SI, MI RICORDO: AGONIA E MORTE DI UN SOMMERGIBILE IN ADRIATICO
(NEI GIORNI COL FIATO SOSPESO PER IL TITAN)


Testo di Salvatore Giannella

In molti, durante le ore di vana ricerca del sommergibilino Titan disperso nell’oceano Atlantico con cinque persone a bordo, si sono chiesti che cosa succede a persone intrappolate sotto migliaia di metri cubi d’acqua, Una testimonianza in grado di svelare questo alternarsi di angoscia e speranza la raccolsi a Padova nel settembre del 2000 quando una vicenda simile per alcuni versi al Titan e per molti altri al Kursk (il sottomarino nucleare russo, agonizzante quell’anno nel Mare di Barents) mi fu raccontata da un geologo e insegnante di matematica: Isidoro Wiel Marin, nipote di Isidoro Wiel, comandante del sottomarino italiano F.14, perito con il suo equipaggio in fondo al mare Adriatico. Una storia che, grazie a quella testimonianza corredata dalle carte ingiallite dell’archivio della Marina a Roma, ridisegnai come in un film su Oggi del 27 settembre del 2000.

 

L’alba del 7 agosto 1928 una formazione navale italiana si trova al largo dell’isola di San Giovanni in Pelago in rotta verso Pola e composta dagli esploratori Brindisi e Aquila scortati da otto cacciatorpediniere della 5* flottiglia. Le navi provengono da Trieste e nella notte hanno svolto delle esercitazioni tattiche.  Rimangono da compiere le manovre difensive contro due attacchi di sommergibili usciti nel frattempo da Pola. Per prudenza i due sottomarini (F.14 e F.15) conoscono la rotta delle navi di superficie, e queste conoscono la zona in cui saranno attaccate. Il lancio dei siluri e simulato: nel punto in cui essi partiranno, i sommergibili affioreranno comunicando alle navi i dati teorici, poi (in porto) si faranno i conti e si giudicherà se il lancio effettivo è stato efficace.

 

La svolta tragica dell’esercitazione è sintetizzata nel telegramma mandato al ministero dall’ammiraglio capo, Antonio Foschini: “Ore 8:45 mentre l’F.14 attaccava la formazione, emergeva sotto la prora del Missori che lo investiva affondandola stop Ritengolo perduto stop”.

Il sommergibile per un errore di percezione è fuoriuscito proprio sulla rotta dei cacciatorpediniere e uno di questi lo ha investito aprendogli uno squarcio sul fianco. In pochi secondi l’F 14 va a fondo, 40 metri sotto. Dalle navi in superficie scendono i palombari ma appare chiaro che non sarà facile il recupero senza mezzi speciali: il tempo è brutto, il mare agitato ostacola le manovre delle imbarcazioni, l’acqua del fondo è torbida.

Dal gemello F.15 partono i messaggi con il Fessenden, telegrafo acustico subacqueo. Dall’F.14 emergono deboli battute: “Per ora tutto bene. Siamo inclinati di 70 gradi. La poppa tocca il fondo. siamo 23”. In quella cifra c’è la prima notizia: l’equipaggio dell’F14 era di 27 uomini, quattro dunque sono già morti annegati per l’acqua entrata nello squarcio.

Il quadro appare subito disperato: i 23 superstiti sono chiusi nello scafo dalle sei del mattino in uno spazio di circa 50 metri cubi (quello di una stanza di una casa) e l’aria interna può bastare per sole 10 ore. Bisogna rintracciare il sommergibile al più presto per rifornirlo d’aria attraverso le valvole per l’innesto delle manichette da palombaro. L’F.14, superstite della prima guerra mondiale, non ha i moderni mezzi di fuoriuscita dell’equipaggio e, per salvare gli uomini rimasti intrappolati all’interno, bisogna riportarlo in superficie.

