Segnatevi questa data sul’agenda: Parma, venerdì 22 novembre alle ore 9, Oratorio Novo dell’Istituzione Biblioteche del Comune di Parma (vicolo Santa Maria, 5). Viene presentato il settimo e ultimo volume della preziosa opera “Storia delle scienze agrarie”, di Antonio Saltini, che ci fa ripercorrere le principali innovazioni in agricoltura di questi ultimi decenni e ci informa su quelle future. Sullo sfondo, la sfida tra le conoscenze agronomiche e la crescita impetuosa della popolazione della Terra. Tra i relatori della mattinata, Francesco Salamini, autorevole scienziato e botanico che presiede la Fondazione Edmund Mach in Trentino. Di Salamini ospitiamo volentieri questo intervento sull’agricoltura moderna e il falso mito dell’agricoltura di una volta. (s. gian.)

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Francesco Salamini (Castelnuovo Bocca d’Adda, 1939) è uno scienziato e botanico italiano. È stato professore di Botanica e fisiologia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Piacenza e Direttore della Sezione Maiscoltura di Bergamo dell’Istituto sperimentale per la Cerealicoltura di Roma. È stato dal 1985 al 2002 il direttore dipartimento di Miglioramento genetico e fisiologia delle piante al Max-Planck di Colonia che è la più importante istituzione europea del settore. Tornato in Italia è coordinatore nazionale del “Piano nazionale per la Biotecnologia vegetale” del Ministero dell’agricoltura. Collabora come esperto scientifico alla realizzazione dell’Expo 2015 confermato poi nel Comitato scientifico. L’11 settembre 2009 è stato nominato dalla Giunta provinciale di Trento presidente dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige e della Fondazione Edmund Mach. È Accademico dei Lincei.

Scegliere e ordinare le parole è da scrittori bravi. Se poi si evocano nel lettore emozioni e sentimenti, lo scritto, oltre al valore della forma, piega la coscienza al consenso, inducendola a considerare vero il messaggio. Lo sanno i romanzieri: non di rado avvertono il lettore che personaggi ed eventi descritti sono immaginari, quasi a scusarsi dell’eccesso di credibilità del loro prodotto e degli inganni nascosti. È un monito che non viene ricordato dagli scrittori o dai narratori nostalgici dell’agricoltura di un tempo (cito per tutti la Susanna Tamaro, autrice di un recente articolo su OGM e papaveri sul Corriere della Sera): lei ha allineato bene le parole e toccato corde profonde del sentire. Ma, essendo per lei un tema inconsueto, ha forse nascosto un inganno ai lettori, rendendo così ambigua la sua doglianza. I greci assegnarono alla pavoncella il nome polyplagktos “seduce con l’inganno” (Robert Graves, La Dea bianca, Adelphi): l’uccello, per confondere il raccoglitore di uova, devia l’attenzione di chi disturba il nido svolazzando vicino a terra e fingendo d’essere ferito: camuffa, così, il suo segreto.

Nel testo della Tamaro affiorano interpretazioni scientifiche che altri hanno criticato. Esse sono, a mio parere, meno rilevanti nel confronto con l’inadeguata visione messa a sfondo delle riflessioni sulla ruralità di oggi e i suoi contenuti (l’autrice è negativa sullo sfondo agricolo che fa da contorno al suo ragionare, definendolo un finto fondale). E’ su questo tema che voglio intrattenere i lettori di Giannella Channel che so attenti alle tematiche delle scienze agrarie.

