiziaria. Prima la Pretura, poi il Tribunale, poi la Corte d’Assise. Per diversi anni feci la cronaca di processi, anche celebri. Sempre per il Mattino dell’Italia Centrale cui appartenevo ormai ufficialmente. Poi, il giorno in cui compii 20 anni, scrissi qualcosa per L’Europeo che allora si stampava in grande formato, come L’Espresso di oggi, ed era diretto da Arrigo Benedetti. Lavorare per L’Europeo era sempre stato il mio sogno segreto: era il giornale di maggior prestigio, il più intelligente e il più bello. Ma non sapevo come. Un giorno accadde a Fiesole un episodio affascinante: morì un comunista e la Chiesa gli negò la sepoltura in terra consacrata e con la cerimonia religiosa. (Mi pare che proprio in quel periodo i comunisti venivano considerati scomunicati, ma su ciò non sono certa: controllare). Allora i compagni di quel comunista si vestirono da preti, impararono a memoria le preghiere funebri e inscenarono un funerale religioso. Scrissi questa storia, insieme divertente e commovente. La mandai a Benedetti che la pubblicò con un grande splendido titolo: “Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini”. Incominciò dunque la mia collaborazione a L’Europeo, saltuaria; si interruppe solo quando venni assunta da Epoca come collaboratrice. Proprio quell’Epoca dove mi sarei ritrovata lo zio Direttore.
 
Come collaboratrice di Epoca lavorai fino al giorno in cui venni licenziata dal Mattino dell’Italia Centrale. Venni licenziata per ragioni politiche. Il giornale era democristiano, io tutt’altro che democristiana. Ero socialista sebbene non fossi iscritta al partito. (Il solo partito cui fui mai iscritta fu il Partito d’Azione che poi morì). Non ci trovavamo d’accordo su troppi punti. Finì come doveva finire. E passai del tutto a Epoca, come redattore. Qui rimasi due anni o tre, cioè fino quando non venni assunta da L’Europeo. Nel 1954, mi pare, mi stancai di stare a Firenze. Misi poche cose dentro un’ unica valigia e, senza avere la minima idea di dove sarei andata ad abitare, presi il treno per Roma. Qui mi stabilii in una cameretta d’ affitto e vissi un anno: scrivendo per L’Europeo di fatti romani. Era il periodo splendido di Roma, quello di via Veneto, dei divi americani che ci venivano in pellegrinaggio.

Oriana Fallaci ritratta al lavoro nel suo studio di Lamole, nel Chianti.

Scrivevo in massima parte di queste cose, spesso frivole, ma sempre viste da me con un sopracciglio rialzato. La mia severità non si addiceva a quell’ambiente. Gravava sulla mia formazione il periodo partigiano. Così colmo di ideali e di contestazione. Finita la guerra, quando l’ Esercito di Liberazione partigiano era stato equiparato all’Esercito normale, ero stata congedata col grado di soldato semplice. (Ufficialmente sono ancora in congedo, quale soldato semplice, dell’ Esercito italiano). Ero piena di critiche e di delusioni per un mondo che interpretavo soltanto attraverso la sua superficialità. Interpretazione del tutto giovanile, ovvio, e anche poco profonda. Ma i giovani sono spesso superficiali perché non indulgenti. Come dice Pietro Nenni, i giovani credono sempre che il mondo incominci con loro. Comunque fui contenta di lasciare Roma quando, un anno dopo, venni chiamata alla redazione milanese de L’Europeo. Milano non mi aveva mai sedotta però mi sembrava una città seria, rispettabile. Mi stabilii a Milano e vi rimasi otto anni. Milano non era per me una città allegra. Però in quegli anni viaggiai molto. E questo era ciò che volevo. A viaggiare, del resto, avevo incominciato molto presto: da sola. A 18 anni ero stata in Inghilterra, in Irlanda, in Francia: “per vedere”. E anche perché ci tenevo a conoscere i Paesi che, sotto il fascismo, mio padre citava sempre come “i Paesi della democrazia”. Io non avevo conosciuto la democrazia. Ero nata quando Mussolini era già al potere da tempo e, sotto la sua dittatura, ero cresciuta. Comunque, abitando come base a Milano, viaggiavo molto per L’Europeo. Nel 1955 fui per la prima volta negli Stati Uniti. Nel 1956 fui in Ungheria per scrivere dell’insurrezione ungherese. (Non giunsi mai a Budapest, però. Venni fermata dai russi presso Gyor). E poi fui in tutti i Paesi d’Europa, altre volte negli Stati Uniti dove scrissi il mio primo lungo reportage a puntate: “Hollywood vista dal buco della serratura”. E, mi pare nel 1960, feci il mio primo giro del mondo: per scrivere delle donne. Fui in Medio Oriente, in Oriente. Ne cavai un lungo reportage (Viaggio intorno alla donna) e poi il libro Il sesso inutile. La conoscenza dell’inglese mi aiutava molto. Conosco l’inglese fin da bambina; il francese invece l’ho imparato molto più tardi, da sola. E anche un po’ di spagnolo. Il tedesco lo ignoro completamente. E così le altre lingue. Salvo una dozzina di parole indispensabili in vietnamita.
 
Cinque anni fa lasciai Milano. Disfeci la mia casa milanese, una mansarda di quattro stanze, assai graziosa, misi l’indispensabile in due piccoli bauli e, ripetendo il gesto del giorno in cui m’ero recata a Roma senza saper neanche dove avrei abitato, andai a New York. Lì abito, ufficialmente, non so per quanto ancora, in un piccolo appartamento di un grattacielo di Manhattan nella East Side. Dico ufficialmente perché ci sto pochissimo, sono sempre in giro per il mondo.
 
Comunque la mia vera casa non è quella. Io considero la mia vera casa la villa che ho a Greve in Chianti: un insieme rustico e bello, dove abitano anche i miei genitori con la mia sorellina. È tutto. Non sono sposata. Non ho mai pensato a sposarmi. Anche se mi considero sposatissima con l’uomo che amo da anni. Non ho figli, purtroppo non sono mai riuscita ad averne. Ciò per molto tempo mi ha addolorato ma ora non mi turba più. Vivo bene così. Le altre notizie biografiche si caveranno facilmente dai libri (Il sesso inutile, Penelope alla guerra, Gli antipatici, Se il sole muore, Niente e così sia) perché tutti i miei libri sono scritti in prima persona, generalmente, e hanno comunque uno sfondo biografico. Non dicono solo la mia altezza (un metro e 56 scarsi) e il mio peso: che oscilla tra i 42 e i 43 chili. La gente, quando mi conosce rimane sorpresa da tanta pochezza. E io allargo le braccia e dico: “Tutto qui”. (Oriana Fallaci)

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Un brano del dattiloscritto autobiografico di Oriana Fallaci mandato da New York a Salvatore Giannella.

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