Col passare del tempo in ricerche vane, i marinai prigionieri sono sempre più allarmati. Alle 12:57 il radiotelegrafista dell’F14 (il polesano Garibaldi Trolis, affiancato dal capitano Wiel, che riporta il diario sul brogliaccio di bordo) batte: “Noi stiamo bene, ma fate presto. Ci avete individuati? Potrete alzarci nella posizione in cui ci troviamo?”. Replica l’F15. “Stiamo individuandovi. Coraggio e calma. Potremmo alzarvi”.

Ma le ricerche continuano a essere vane. Ore 14:45: altra domanda angosciosa: “Siamo stati individuati?”. Dall’altro capo del Fessenden non si ha l’animo di dire la verità. “Sì, coraggio”. Una pietosa bugia. In quel momento arriva nella zona da Pola la prima spedizione di soccorso con quattro palombari che subito si immergono.

 

Il comandante del sommergibile F.14, Isidoro Wiel. (fonte: Grupsom). Nella foto d’apertura: il sottomarino prima della tragedia.

Alle 18 l’acqua vibra di un nuovo segnale che pare un grido di ribellione alla morte imminente. “Presto, qui si muore…”. E, alle 18:10: “Mollate un capitello. Proprio qui”. Già, i moribondi hanno sentito vicinissimi rumori esterni e, con uno sforzo supremo si sono scossi dal torpore dell’asfissia. Dall’F.15: “Coraggio, vi siamo sopra. Fra poco vi manderemo aria”. Quella gara tragica con la morte sta finendo. Da giù invocano sempre più lentamente: “Fate… presto…”, poi battono alcuni colpi debolissimi; infine tutto tace. Sono le 18:30, poco più di dodici ore dopo la prima immersione.

Proprio in quell’istante un palombaro ha visto l’F.14. Finalmente. Subito l’F.15 segnala verso il fondo. “Il palombaro vi ha trovato. Ora avrete aria. Coraggio”. Dopo un’ora di silenzio, dall’F.14, forse rianimati ancora dei rumori fatti dai soccorritori per allacciare il tubo dell’aria sullo scavo, viene ripetuta la tragica invocazione: “Sì. siete qui. Fate presto”.

Ma nella tragica gara la morte ha un soffio di vantaggio: alle 19:50 il Fessenden batte quasi impercettibilmente: “Ci facciamo… coraggio… ma… non… ne… possiamo… più. Sentiamo colpi… palom…bari…su…di…noi”. E’ la voce estrema di un agonizzante.

 

Scriverà poi, a corredo di una ricostruzione apparsa su Oggi (n. 31 del 1951) un ufficiale dell’F.15, Corrado Giglio: “La fine fu qualcosa di straziante. Vedevo il radiotelegrafista col capo già abbandonato muovere il tasto con lentezza, direi per abitudine, nello spasmo della morte. L’ultima pausa, come se fosse addormentato, infine un “fate presto,,, MUOIO…”  un uomo e la linea si prolungò all’infinito, dando la sensazione che il suo corpo si fosse abbattuto in avanti. La mano, asserragliata sul tasto, fu staccata quando la salma venne recuperata. Il giorno dopo, alle 18, con gli altri 26 corpi, grazie ai due pontoni-gru fatti arrivare da Venezia”.

Gli uomini dell’equipaggio sono morti asfissiati dall’assenza di ossigeno e dai vapori tossici. Tutti in atteggiamento sereno: nessuno ha tentato di suicidarsi o si è abbandonato ai furori della disperazione. Il comandante Wiel viene trovato accasciato sotto i periscopi. Il suo orologio è fermo sulle 18:50, pochi minuti dopo che il palombaro ha individuato lo scafo. La morte ha vinto davvero per un soffio. Sul brogliaccio di bordo, il comandante Wiel ha scritto nell’ultima pagina: “Serenità a bordo. Si pensa a Dio, alla famiglia, alla patria”. Infine, con caratteri sempre più incerti: “Mamma, povera mamma, sii forte come le mamme dei…”. Segue un segno lieve e incompleto, che certamente voleva significare “marinai”.

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