Jared Diamond (Guns, Germs and steel, 1988) ritiene che due eventi principali abbiano accelerato lo sviluppo delle società umane. Il primo, genetico, corrisponde a nuove funzioni acquisite dal cervello tra 100 e 40 mila anni fa, funzioni manifestatesi poi nel “grande balzo in avanti” (arte, senso del religioso, linguaggio, culture). Il secondo fu l’adozione, in continenti diversi, dello stile di vita sedentario, avvenuta la prima volta 11.000 anni fa nella regione del Medio Oriente nota come Mezzaluna Fertile. Qui i Natufiani impararono ad abitare permanentemente una casa. Rispetto ai gruppi di raccoglitori-cacciatori che conducevano vita nomade, gli stanziali concepirono e allevarono più figli e si organizzarono in villaggi. A quel tempo la flora della Mezzaluna Fertile includeva i progenitori selvatici dei cereali che furono addomesticati e coltivati, dopo che mille anni di clima freddo avevano falcidiato la resa della loro raccolta in natura. L’invenzione dell’agricoltura segnò la nascita delle civiltà organizzate e la sedentarietà divenne il solo stile di vita (gli zingari, forse, rappresentano ancora oggi i gruppi tardo paleolitici non stanziali). La ragione? Un ettaro di terra coltivata può nutrire da 10 a 100 volte più uomini della stessa superficie sfruttata da raccoglitori-cacciatori. Residenzialità e produzione intenzionale di cibo contribuirono a una nuova percezione che gli uomini avevano di se stessi, inducendo spostamenti irreversibili nella loro scala di priorità dei costumi-valori-diritti.

Tutto cambiava: meno bimbi morti, cibo conservato per la stagione fredda, migrazioni delle popolazioni verso nord e sud, proprietà privata, divisione del lavoro, arte, vita religiosa e Stato. Il prezzo? L’invasione degli ecosistemi naturali, il regresso dei contenuti naturalistici del territorio, l’urbanizzazione, la perdita di biodiversità, le bonifiche degli ambienti umidi, salsi, scoscesi, aridi. Il constatarlo implica, tuttavia, che il giudizio sul costo ambientale non prescinda dal censimento e dal confronto con i benefici derivati.

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La scena della scartocciatura del granoturco in L’albero degli zoccoli,
un film del 1978 diretto da Ermanno Olmi, vincitore della Palma d’oro
al 31º Festival di Cannes. Il film fu girato nel dialetto bergamasco
della zona in cui l’opera è ambientata e fu poi doppiato in italiano
dagli stessi attori per la distribuzione italiana. Tutti gli attori
sono contadini e gente della campagna bergamasca
senza alcuna precedente esperienza di recitazione.

L’agricoltura è con noi da 11 mila anni. Se si escludono la sua espansione planetaria e l’introduzione di nuove piante dalle Americhe, fino a un secolo fa era ancora quella neolitica: i frumenti romani producevano tre volte il peso della semente, così come nel 18° secolo in Lombardia e 50 anni fa nelle aree interne dell’Appennino. Dopo l’ultima guerra mondiale la domanda di cibo e l’efficienza della sua produzione aumentarono. E, inevitabilmente, insieme a molti altri segni del passato, diminuirono i papaveri. Si avverava la previsione maltusiana che l’aumento delle popolazioni umane stesse diventando insostenibile per l’ambiente, o c’era qualcosa d’altro? C’era, e come. La tecnologia produttiva dei beni di consumo, anche alimentari, li rendeva finalmente disponibili e accessibili allo strato più numeroso della popolazione, il proletariato, sottoproletariato incluso.

L’accesso ai beni di consumo si offrì al desiderio plurisecolare di riscatto dei poveri, in maggioranza dediti a coltivare i campi. Erano tanti: l’Italia è uscita dalla seconda guerra mondiale con il 46% dei lavoratori attivi nella produzione del cibo; oggi sono appena il 3-4%. Fu il progresso: nel mondo, all’aumento, negli ultimi 60 anni, di sei volte dell’uso di concimi chimici, le nuove varietà della rivoluzione verde risposero con la decuplicazione delle rese (in Italia, nel 1945 il mais produceva 12 quintali per ettaro di terra, più di 110 oggi). Soprattutto, il consumo di carne diventò uno status symbol, non importa se per produrne un chilogrammo sono necessari da 3 a 7 di cereali; la Cina ripercorre oggi, quasi con accanimento, la stessa strada consumistica. Riflessioni come le ultime hanno sicuramente ispirato il nostalgico e accorato richiamo delle persone come la Tamaro. Ci si può però chiedere se sia corretto il riferimento della scrittrice all’età dell’oro dell’equilibrio silvo-pastorale delle società preindustriali: paesaggi mossi, vivi, tersi, assimilabili quasi al Paradiso in terra.

