Alfredo Paolella (1928-1978)

Alfredo Paolella (1928-1978)

  Nel periodo dell’università a Napoli ho avuto ottimi insegnanti. Mi sono laureato con una tesi in antropologia criminale: il mio professore, il medico legale Alfredo Paolella (Benevento, 1928 – Napoli, 1978), direttore del Centro di osservazione criminologiche per le regioni Campania, Basilicata e Puglia con sede nel carcere di Poggioreale, era stato uno dei padri della riforma penitenziaria che fu varata nel 1975 e che, per il recupero dei condannati, si ispirava ai princìpi stabiliti dall’articolo 27 della Costituzione.

Per questo, in un agguato nel garage di casa sua al Vomero l’11 ottobre 1978, fu ammazzato da terroristi di Prima Linea: me lo disse uno di quelli che aveva partecipato all’agguato che trovai, anni dopo, detenuto in un carcere. Diceva di essersi pentito.

Proprio per l’indirizzo di base che avevo fatto scegliendo la laurea in legge e questo tipo di specializzazione, ho cercato di applicare quei valori, quando mi sono ritrovato a lavorare nell’Amministrazione penitenziaria. Ovvero rendere dignitosi i luoghi di pena e lavorare per il reinserimento sociale del condannato.

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Carcere di Bollate (Milano), giugno 2011, festa di saluto del direttore uscente Lucia Castellano.
Da sinistra: Valerio Onida, giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale; Lucia Castellano, già assessore alla Casa, Lavori Pubblici e Demanio del Comune di Milano con la giunta Pisapia; Luigi Pagano, autore del testo per Giannella Channel; Silvia Polleri, della cooperativa Abc di catering del carcere; e Massimo Parisi, nuovo direttore a Bollate.

In verità nei princìpi ispiratori di quella legge si coglieva anche l’idea che il carcere dovesse essere utilizzato come extrema ratio. Questo può sembrare evidente per gli imputati, quando il processo è ancora in fase di celebrazione, ma deve esserlo anche per i condannati.

Queste idee, questi valori che trent’anni fa ci entusiasmarono quale conquista di civiltà giuridica e sociale, oggi sembrano essere ripiegati su se stessi. La grave situazione di sovraffollamento, la negazione di quei valori, è sotto gli occhi di tutti ma pochi si impegnano nei fatti, quasi come se questa realtà sia dovuta a una maledizione biblica e non a scelte umane.

Le cose avvengono se si vuole, possiamo cambiare questo stato di cose, ricordando quello che dovrebbe essere un carcere in un Paese civile qual è l’Italia e lavorando per cambiarlo, convinti che il problema non riguarda solo gli addetti al settore (direttori, educatori, poliziotti penitenziari) ma la società nel suo complesso.

Perché, come avvertiva Voltaire, la civiltà di un popolo non si valuta dalla magnificanza dei suoi palazzi ma dallo stato delle sue prigioni.  

luigi-pagano* Luigi Pagano, napoletano, classe 1954, dal 2004 provveditore generale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, nella primavera 2012 ha lasciato Milano per Roma, dove è andato a ricoprire l’incarico vice capo dipartimento del Dap. Come direttore delle carceri, Pagano è noto per aver “guidato”, dal 1989 fino al 2004, il carcere milanese di San Vittore, ma prima di allora aveva avuto esperienze nelle realtà più difficili del sistema penitenziario italiano, come Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero. «Ho avuto un posto in prima fila nella storia d’Italia», riconosce Pagano che, dalle carceri, ha vissuto il terrorismo, la grande criminalità interna e “Mani Pulite”. Costantemente attento alla tutela dell’ordine e della sicurezza in carcere, Pagano ha sempre avuto grande attenzione per tutto ciò che comporta il reinserimento dei detenuti anche perché, spiega, «le carceri chiuse in se stesse generano solo criminalità».