Agli occhi dei cacciatori-raccoglitori (i grandi sconfitti dell’avventura che dura, per la nostra specie, da 200 mila anni), i primi campi recintati e coltivati devono aver rappresentato una sorpresa anche estetica. Jorge Louis Borges (Le cause, Storie della notte, 1974) sostiene che il Paradiso è “ordinato”. Da qui l’intuizione che le terre coltivate dei primi agricoltori e l’abbondanza del loro cibo fossero qualcosa di desiderabile e superiore in termini di qualità della vita, erano visti cioè come un Paradiso. Non è secondario aggiungere che l’esercizio di filosofi e teologi improvvisatisi geografi per localizzare l’Eden (Scafi, 2006, Mapping Paradise) li veda concordi nel segnalarlo presso le sorgenti del Tigri ed Eufrate, proprio dove iniziò la rivoluzione agricola del Neolitico mesopotamico. Ma questo scenario agricolo era un fondale “vero” o aveva anch’esso le sue imperfezioni?

Per come l’ho vissuto e lo ricordo io, nell’attimo durato 5 anni prima che, dopo 11 mila anni, svanisse per sempre (almeno dalle nostre terre; mi riferisco al primissimo dopoguerra, dal 1945 al 1950, più o meno) e per come posso immaginarlo negli anni del ventennio italiano tra le due guerre, non esprimeva i valori che la nostalgia della Tamaro farebbe immaginare. Esteticamente apparirebbe suggestiva, per esempio, l’immagine di schiene sudate dei mietitori in fila che falciano il grano a mano; peccato che, anche in Lombardia, fossero in larga maggioranza analfabeti. (Per non parlare del Mezzogiorno, dove Giuseppe Di Vittorio dovette chiamare l’esule antifascista Gaetano Salvemini per istituire nel Tavoliere pugliese la scuola della firma per i braccianti analfabeti e favorire così i contratti notarili per la distribuzione delle terre incolte).

Similmente è vezzo comune parlare delle buone pietanze di una volta; ancora peccato, ma in quegli anni a casa la sera mangiavo riso e verze, a pranzo spesso la polenta, il manzo lesso a Natale e la gallina alla domenica; e così, sospetto, erano allora i mezzogiorni e le sere dei contadini del basso lodigiano. Le piccole casse da morto dei bambini passavano spesso davanti a casa, percorrendo la via che ancora oggi porta al cimitero; qui le sepolture degli infanti occupavano in gruppo un loro spazio. Anche noi ragazzi conoscevamo i papaveri; soprattutto perché strappandoli dai campi di frumento, dove la loro presenza riduceva i raccolti, lasciavano le mani nere e appiccicose, incrostate del lattice che queste piante secernono.

Certo, quelle comunità rurali esprimevano valori forti: religiosità, solidarietà, onestà sul lavoro, attenzione al povero; ma nella sua quotidianità la vita era culturalmente scarsa, vaga e sconosciuta l’idea del mondo, casuale o quasi la capacità di disegnarsi un futuro o una professione fuori dai campi. Al punto di invidiare le ragazze che, in giugno, venivano mandate in Lomellina, sfuggendo così allo scorrere noioso della vita di paese: in quelle aziende trapiantavano e diserbavano manualmente il riso, lavoro agricolo che è stato descritto come uno dei più faticosi!

Decidano i lettori a quale risultato conduce il confronto tra i due fondali agricoli: quello di adesso esposto dalla scrittrice e da altri nostalgici e quello di “allora” che ho tentato di delineare. Il futuro proporrà tecnologie e regole sociali dove le positività dei due scenari forse si sommeranno sinergicamente. Con una nota: l’Italia importa il 40% delle proteine e calorie consumate. Ciò nonostante, larghi strati della popolazione ricordano con nostalgia le agricolture di “una volta”. Se riadottate, e nella misura in cui producessero meno del possibile, accertato inoltre che l’attività agricola ha effetti negativi sull’ambiente, praticarle significherebbe esportare parte del problema ecologico nelle regioni del pianeta che vendono le derrate eventualmente non prodotte nei nostri campi. Lascio al lettore scegliere come e dove scoprire gli inganni nell’articolo commentato e nel mio. Vorrei, però, che prima di giudicare riflettesse su un passo ripreso da Matt Ridley (The origins of virtue, 1996): la nostra specie tende a eliminare il negativo e a sentimentalizzare il positivo.

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